giovedì 27 ottobre 2016

Giochi dei significati delle parole. Ancora grecismi nei nostri dialetti.

   
  Uno degli errori, se non l’errore più gravido di conseguenze, che gli etimologi commettono quando cercano di rintracciare il valore originario di un vocabolo è quello di non tener conto della pletora di significati che qualsiasi termine può aver avuto nel corso della sua veramente lunga storia la quale, contrariamente a quello che generalmente si crede, può spingersi ben addentro al vastissimo periodo preistorico del Paleolitico.  Questo fatto, poi, è tanto più sconvolgente quanto più si constata che la mutevolezza dei significati non è causata solo dal gioco dell’estensibilità figurata del presunto significato di base di un termine, in uno stadio qualsiasi della lingua o delle lingue in cui esso o la sua radice appare, e quanto più si constata  l’importanza del gioco casuale degli incroci con altri termini apparentemente simili nella forma e talora diversissimi nel significato, ma soprattutto quanto più si constata che il significato originario di un termine è talmente generico e vasto da poter comprendere in sé uno smisurato numero di significati ad esso subordinati che lì per lì sembrerebbero reclamare un’origine non comune ma separata.  In altre parole, il lavoro dell’etimologo viene a mio parere irrimediabilmente intralciato dal pregiudizio che ogni radice sia nata per designare un concetto o un referente determinato quando invece bisognerebbe prendere atto che essa, all’origine, ha un significato genericissimo uguale a quello espresso da tutte le altre radici e che solo attraverso l’uso in un dialetto e in una lingua la radice solitamente perde il suo significato generico per acquisirne uno più specifico subordinato a quello generico, rendendo così più precisa e agevole la comunicazione tra i parlanti.

E’ quello che a mio parere è successo anche al termine storico Fara.  Fin dagli anni del liceo mi è stato insegnato che esso indicava, tra i Longobardi, un insieme di uomini o famiglie legati tra loro da vincoli di sangue che li riconducevano ad un progenitore comune e che essa costituiva la base per la creazione di un contingente militare utile per le loro continue migrazioni insieme a donne, vecchi, bambini e animali affrontate a partire dal II sec. d.C., migrazioni che li portarono ad occupare gran parte dell’Italia, dal VI sec. d.C. fino all’VIII. La Fara era insomma pressappoco il corrispettivo di quello che, con termine tedesco, oggi si indica come Sippe ‘famiglia, schiatta, prosapia’.  Molti sono i paesi che in Italia hanno il nome di Fara o Farra che, secondo tutti gli studiosi, sarebbero la prova della presenza in quelle località di fare longobarde ivi stanziatesi sotto la guida di un duca, perché ogni fara ne aveva uno.  La fara è stata vista anche come un ‘popolo in armi in movimento’, secondo l’etimologia che vorrebbe ricondurre il termine alla radice del ted. fahr-en ‘viaggiare’.  Ma così non è. Perché se è vero che deve esserci stato, fra questi due termini, un normale incrocio che ha influenzato il significato di fara, è altrettanto vero che l’etimo deve essere a mio avviso cercato altrove. 

