martedì 10 febbraio 2015

Il flauto di Pan.



      Il suono vellutato e misterioso del flauto ha un suo fascino singolare e probabilmente è per questo  —qualcuno penserà—  che gli uomini antichi ne attribuirono la scoperta a Pan, sorta di curiosa divinità boschereccia dalle forme non proprio divine, simile ad un irsuto caprone che, quando non era immerso nella siesta meridiana, seguiva le ninfe nelle valli spaziose, nelle forre impenetrabili e sui colli aerei, ed esse, attratte forse proprio dalla sua incontenibile e mostruosa vitalità, ne rimanevano sedotte.  Non sempre però.  La ninfa Siringa, infatti, figlia del fiume Ladone in Arcadia, fuggì via spaventata ed ottenne dalla dea Artemide di essere trasformata in un fascetto di canne sulla riva del fiume[1].  Pan le recise, le accorciò fino a farne pezzi di misura decrescente, e ne fabbricò lo strumento che prese nome dalla ninfa: un insieme di canne, dunque, di diversa lunghezza allineate insieme a formare una particolare zampogna, la siringa appunto.  Questo è, in succinto, quanto il mito ci racconta  con varianti, come è naturale che sia.   

    Nel latino medievale lo strumento aveva anche la denominazione di fistula Panis ‘flauto di Pan’ ed è da scommetterci che essa fosse di origine antichissima, forse altrettanto antica se non più antica del termine siringa, di ascendenza greca.  Come mostrerò tra breve, la Teoria della Continuità (TC o TCP) elaborata dal grande Alinei è facilmente dimostrabile come veritiera.  Le parole affondano la loro origine nella lontana e lontanissima preistoria fino a raggiungere il Paleolitico, rivelando nel contempo un significato generico originario.  E, a mio avviso, non sono necessarie nemmeno particolari e complicate acrobazie mentali per rendersene conto.  Basta riflettere un po’ sui significati delle parole. 
 
     Se osserviamo, ad esempio, il termine it. pan-iere ci accorgiamo che esso ha un uso che va ben al di là del suo presunto significato etimologico-letterale: cestello, canestro per il pane.  La parola, come è noto, è di ascendenza latina (panarium) arrivata a noi probabilmente attraverso il fr. panier ‘paniere, canestro’, ed indica qualsiasi contenitore intrecciato di vimini o altro, atto ad accogliere una varietà di cose, non esclusivamente il pane.  I linguisti si affretteranno a dire che questo dipende da un uso estensivo o figurato del significato originario del termine e così mettono, a mio parere, una grossa pietra tombale sulla questione: copriranno, forse in cuor loro, addirittura di ridicolo, di compatimento o di indifferenza chi cercasse una spiegazione diversa[2].  Il termine, a mio parere, può essere accostato sì alla voce pane, ma solo se questa viene spiegata etimologicamente come impasto, miscuglio, insieme[3], concetto entro cui rientra quello di intreccio, in quanto connessione, collegamento di molteplici elementi.  Nel Dizionario della lingua italiana di Sabatini Coletti la voce paniere presenta anche questo significato agricolo: ‘stuoia di canne per proteggere le piante nei periodi invernali’[4].  Questa definizione, che non evoca affatto il contenitore per il pane, mi ha fatto subito venire in mente il ciuffo o fascetto di canne in cui si era trasformata la ninfa Siringa inseguita da Pan. Altro che il buon pane domestico! In effetti sia la stuoia di canne, sia il ciuffo di canne presso il fiume Ladone, sia la siringa, come strumento formato da diverse canne tra sé connesse , puntano tutti al concetto di “insieme”, non importa se costituito di canne o d’altro. Il termine si incrociò col nome del dio Pan generando la leggenda dell’invenzione  dello strumento da parte del dio.

    Così i termini ingl. pan-flute o pan-pipe che significano ‘flauto di Pan’ possono essere sì calco dell’espressione mediolatina di cui sopra fistula Panis, anche se non si può asserirlo con assoluta certezza, perché esiste in inglese (specialmente in scozzese) il verbo to pan che significa ‘congiungersi, andar bene insieme, combaciare, andare d’accordo’[5].  Esso deve quindi corrispondere all’it. pane, nel senso di ‘impanatura’, mediante la quale vite e madrevite (o altri oggetti di metallo da avvitare, almeno parzialmente, l’uno nell’altro) si congiungono, combaciano, si incastrano. Sicchè mi sembra che si avvalori sempre più la mia considerazione precedente che questa radice PAN-, con questo significato, andasse ben oltre i limiti di spazio e di tempo  posti restrittivamente dall’espressione mediolatina fistula Panis. Infatti anche il gr. pân ‘tutto’, cioè insieme di più elementi, deve sfruttare lo stesso concetto.  Fin dall’antichità, inoltre, taluni hanno creduto che l’origine del nome del dio fosse da individuare nel fatto che egli, appena nato, fu portato sull’Olimpo dal padre Ermes dove la sua mancanza di fisica grazia suscitò l’ilarità di tutti gli dei[6].  In realtà questo fatto ci fa capire bene come un mito nasca e via via si plasmi ed accresca: gli imprevedibili incroci delle parole in esso la fanno da padrone, soprattutto in un nome come Pan di antichissima origine, che si è incontrato con diverse altre parole omofone.

