domenica 1 aprile 2018

Non veder l'ora


                                                                               

    Confesso che non avevo mai ben riflettuto sull’espressione italiana non veder l’ora (di fare qualcosa), e osservo che in genere i vocabolari vi girano attorno dandone sì la spiegazione ma astenendosi dal proporne un’origine.  Tra le poche lingue che ho potuto consultare ho notato che solo lo spagnolo usa un’espressione che sembra la fotocopia di quella italiana: no ver la hora.  Non penso tuttavia che una delle due lingue l’abbia presa dall’altra, ma che ambedue la derivino da uno strato precedente risalente ad un latino parlato, perché in quello classico si usavano altri modi per esprimere lo stesso pensiero.  Comunque sia, anche se l’espressione si fosse sviluppata in una sola lingua e poi passata all’altra, resterebbe sempre il problema di capirne il significato originario, che non sembra affatto dato per scontato.  Si potrebbe essere indotti a pensare che un forte desiderio, anche quando non sia espressione di una esigenza biologica, possa provocare, in chi ne è affetto, la sensazione di perdere la vista e, per questa via, arrivare a giustificare la locuzione suddetta.  Si suole in effetti dire non ci vedo per la fame, ma, se ci si riflette, questo modo di dire non è lo stesso di non vedo l’ora di pranzare.   Il primo vuole indicare tout court la causa impediente che provoca  in me l’obnubilamento della vista, il secondo, invece, sembra tutto teso a rivelare un forte  desiderio di arrivare al pranzo, che potrebbe essere sì provocato dalla fame ma, a seconda del contesto, anche da altro, come, ad esempio, dalla voglia di andare subito dopo a divertirmi, a fare una passeggiata o a trascorrere un’ora di piacere con amici o con una donna amata, o perfino dal piacere di gustare un pranzo prelibato che fa venire l’acquolina in bocca, anche se non si fosse molto affamati.  

     Una volta chiarito il senso di fondo dell’espressione si resta tuttavia insoddisfatti quanto al significato letterale preciso.  La lettera ci informa infatti solo sul fatto che l’ora (il momento) di fare qualcosa non la si scorge e pertanto potrebbe addirittura far nascere legittimamente la convinzione che essa andrebbe a pennello per esprimere non il desiderio, ma l’impossibilità di fare alcunché. Insomma, non vedo l’ora del pranzo dovrebbe più logicamente significare che io non potrò pranzare, resterò a digiuno saltando il pranzo, e magari dovrò attendere l’ora della cena, perché sto eseguendo un lavoro materiale o mentale così coinvolgente, o così necessario, che non posso assolutamente interromperlo o procrastinarlo.  O anche perché chi solitamente ha l’incombenza di preparare il pranzo è per qualche motivo assente, ed io che non so cucinare mi debbo adattare ad un frettoloso spuntino.

   A questo punto sembrerebbe inevitabile alzare le mani in segno di resa e dedurre, senza altre spiegazioni, che a volte la lingua è veramente illogica o almeno molto irregolare nel dar vita ai pensieri che vuole comunicare.  Ma questo succede, a mio parere, perché non ci rendiamo ben conto che le parole ci pervengono spesso da tempi lontani e anche remoti, remotissimi, in cui esse potevano avere significati anche molto diversi da quelli che ora ci mostrano in superficie.  Una prova di ciò possono darcela proprio alcune radici che significavano sia ‘guardare, vedere’ che ‘aspettare, attendere’ come il franco ward-ōn ‘stare in guardia’, da cui l’it. guard-are, e il ted. wart-en ‘aspettare’. Nell’it. guard-are è rimasto solo uno dei due significati originari ma in qualche dialetto rispunta anche l’altro, come negli abr. vardà e aguardà ‘aspettare’[1].  La voce aguardà ha subìto l’evidente influsso dello sp.  a-guard-ar ‘aspettare, attendere’.  Ricordo che quando ero un ragazzo ancora imberbe, mia madre qualche volta, quando l’acqua d’estate scarseggiava, mi mandava a “guardà” o a “guardà l’acqua” in una fontanella pubblica vicino casa nostra.  Già allora il verbo mi suonava un po’ strano, giacché non potevo certo capire che esso all’origine non indicava l’azione di ‘stare a osservare’ l’acqua, cosa un po’ ridicola, ma quella di ‘attendere l’acqua’, cioè il proprio turno per attingere l’acqua, visto che molte altre persone erano lì in attesa per lo stesso motivo. E ne ho viste di zuffe fra donne inferocite le cui idee sulla fila da rispettare evidentemente non collimavano!
  Anche l’ingl. wait ‘aspettare’ deriva da a. fr. waiti-er ‘guardare attentamente, osservare’, affine ad  a.a. ted. wahta, ted. mod.  Wacht ‘guardia’ con i quali ha qualcosa da spartire il letterario it. guat-are, diverso dall’it. guard-are sopra analizzato.  La stessa storia si ripete con l’it. a-spett-are proveniente dal lat. ex-spect-are ‘aspettare, attendere’: la radice spect- corrisponde a quella di lat. spect-are ‘guardare’ tratta dal supino del verbo lat. spic-ere ’guardare, osservare’.  Il latino in verità aveva anche il verbo ad-spect-are, più affine formalmente all’it. aspettare, ma col significato di ‘guardare’, non di ‘attendere, aspettare’. L’importante è che la stessa radice –spect- poteva assumere il significato di ‘aspettare’ oltre a quello di ‘guardare’, come attesta il sopra citato lat. ex-pect-are ‘aspettare, attendere’.