Nell’articolo Il parapetto del mio blog[1] ho già incontrato quella che per me è la radice appropriata della parola di cui si discute.  Alla nota 4, soprattutto, ho mostrato come l’ingl. fr-iend ‘amico’, che in scozzese vale ‘parente’ come in antico alto tedesco fr-iunt ‘parente’, con sincope della vocale /a/, debba essere collegato proprio all’it. par-ente e non al lat. par-ente(m) ‘genitore’, benchè le due radici, quella che indica un singolo membro di un parentado e quella che invece designa il generatore di una singola famiglia finiscano per coincidere: si pensi, per fare un esempio, al variare di significati tra lat. gent-e(m) ‘gente’ (complesso di famiglie nella Roma antica unite dal nome, dal capostipite, dagli usi religiosi, oppure ‘popolo, razza, nazione’), ingl. kind ‘genere,tipo’, ted. Kind ‘figlio, figlia, bambino, fanciullo’, ingl. kin ‘parentado, congiunti, famiglia, parente’ e ci si renderà conto come una stessa radice possa essere usata ad indicare sia il genitore che il generato (figlio), sia la singola famiglia costituita da un insieme di membri uniti da strettissimi vincoli di sangue, sia un insieme di famiglie, sia un più generico insieme di persone o cose. Di solito  si è portati a credere che questi significati si siano sviluppati tutti da quello iniziale di generare e non si sospetta minimamente che quest’ultimo invece potrebbe essersi sviluppato, ad esempio, proprio da un’idea precedente di “gruppo, unione, congiungimento” riferita all’atto sessuale degli animali che nella procreazione sono soliti copulare, appunto, dando luogo a quell’unione che è alla base di ogni gruppo possibile ed immaginabile di uomini, animali e cose.  Questo è il motivo per cui non si può sostenere, ad esempio, che il lat. co-et-u(m) ‘radunanza, aggregazione, scontro –cfr. it. ceto’ sia diverso e posteriore al lat. co-it-u(m) ‘coito’ che vale anche ‘congiunzione’ in senso generico. Ambedue presuppongono il verbo lat. co-i-re ‘andare (-ire) insieme (co-), riunirsi, azzuffarsi, associarsi, congiungersi sessualmente’ che ci ricorda come alla base di tutti i significati specifici dorma in genere l’idea primordiale di “movimento, spinta, forza”.  Lo stesso gr. koítē, almeno nel significato di ‘canestro,cesta, paniere’,  presuppone una matrice comune con le rispettive forme latine per ‘coito’ o ‘ceto’ prima che avvenissero le relative specializzazioni : una cesta è sempre un insieme, non di uomini ma di vimini.

Tornando alla fara dei Longobardi, variante secondo me della forma para di cui parlo nell’articolo Il parapetto sopra ricordato, mi pare di poter affermare che il suo significato originario indicasse il rapporto tra uomini legati tra loro da vincoli di consanguineità per via della loro discendenza da un antenato comune: anche in questo caso, come vado dicendo spesso in questi ultimi articoli, potevo risparmiarmi la fatica di andare a trovare l’etimo giusto, potendolo ricavare, starei per dire ad occhi chiusi, dal significato fondamentale della stessa parola fara

Cose straordinarie si scoprono se si va un po’ a riflettere su alcuni termini antichi riconducibili, come tra poco vedremo, alla parola in questione.  Il lat. farre-ation-e(m) o con-farre-ation-e(m) indicava una forma di matrimonio romano tra patrizi che avveniva attraverso l’offerta di una focaccia, che forse veniva assaggiata anche dagli sposi, a Giove Farreo (cfr. lat. far ‘farro’), presenti il Pontefice Massimo, il Flamine Diale e dieci testimoni.  Il verbo lat. con-farre-are valeva ‘unire in matrimonio’.  A me sembra impossibile derivare questo significato dal nome del tipo di grano indicato apparentemente dalla radice, cioè il farro. In effetti né il significato di ‘unire’ né quello di ‘matrimonio’, che nel fondo ribadisce sempre quello di ‘unione’, si possono ricavare da questa radice per ‘farro’.  Mi sembra altrettanto impossibile che l’idea centrale espressa da questo istituto matrimoniale, quella di “unione” appunto, la si debba ricavare dal farro una cui focaccia entra a far parte della cerimonia.  Perché mai la focaccia di farro ha tutta questa importanza, ammesso che veramente l’abbia avuta?  I linguisti sono troppo frettolosi, a mio parere, quando rimandano ad essa l’etimo di con-farre-ation-e(m) senza tentare nemmeno di giustificarne in qualche modo la presenza nella cerimonia. Queste concrete difficoltà si dissolvono non appena baleni nella nostra mente l’illuminazione chiarificatrice, secondo la quale la con-farre-ation-e(m) non è altro che un termine che contiene proprio la stessa radice del termine fara, nel suo valore fondamentale di ‘unione, congiungimento’, come quello che si concretizza nel matrimonio fra i due coniugi o anche nel significato di aggregazione della sposa alla famiglia dello sposo[2].  La cosa è a mio avviso dimostrata dal termine arcaico ingl. fere ‘compagno, collega, marito, moglie’ fatto derivare erroneamente dall’antico alto tedesco far-an ‘andare, viaggiare’ come il ted. Ge-fähr-te ‘compagno, amico’, il quale quindi non significava originariamente ‘uno che viaggia insieme con un altro’ ma semplicemente ‘uno pari o appaiato ad un altro’. Naturalmente l’incrocio col verbo far-an ‘viaggiare’, che pure ci è stato, non è avvenuto senza conseguenze: ha prodotto il significato aggiuntivo e complesso di ‘compagno di viaggio’ che si affianca a quello originario di semplice ‘compagno, amico’. La radice puntualmente rispunta nel lat. ferru-men o feru-men ‘saldatura, connessione, incollatura, materia per saldare’[3]Tutto ciò provoca un nostro ammirato stupore, per l’improvvisa facilità e abbondanza di riscontri probanti per le nostre tesi, unito al senso di vicinanza che percepiamo tra le lingue europee, molto maggiore di quello che eravamo abituati a provare!  Ripeto ancora una volta (come un mantra che dovrebbe scuotere le nostre coscienze o come una sorta di fissazione tipo la “Delenda est Carthago” di catoniana memoria) il pensiero di Einstein secondo cui una teoria è tanto più valida quanto più numerose sono le cose che collega.  

