martedì 21 luglio 2015

Il tedesco Hochzeit 'nozze, matrimonio': uno di quei termini il cui etimo non costituisce un problema per i linguisti, eppure la verità sembra essere tutt'altra.




     Ormai, come ho ripetuto più volte, questo è un principio assodatissimo della mia linguistica: è vano credere che il significato etimologico di un termine possa essere cercato tra le espressioni metaforiche, traslate, figurate che da esso sono apparentemente e subdolamente suggerite o da esso possono essere ricavate con i significati che attualmente la Lingua assegna alle parole o alle parti di cui esse sono composte. La Lingua, al contrario, nomina direttamente i suoi referenti, nel senso che le parole contengono in sé radici che all’inizio della loro annosa vicenda, la quale si immerge ben a fondo nella preistoria, indicavano le cose per quello che erano, cioè con concetti appropriati che non avevano bisogno dell’ausilio delle varie figure retoriche, ben descritte dalla grammatica sin dall’antichità.  Il problema è costituito dal fatto che, col passare dei molti millenni che ci separano dall’origine di una parola, su di essa si sono in genere accumulati significati diversi da quelli primordiali, sviando e frastornando la nostra capacità indagatrice.  Questo è potuto accadere perché i significati che una radice poteva assumere, nelle varie e frammentate parlate di una comunità preistorica, erano i più diversi, in un ventaglio aperto a 360°, e soggetti a facili e numerosi incroci, contrariamente alla falsa idea profondamente infissa nella nostra mente, secondo cui una radice era ed è adatta ad esprimere solo uno o alcuni dei significati, tra tutti quelli possibili, a parte i significati metaforici che da essa possono scaturire. 

    Così, per il tedesco Hoch-zeit ‘nozze, matrimonio’, i linguisti non possono fare altro che prendere atto dei due significati apparentemente indiscutibili, quello dell’aggettivo hoch- ‘alto’ (cfr. ingl. high ’alto’) che presenta anche i significati simili e traslati di ‘grande, importante, sublime, ecc.’, e l’altro del sostantivo zeit ‘tempo’, affine all’ingl. tide ‘marea, corso, tendenza, stagione, tempo, periodo (festivo)’ per ricavarne i significati di ‘tempo importante’ o ‘cerimonia festiva importante’ i quali sembrano adattarsi bene ad indicare metaforicamente le nozze, o il matrimonio, a meno che non si colga la nota stonata di questa definizione figurata che nulla ha a che fare col modo di procedere e di costruire le parole da parte della Lingua.  Così facendo i linguisti seppelliscono per l’eternità il vero significato di questa parola Hoch-zeit ‘matrimonio’ che, all’origine, era più o meno lo stesso di quello indicato dal vocabolo di oggi nel suo complesso, ripetuto però tautologicamente in ciascuna delle due componenti del termine.

   La prima componente Hoch-  è solo una reinterpretazione di un vocabolo originario similissimo all’ingl. hock ‘garretto’, significato che apre a tutti quelli che indicano un’articolazione, una connesione, un insieme, una massa, una unione, un matrimonio, quindi.  Lo stesso ted. Hocke ‘mucchio di covoni’ conferma bellamente il nostro ragionamento come pure l’ingl. hock nel significato colloquiale di ‘impegnare’, il quale è sempre un ‘legare qualcosa a qualcos’altro’.  Si tenga presente anche la variante ingl. hitch ‘annodarsi, impigliarsi’ nonché (amer. colloq.) ’andare d’accordo, essere in armonia’. Fa parte di questa serie anche l’it. cocca, considerato di etimo sconosciuto, nel significato di ‘nodo’ agli angoli di un fazzoletto.  Ma, a ben riflettere, anche l’altro significato di ‘tacca all’estremità della freccia’, che permette l’aggancio della freccia con la corda, fa capo a quello generico di ‘connessione, unione’ specializzatosi e incrociatosi con altri significati.  Molto probabilmente, allora, anche il dialettale (centro- meridionale) cocchia 'coppia, pariglia' sarà derivato da un precedente *coc-ula piuttosto che essere variante di lat. cop-ula 'legame'. Il significato tipografico di Hochzeit, poi, e cioè quello di 'doppione', parla chiaro.  Altri termini li lasciamo stare, questi esempi bastano ed avanzano. 

   Per la componente –zeit e il suo probabile incrocio con un originario termine per ‘matrimonio’ o ‘massa, impasto’  si guardi il danese taet ‘spesso’ (agg.), dan. tit ‘spesso’(avv.), ebraico tit ‘terra argillosa, terra grassa’, ted. Tit-sche 'salsa, intingolo', ted. Mahl-zeit 'pasto' (non 'ora di pasto', che si dice essen-zeit) il cui  1° membro Mahl- in tedesco significa da solo ugualmente 'pasto', ingl. tod ‘unità di peso per lana, fascio, massa’.   Ma la cosa più interessante è incontrare nella lingua egizia il termine tit, tjet, tet (con varianti) ‘nodo di Iside’, un particolare tipo di nodo che la dea egizia, nota in tutto il bacino del Mediterraneo, portava tra i due seni. Essa secondo la leggenda istituì anche il matrimonio ed è quindi possibile che questo nome tet, tit, tjet avesse avuto in qualche lingua o dialetto del mondo egizio proprio quel significato, giunto in verità fino a noi.

   Interessante è anche l’esatta corrispondenza di questo tratto di sonorità zeit < zit con il dialettale meridionale zita, termine che indica solitamente un tipo di pasta (la quale si configura appunto come un impasto, mescolamento, unione), oltre a designare lo sposalizio stesso e il matrimonio.  Questo significato è importante notarlo non è dovuto al fatto che anticamente il tipo di pasta veniva usato anche nei pranzi matrimoniali, ma alla circostanza che doveva esistere nei nostri dialetti un termine simile o uguale per ‘matrimonio’ che si incrociò con quello corradicale per ‘impasto, pasta’ e determinò l’impiego di quel tipo di pasta nel pranzo delle nozze.  Che la pasta zita assomigli a quella più nota come bucatini è dovuto all’incrocio con un probabile termine come l’ingl. teat ‘capezzolo’, una sorta di tubicino, dotto per la fuoruscita del latte.

   La leggenda di Santa Zita, inoltre, la vergine (cfr. tosc. cita ’ragazza’) di Lucca di umile famiglia, narra, tra l’altro, che essa mangiava lo stretto necessario e lavorava indefessamente tanto da essere diventata esile come un fuscello, cioè come uno stelo di paglia, dunque, altra epifania del concetto di “bucatino”, cioè la pasta zita.  La Santa, un giorno, essendo rimasta a pregare troppo a lungo dopo la Comunione, e dovendo preparare il pane per la famiglia del ricco mercante presso cui svolgeva il suo servizio di domestica, trovò miracolosamente la farina già impastata nella madia: è evidente che il suo nome, fatto derivare dal toscano cita, citta ‘ragazza’, si incrociò con termini indicanti il concetto di “unione, impasto, matrimonio” di cui ho parlato sopra.  L’it. zitella, diminutivo di zita, a mio parere conferma l’incrocio della radice con quella per ‘matrimonio’: il suo significato originario di ‘ragazza non sposata’, infatti, senza la connotazione dispregiativa attuale, si sarà originato proprio a contatto con l’altro termine simile per ‘matrimonio’, che avrà generato prima il significato di ‘ragazza da matrimonio, da marito’ e quindi quello di ‘ragazza non sposata’.