    Da quanto detto si può desumere che i concetti di “guardare, osservare” e di ”attendere, aspettare’  dovevano essere talmente simili, in diverse lingue, da poter essere contenuti in una medesima radice.  E in effetti, se ci si pensa un po’, si nota che alla base dei due concetti se ne trova un altro più generico ad essi sovraordinato: quello che esprime una tensione del nostro animo o della nostra facoltà mentale verso qualcosa o qualcuno che si trova nel nostro campo visivo, nel caso del significato di ‘guardare’, o verso qualcosa o qualcuno che attendiamo dal nostro più o meno prossimo futuro, nel caso del significato di ‘attendere, aspettare’[2].

Ora, la stessa tensione deve stare dietro al verbo vid-ere, sia che esso significhi ‘vedere’, cioè esercitare la facoltà della vista e percepire visivamente qualcosa che cade sotto i nostri sensi, sia che abbia, come spect-are, il valore di ‘guardare’, ‘essere prospiciente, dare su’ e simili, giacchè nei due casi la radice esprime sempre il protendersi idealmente o della nostra mente verso l’oggetto da vedere o di un edificio, un balcone, una finestra ecc. verso un luogo su cui guardano.  Io penso che anche il lat. in-vid-ere ‘invidiare’ debba essere inteso in questo modo, e non come generalmente si fa, considerando la preposizione in- come una negazione simile a ‘male’, cosa però poco usuale, e traducendo così il tutto con ‘lanciare uno sguardo bieco’ contro qualcuno o ‘gettare il malocchio’ contro una persona.  A me sembra che questi significati siano nati allorchè il verbo si specializzò nel significato di ‘vedere’ appunto, ma precedentemente esso ne aveva uno più generico (con in- illativo ‘verso, contro’) simile, ad esempio, a quello del verbo ad-vers-ari ‘avversare, contrariare, essere ostile, ecc.’ la cui tensione contro qualcuno è evidente, pur potendosi essa trasformare in una tensione positiva nel termine corradicale ad-version-e(m) ‘attenzione’ o nel verbo ad-vert-ere ‘volgere verso, guardare, vedere, ecc.’. Il lat. in-vidi-a(m), significando  anche ‘impopolarità, avversione’ contro un uomo politico non amato dal popolo, mi pare che abbia poco a che fare col concetto di “invidia, gelosia” bensì con quello di “ostilità, avversione, antipatia’, concetti che giustificano agevolmente quello di “rigettare, rifiutare, negare, rintuzzare” che il verbo in-vid-ere pur aveva. La radice di lat. vid-ere credo sia in rapporto con quella di ted. wid-er ‘contro’, a. sass. with, with-ar ‘contro, con’ ed altre lingue germaniche.  Secondo me essa riappare, con valore positivo, anche nel verbo it. guid-are derivante, attraverso il provenzale guid-ar, dal franco wīt-an ‘inviare in una direzione, indirizzare’. E non è escluso che il lat. vit-are ‘scansare, evitare’ ci sia pervenuto attraverso il concetto di respingere o declinare qualcosa che non piace e che avversiamo . Il lat. vet-are ‘vietare, interdire, negare, impedire, opporsi’ ha tutta l’aria di essere una variante della radice vid- nel significato di ‘avversare, essere contrario’.  Lo stesso lat. In-vit-are ‘invitare, accogliere’ presuppone un’idea di “spinta, incitamento” che può essere esercitata in una direzione o in quella contraria.  In Sardegna si può  facilmente sentir qualcuno chiedere ad altri di “invitargli un gelato”, cioè di offrirgli un gelato.   Tutto si spiega riflettendo sullo sp. en-vite ‘scommessa, spintone, offerta, proposta’ che però mi sembra diverso dalla radice di sp. in-vit-ar ‘invitare’ proveniente dal latino: probabilmente era una radice che si trovava in Spagna, in Sardegna e altrove da tempi preistorici col valore generico di ‘spingere’, il quale poteva poi specializzarsi in quello di ‘porgere, offrire’ ma anche di ‘indurre, allettare, invitare’.  Anche la “scommessa” si configura come una “posta (in gioco)” o una “offerta”. 