Una cerimonia, un rito hanno sempre bisogno, poi, di un minimo di gesti, usi, comportamenti che vengono alimentati quasi inconsapevolmente, nel corso dei millenni, dall’incrocio del termine che indica il nucleo dell’avvenimento con altri simili in superficie ma con significati diversi da quello originario in profondità, i quali possono finire col prevalere se nel frattempo il significato iniziale del termine è scomparso dall’orizzonte lessicale della lingua e vive magari solo in forme che solo lo studioso  riesce a scovare, come è successo in questo caso. Questo fatto inoltre dimostra ancora una volta che la rigida distinzione nel trattamento delle consonanti esplosive indoeuropee, come viene teorizzata dagli studiosi, la quale prevede la trasformazione in spirante /f/ della esplosiva labiale /p/ nelle lingue germaniche (cfr. lat. pater/ingl. father) deve essere corretta e spiegata in altro modo, visto che forme in spirante /f/ si incontrano anche in aree diverse da quelle germaniche, come quella latina. 

Il lat. farr-agin-e(m)  ‘biada, mangime misto per animali; mistura, miscuglio’ non trae il nome da quello del farro che è uno degli ingredienti insieme ad altri cereali (orzo, grano, ecc.) bensì dal significato di fondo della radice che è quella di “mescolanza, confusione, ecc.”, altra forma di ‘unione, congiunzione’ che può assumere un’apparenza più ordinata nello spagn. parr-illa ‘griglia’ con le sue stecche o ferri incrociati secondo un disegno.  Esisteva anche la variante lat. ferr-agin-e(m) con lo stesso significato che ha dato il dialettale fërr-àina in Abruzzo. Questo termine poteva riferirsi anche a piantine in erba di cereali, mietuti prima di maturare per il foraggiamento degli animali.  La radice compare a mio avviso anche nel gr. phár-os ‘tessuto, panno, tela, mantello, coperta, ecc.’.  Lo stesso termine greco vale anche ‘aratro’ e viene riportato dai linguisti alla radice di gr. phár-ynks ‘gola, faringe’ e accostato al significato di lat. for-are ‘forare, bucare’.  Ma non è così! L’aratro è una struttura, uno strumento composto di vari elementi incastrati tra loro, e quindi il termine qui ribadisce il concetto di “commettitura, congiungimento, unione, intreccio” sotteso anche a quello di “tessuto”[4].  Anche il lat. for-u(m) ‘ponte della nave’ ribadisce la cosa, in quanto il ponte è costituito da serie di tavole interconnesse. Il plur. fori indica ‘file di sedili, celle delle api, tavola da gioco (scacchiera)’, tutti significati relativi ad oggetti costituiti di più elementi.  La radice ricompare anche nell’egizio paar ‘tessuto’.  Le parole sono certamente più vetuste delle stesse piramidi d’Egitto e ingannano anche i linguisti, come dimostra la lunga storia di questo FAR -/PAR– che taluni vorrebbero confinare al ted. fahr-en ‘viaggiare’, senza tener conto dei suoi numerosi agganci sia in senso orizzontale che in quello della profondità. 

Da ultimo, per completare adeguatamente il quadro, bisogna assolutamente parlare della Festa delle Farchie che si celebra a Fara Filiorum Petri nel Chietino in coincidenza della Festa di Sant’Antonio Abate.  Le farchie sono fasci di canne che, legati da ritortole di rami di salice rosso, raggiungono il rispettabile diametro di circa 1 m. e un’altezza fino a 8-10 m.  La sera della vigilia della festa, il 16 di gennaio, esse vengono incendiate secondo un rito simile a tanti altri in Italia e in Europa connessi con antichissime festività preistoriche legate in genere al ciclo annuale del sole.  Ma in questo caso credo si possa parlare, per i motivi che subito dirò, di una festa che sanciva il raggiungimento di una stretta alleanza federale di piccole comunità preistoriche circonvicine, come la festa del Settimonzio della Roma primitiva, e che finì col confondersi con la festa del Santo di Padova.
 
Da ciascuna delle varie frazioni e contrade (12) del comune di Fara si muove, il giorno della festa, una farchia per raggiungere il piazzale della chiesa di Sant’Antonio.  Oggi essa viene trasportata da un trattore, in passato naturalmente da un carro trainato da buoi se non addirittura sulle spalle dei contradaioli.  Ora, che cosa possono rappresentare queste farchie nell’ambito di questa manifestazione tradizionale?  Il nome farchia deve ricorrere anche altrove in Abruzzo, come a Trasacco nella Marsica, dove indica appunto un grosso fascio di frasche che veniva acceso la sera della vigilia della festa di Sant’Antonio, ma indicava anche un normale fascio di frascame usato per l’accensione dei tradizionali forni per il pane[5].  C’è nel nome l’idea di fascio non disgiunta però da quella di fuoco.  Il sostantivo farchia deve provenire da una forma italica *far-cula non attestata ma altamente probabile, data la nostra ormai profonda conoscenza della radice FAR- che abbiamo detto indicare sostanzialmente un raggruppamento, una unione che in questo caso si concretizza nel fascio di frasche o canne con tutti i valori figurati connessi di stretta unione fra due persone (matrimonio), fra più persone (famiglia) o fra più famiglie costituenti la fara longobarda.  Ma poteva senz’altro indicare anche una probabile federazione di piccole comunità preistoriche limitrofe che per motivi economici, religiosi e militari avevano sentito la necessità di unirsi e di eleggere una sede comune che le rappresentasse tutte.  Ecco perché ancora oggi a Fara Filiorum Petri le farchie si muovono dalle numerose frazioni verso il sagrato della chiesa di Sant’Antonio, attualmente ai bordi del paese di Fara. Lì, seguendo i precisi comandi del capofarchia (come fosse un duca della fara longobarda), i contradaioli mettono ciascuna di essa in posizione verticale fissandola in modo che non cada. Sempre a Trasacco la parola farchia, oltre a designare una leguminosa simile alla cicerchia, ha il valore di ‘grossolana farina costituita dalla mistura di diversi cereali e usata per approntare un pastone per gli animali’.  
 
Date le precedenti considerazioni a me pare inattendibile la vulgata secondo cui le numerose Fara, Farra della toponomastica, sparse nel territorio italiano, sarebbero la spia dello stanziamento in queste località di unità famigliari e militari dei Longobardi.  Il termine l’abbiamo visto arrivare da molto lontano, sia nello spazio che nel tempo, e così poteva benissimo indicare un nucleo abitativo o una comunità (secondo l’etimo) risalente ad epoche di molto antecedenti a quella dei Longobardi. Il nome della frazione Leo-fara, ad esempio, nel comune di Valle Castellana nel teramano, mi sembra possa essere interpretato come composto da due radici tautologiche per popolo, comunità, paese: quella di –fara, che conosciamo, e di leo- dal gr. ōs ‘popolo, schiera’. 