   E’ arrivata dunque l’ora di concludere l’articolo e di dare finalmente una spiegazione all’espressione, rimasta in sospeso, da cui siamo partiti, e cioè non veder l’ora (di fare qualcosa).   Dico subito che il significato originario che a me sembra il più probabile è: non posso attendere l’ora… nel senso di non sapere, non riuscire ad aspettare, tanto sono impaziente, l’ora in cui avverrà l’evento così desiderato.  Abbiamo visto infatti che la radice di lat. vid-ere ‘vedere, guardare’ poteva benissimo, nei primordi della sua storia, avere il significato di ‘aspettare, attendere’ come altri verbi esaminati, relativi all’area del senso della vista. Sappiamo poi che il latino era una lingua concreta e diretta, per cui essa faceva solitamente a meno dei numerosi verbi cosiddetti fraseologici e spesso riempitivi come appunto sapere, potere, riuscire, volere, che in italiano si accompagnano di frequente agli infiniti di altri verbi per specificarne il colore.   Perciò  il semplice non video horam ‘non vedo l’ora’ si può rendere in italiano con ‘non riesco (non posso, non so, ecc.) a vedere l’ora…’.  Infatti una frase latina come eum non fero si tradurre ‘non lo sopporto’ o anche, ugualmente bene e a seconda dei gusti o del contesto ‘non riesco a sopportarlo’ o ‘non posso sopportarlo’ o ‘non so sopportarlo’. E’ vero che l’espressione non affiora nel latino scritto che conosciamo, ma essa poteva certamente vivere nella lingua parlata come in qualche modo dimostra la sua presenza nello spagnolo no ver la hora ‘non veder l’ora’.  Anche altre lingue europee confermano lo stesso cliché dell’attesa per esprimere lo stesso concetto, come l’ingl. I can’t wait ‘non vedo l’ora’ ma letteralmente ‘non posso (non so) aspettare’.  Ricordiamoci di aver incontrato più sopra il verbo wait ‘aspettare’ che all’origine significava anche ‘guardare, vedere’.  In inglese si usa anche la locuzione I’m looking forward to…  per esprimere lo stesso concetto, col significato letterale di ‘guardo in avanti (con impazienza) verso..’. C’è sempre questa idea di “guardare”.    In tedesco si ha l’espressione ich kann nicht die Zeit erwarten ‘non posso (non so) aspettare l’ora…’. Il verbo er-wart-en ‘aspettare’ richiama il semplice wart-en incontrato più sopra, che aveva in lingue germaniche sia il significato di ‘guardare’ che quello di ‘aspettare, attendere’.  E’ sempre lo stesso cliché!  Chi ci libererà mai dalla mortifera ripetitività presente nelle cose della lingua e della vita? Eppure, nel mio piccolo, imbocco imperterrito sentieri mai calpestati da altri!

                                                              Deo gratias!
  
  
    




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq  2004.

[2] Cfr. l’articolo Principi di gnoseologia, presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot. it, agosto 2013.

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