Per dare un esempio della varietà di forme e di significato che una parola può assumere (e che a volte scompaiono senza lasciare traccia) faccio notare che a Palena-Ch si incontra la voce forchja che indica un caprile, un piccolo spazio delimitato da graticci di canne, un’altra forma di insieme, gruppo .  Il termine non può derivare da un lat. furc-ula(m) ‘piccola forca’ ma deve richiamare la radice del lat. for-u(m) ‘ponte della nave’ sopra citato, da un precedente *for-cula(m) non attestato. A Rapino-Ch, un mazzetto di canne (un altro insieme) infiammate, usato per bruciare le setole del maiale ammazzato, viene chiamato firchje, altra variante di farchja.  Sembra strano, ma non lo è: la variante porta con sé il ricordo, a mio avviso, dell’incrocio con un nome per ‘maiale’ incontrato nella notte dei tempi e poi scomparso: il ted. Ferk-el ‘lattonzolo, porcellino’, imparentato con lat. porc-u(m) ‘porco, maiale’.  Dimenticavo le ferchje (al posto di farchje) di Casacanditella, sempre nel Chietino.  Sembra di essere di fronte a certe varietà di forme apofoniche così frequenti nell’area germanica! La farchia in qualche dialetto indicava proprio un ‘tipo di canna’ con le cui foglie si impagliavano le sedie (cfr.lat. fer-ulam ‘ferula, canna’).  E’ facile immaginare che in questi casi la parola dovesse nascondere un significato generico originario di ‘erba, pianta, pollone,rampollo’ con riflessi semantici anche nel regno animale. Lo stesso lat. far ‘farro’ è una piantina come lat. far-far-u(m) o far-fer-u(m) ‘farfaro’, con radice raddoppiata, che è un tipo d’erba.

Il concetto di “fuoco, falò” che sembra accompagnare questo termine potrebbe non essere secondario, nel senso che esso non sarebbe stato indotto dall’uso cui la farchia è destinata.  Esso potrebbe essere effettivamente autonomo rispetto all’altro di ‘insieme, gruppo, fascio’.    E’ noto che il termine faro, la cui radice assuona perfettamente con quella di far-chia,  viene fatto risalire al nome dell’isoletta di Faro di fronte ad Alessandria d’Egitto dove esisteva un faro per la navigazione.  Ma taluni, a ragione, fanno notare che la parola potrebbe di per sé indicare ‘luce, splendore, fuoco’ se si tiene presente la radice greca PHA- ‘risplendere’ e i termini copti firi ‘risplendere’ e fra ‘sole’[6]. Si noti la somiglianza con l’ingl. fire ‘fuoco’, ted. Feur ‘fuoco’ i quali, più che essere considerati trasformazioni di un termine come il gr. pŷr ‘fuoco’ con la labiale /p/ iniziale, debbono a mio avviso essere visti come forme parallele intercambiabili esistenti già dai primordi.  Propendo a credere che nel teonimo Iuppiter Farreus, divinità cui si dedicava la focaccia di farro nella cerimonia matrimoniale di cui sopra, l’epiteto Farreus  fosse, prima che avvenisse l’incrocio con la radice di farro, un appellativo autonomo di Giove, dio della luce del giorno[7].   Il verbo lat. ferru-min-are ‘saldare’ (presente anche in italiano per via dotta) era usato in genere per i metalli e allora doveva alludere a saldatura a fuoco.  Nello stesso mito Prometeo ruba il fuoco agli dei nascondendolo nell’interno di una fer-ul-a(m) ‘canna’ e lo porta agli uomini. Allora la radice fer- doveva nasconderne un’altra per ‘fuoco’, come avviene spessissimo in questi casi.

Un’ultima osservazione si deve fare in merito al lat. ferr-u(m) ‘ferro’ ed è a mio avviso di notevolissima portata, onde io “del vedere in me stesso m’essalto” come il nostro padre Dante[8].  L’etimo di lat. ferr-u(m) dà molto da fare ai linguisti che restano molto incerti nelle loro proposte.  A mio avviso questo succede perché, anche in questo caso, mancano del metodo giusto.  Io ricavo l’etimo piuttosto facilmente da quanto ho detto precedentemente sulla radice FAR-/FER- e da una semplice riflessione sul minerale ferroso, dinanzi a cui si trovarono gli uomini che dovettero per primi nominarlo, naturalmente sfruttando, come avveniva quasi sempre, qualche termine già esistente nel loro vocabolario.  Infatti la cosiddetta magnetite, uno di questi minerali, si presenta come un insieme di cristalli cementati con materiale roccioso: una vera e propria ferr-agine(m) = farr-agine(m) ‘mistura (di cereali)’ o ‘impasto, ammasso’  dunque! E che dire di lat. ferra-mentu(m) il quale indica qualsiasi strumento in ferro, compresi l’aratro e il rastrello, come lo stesso lat. ferr-u(m)?  Ma se solo si riflette sul fatto che l’aratro fu inventato almeno 5-6mila anni prima della scoperta del ferro o almeno del suo uso industriale, e che esso era quindi costituito solo di elementi lignei, si deve dedurre che non solo il suo nome più diffuso di aratru(m) ma anche questo più raro di ferru(m) dovevano andare a perdersi nella notte dei tempi, data del resto la normale ancestralità di tutti i termini o, almeno, delle loro radici.  E ce lo conferma proprio il gr. phár-os che significa ‘tessuto’ ma anche ‘aratro’!  Il rastrello, usato ancora fino a ieri nelle nostre campagne, era normalmente di legno perché più maneggevole e meno costoso rispetto ad esemplari di ferro.  E’ pertanto vano pensare, come purtroppo siamo in certo senso costretti a fare oggi, che i ferri del mestiere siano una parola inventata successivamente alla scoperta del relativo metallo!  Nulla di più falso! La parola, inoltre, non indicava in via figurativa gli strumenti, bensì la struttura o composizione di cui essi si sostanziavano! L’it. inferriata sicuramente non è nato come ‘intreccio di aste di ferro’ ma solo come ‘intreccio’ e basta!  L’it. afferrare non è il risultato del mettere mano al ferro (una spada, ad esempio), come si pensa, ma solo un mettere la mano su, nel senso di ‘contattare, attaccarsi, impossessarsi’ e quindi ‘prendere (con forza)’ o ‘comprendere’ qualcosa. L’it. sferrare, in tutti i suoi sensi, ne rappresenta l’opposto attraverso il prefisso s- con valore privativo negativo. L’it. ferrato, nel senso di essere un valido conoscitore di una materia o argomento, non deriva dall’essere ben corazzato o armato ma piuttosto dall’essere ben saldo o solido nella conoscenza di quel certo argomento. 

La giurisprudenza un tempo prevedeva, tra diversi tipi di associazioni agrarie, la soccida di ferro (non so se sia contemplata ancora oggi dal Codice civile), un contratto di natura associativa in base al quale il locatore di un fondo lo cedeva in affitto al conduttore insieme ad un certo numero di animali senza partecipare agli utili e alle spese dell’allevamento, ma a condizione di riavere, alla scadenza del contratto, gli animali che aveva ceduto o, più precisamente, animali dello stesso valore di quelli che aveva affidati all’inizio al locatario.  Il contratto era chiamato anche locazione di ferro[9].  Ora vi sono due possibilità di spiegazione per questa espressione. Si sa che soccida corrisponde al nominativo lat. societas ‘società, unione, compartecipazione, accordo’, con ritrazione dell’accento tonico sulla prima sillaba.  Il vocabolo ferro o lo si considera una sorta di tautologia rispetto a soccida, e cioè un antichissimo termine per ‘accordo, patto, unione’ trascinato con sé, attraverso strati linguistici diversi, dal termine soccida subentrato successivamente o lo si può intendere come usato ad indicare la caratteristica fondamentale di questo contratto, costituita dalla parità del valore degli animali ceduti e di quelli riconsegnati alla fine dal locatario.  La voce arcaica ingl. fere ‘compagno, collega, marito, moglie’, di cui ho parlato già sopra, nei dialetti attuali britannici indica una persona  di rango o competenza uguale, pari[10]I due significati di ‘compagnia, società’ e di ‘uguaglianza, parità’ sono interdipendenti come sappiamo.  In abruzzese il sostantivo sòccë (ma anche sóccë – ad Aielli) vale ‘mezzadro’ o ‘socio di un accordo, in genere non scritto, di una sorta di soccida, mentre l’aggettivo sòcce/sóccë vale ‘pari, uguale’[11].  Lo stesso lat. firm-u(m) ‘fermo, solido’, che secondo me è ampliamento in /m/ di questa stessa radice FER-, ha dato in francese ferme che significa, tra l’altro, anche ‘locazione, affitto, appalto’: siamo quindi sempre vicinissimi al concetto di “accordo, contratto”.  La voce fërmèlla/frëmmèlla ‘bottoncino per camicie e grembiuli’ del dialetto di Trasacco[12] non ci può più nascondere la sua antica natura di ‘fermaglio’ o ‘strumento (per fermare, chiudere, connettere, unire)’.  Il fr. ferme significa anche ‘travatura del tetto’ che assuona bene, anche nel significato, con ingl. frame ‘intelaiatura, ossatura, montatura, cornice, ordinamento, sistema, forma, modulo‘(cfr. ingl. roof frame ‘orditura del tetto’).  Il gr. phorm-ós vale ‘cesta, stuoia, fascio, legno incrociato’, cioè un intreccio, un insieme.

A questo punto non si può trascurare il lat. forma(m) ’forma’ (dai molti significati tra cui, ad esempio, quelli di ‘cornice, ordinamento, sistema,modulo[13], presenti anche nel  citato ingl. frame) erroneamente considerata metatesi di gr. morphé ‘forma’: forse è vero l’inverso, il termine greco è metatesi del latino.  Il verbo lat. form-are significa ‘formare, plasmare, creare, istruire, educare, allevare’, tutti significati che a mio avviso scaturiscono da quello nascosto nel fondo di ‘mettere insieme, comporre, fare, lavorare’: la radice, non dimentichiamolo, è sempre quella, ad esempio,  di lat. ferru-min-are ‘saldare’, lat. firmu(m) ‘fermo, solido’, ecc.  Possiamo unire al gruppo l’ingl. to farm ‘coltivare, allevare (animali)’ che forse fu presa dal fr. ferme ‘fattoria, casa colonica’ ma più probabilmente è variante di ingl. frame ‘struttura’.  Buon ultimo arriva il lat. parm-a(m) ‘scudo piccolo rotondo’, dal gr. párm ‘scudo piccolo rotondo’. I nomi di questi oggetti naturalmente risalgono ad un periodo antichissimo quando essi erano composti di un’armatura in legno che sosteneva graticci di vimini, magari a più strati rinforzati da imbottiture varie.  Si trattava dunque di veri e propri strutture o strumenti nel senso etimologico di ‘composizione’.  Infatti il gr. hopl-on valeva ‘gomena, arnese, strumento, arma, scudo (pesante)’.  Il concetto di “rotondità” che accompagna la parma si ritrova, ad esempio, nell’ingl. frame che significa anche ‘orbita’. Ma doveva nascondersi anche nel lat. form-a(m), nel significato di ‘forma per fare il formaggio’, se è vero che nell’industria casearia il termine forma “indica un cerchio di legno rotondo in cui si versa il latte coagulato per fare il formaggio”(R. Nannini, 1561)[14].  I composti ingl. farm-house ’casa colonica’ e frame-house ‘casa con ossatura in legno’, che sembrano creati apposta per indicare i loro rispettivi referenti, in realtà dovettero nascere come varianti tautologiche indicanti semplicemente la ‘casa’, come avviene per la maggior parte dei nomi composti germanici. Mi fermo qui sperando di aver dilettato almeno un po’ qualche sporadico, paziente e gentile  lettore.

 Ora potrei anche lasciare questo mondo, soddisfatto del lavoro compiuto, se non proprio felice!






[1] Cfr. l’articolo Il parapetto del febbraio 2016 (pietromaccallini.blogspot.it).  L’articolo andrebbe letto prima di questo.

[2] In effetti il termine con-farre-ation-e(m) rivela lo stesso fenomeno da me riscontrato nel termine com-pan-atico, in cui il pane non c’entra nulla col significato profondo di ‘accompagnamento, unione’ che la parola a mio parere ha.  Anche qui il farro  non c’entra nulla col significato di ‘matrimonio, unione’ che essa indica (cfr. l’articolo Il flauto di Pan nel mio blog). La Lingua ci conferma ancora una volta che essa ama chiamare le cose per quello che sono, direttamente.  E che quindi dobbiamo essere molto ma molto guardinghi quando ci troviamo di fronte ai vari usi cosìddetti traslati o figurati o metaforici delle parole: nella maggior parte dei casi vi si nasconde un bluff!

[3] Naturalmente non credo che questo feru-men derivi da una radice indoeuropea DHER da cui deriverebbe lo stesso lat. firm-u(m) ‘fermo, solido’.

[4] Per il lat. aratr-u(m) e gr. árotr-on (cret. áratr-on)  non inganni il facile rimando ai verbi lat. ar-are ‘arare’ e gr. aró-ein ‘arare’.  A mio avviso bisogna pensare che il nome dello strumento sia formato da due radici tautologiche per ‘connessione, congiungimento’ rappresentate dalla nota radice indoeuropea AR (cfr. gr. árthr-on ‘giuntura, articolazione’ simile per altro ad aratro) e dalla voce gr. ētri-on, dorico átri-on ‘trama, ordito, tessuto’.  L’azione dell’arare deve essere vista, poi, come un congiungimento penetrativo del vomere e della terra la quale viene così quasi ad esserne fecondata, significato espresso da alcune parole greche della stessa radice.

[5] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.  A San Marco in Lamis, nel foggiano, le farchie sono chiamate fracchie per metatesi e accompagnano la processione serale del Venerdì Santo.  Una volta avevano la grandezza di normali torce, oggi son o invece molto più grandi.
[6] Cfr. dizionario etimologico di O. Pianigiani in rete.

[7] Cfr. ant. iraniano far-nah ‘luce’, lat. for-n-u(m) o fur-n-u(m) ‘forno’, lat. for-m-u(m) ‘caldo’.

[8] Cfr. Inferno, IV, 120.

[9] Cfr. dizionario etimologico di O. Pianigiani in rete, s. v. ferro.

[10] Cfr. il vocabolario inglese Merriam-Webster.

[11] Ad Aielli, il mio paese, il proprietario che possedeva una sola vacca si metteva d’accordo con un altro proprietario che era nelle sue stesse condizioni, per poter formare una coppia di buoi necessaria per l’aratura.  Egli così diventava un sóccë ‘socio’.

[12] Cfr. Q. Lucarelli, cit. La voce fërmèlla ‘bottone’ ricorre anche a Chiauci-Is e altrove.

[13] Veramente è il diminutivo lat. formula(m) a significare anche ‘formulario’. L’ingl. form ‘modulo’, derivato dal lat. form-a(m) ‘forma’ fa supporre che anche il nome non alterato avesse in latino il significato di ‘formulario, modello’.  Ma soprattutto esso ci  induce a credere, a mio parere, che l’ingl. frame ’struttura, modulo’ doveva essere nei primordi preistorici una semplice variante di lat. form-a(m) presente su suolo britannico, o altrove nell’area germanica, già prima dell’arrivo dei Romani.  Il cacio-cavallo, che dà tanto da penare agli etimologi, per me è una normale tautologia. Il costituente –cavallo è della famiglia di ingl. wheel ‘ruota’, da antico ingl. cweel ‘ruota’.  La voce si è adattata poi ad indicare la forma rotondeggiante ( a pera) del caciocavallo. Cfr. anche la voce abruzzese cuèlla (ad Aielli) ‘una ciambella di legno di olmo o salice’ adattata al basto per farvi passare i legacci che assicurano la soma. Esiste nei dialetti abruzzesi la voce cuvéjjë, covélla ecc., che indica un ‘anello’ che fissa il giogo al timone dell’aratro.  La radice è quella di lat. cav-u(m) ‘cavo, concavo’, arcaico cov-u(m).  Per la verità si incontra anche la voce dialettale cóvo (Toscana), còvë (Abruzzo) ‘anello del giogo’ che rimanda direttamente al lat. co(h)um ‘incavo del giogo’ dove inserire o legare il timone, In Ennio cohum vale ‘volta del cielo’(cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani , UTET, Torino 1998). Ma non si può nemmeno escludere una radice in velare, come quella riscontrabile net ted. Kug-el ‘palla’.

[14] Cfr. M. Cortelazzo-P. Zolli, DELI Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli editore, Bologna, 2004, s.v. forma.  Nel dialetto di Rocca di Botte-Aq ricorre la voce cassu che indica ugualmente un ‘cerchio di legno di faggio’ dove si spreme la cagliata e si fa scolare per qualche giorno (cfr.M. Marzolini, “…me nténni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr, 1995). Allora mi pare credibile che anche il lat. case-u(m) ‘cacio, formaggio’ dovesse indicare questo cerchio, data la sua quasi completa somiglianza col cassu suddetto.