    C’è ancora qualche altro termine,oltre a quelli ricordati nell’articolo del mio blog citato nella nota 2,  ad illuminare il nostro discorso. Il siciliano (messinese) panìa[7] ‘treccia di fichi secchi infilzati in stecchi’ o ‘fascina di sarmenti tagliati’ rimarca sempre quest’idea di “insieme”. Il grande linguista tedesco G.Rohlfs rinvia, per questo secondo valore, al gr. panía dallo stesso significato, che però nel vocabolario del Rocci compare solo col valore di ‘abbondanza, pienezza, riempimento’, concetto che può rientrare comunque in quello di “insieme, molteplicità”. L’ingl. pan-el nel significato di ‘gruppo, comitato, giuria’ conferma il nostro assunto. Lo stesso it. compagno, proveniente dal lat. medievale companio e inteso come ‘colui che mangia lo stesso pane con un altro’ (col rischio di trasformare il compagno in una sorta di abominevole companatico, se il vocabolo viene messo in rapporto con l’espressione latina cum pane ‘col pane’), è   al contrario sempre espressione, a mio parere, della stessa radice PAN- che in questo caso indica uno stretto legame e una quasi simbiotica unione, quella con l’amico appunto.  Anzi, lo stesso it. companatico (lat. mediev. companaticum) acquisisce in questo modo una nuova luce chiarificatrice e una dimensione più vera, meno specifica: insomma, mi pare assodato che all’origine il termine non indicava ‘qualcosa che si mangia col pane’ (tutti i linguisti, senza pensarci su, danno compatti questa interpretazione, che — ahiloro!— serve solo a segnare nettamente, in verità, l’abissale differenza che passa tra la mia linguistica e la loro, senz’ombra di presunzione alcuna da parte mia)  ma più genericamente ‘qualcosa che va insieme con qualcos’altro’ e non necessariamente con il pane, termine con cui alla fine esso si è incrociato, identificato e confuso, restringendo il suo significato iniziale che, d’altronde, coincideva con quello iniziale di pane[8].  Sicchè quando noi usiamo espressioni familiari come Ho perso il guanto compagno  oppure Questa penna è compagna alla tua non stiamo in effetti utilizzando delle metafore e tanto meno stiamo usando come punto di riferimento l'it. pane.  Queste frasi mettono in evidenza solo la somiglianza degli oggetti o il loro abbinamento.  A convalida di ciò debbo dire che ho incontrato in internet una frase della cucina rumena in cui impanati significa ‘farciti’ ribadendo il concetto di “incastro” di un alimento in un altro, il quale viene così riempito (cfr. il valore del succitato gr. panía ‘riempimento’).  La frase infatti suona Cartofi impanati cu bacon si ceapa ‘patate farcite con bacon e cipolla’. Gli it. panare, impanare significano  qualcosa  d’altro, cioè ‘passare un alimento nel pan grattato prima di friggerlo’. Comunque anche questo significato  può rientrare in quello di ‘combinare, unire, mettere insieme, mescolare’ specializzatosi dopo l’incrocio con pane. Il piemontese panat (8 bis)  indica infatti la 'pasta che rimane dopo la spremitura delle noci, le olive e simili', cioè la sansa che è costituita da un amalgama di bucce, polpa e noccioli.  Ma cosa vogliamo di più dalle parole, che si mettano a gridare a causa della nostra insensatezza?  Anche il piemontese panta 'pantano' (8 ter) deve appartenere a questa famiglia insieme all'it. pant-ano, considerato di etimo incerto.

   Stupenda è la voce cumbagnìië del dialetto lucano di Gallicchio-Pz che, oltre allo scontato significato di ‘compagnia’, possiede anche quello insolito di ‘ernia inguinale’[9]: insolito, se non si riflette che un’ernia inguinale è un rigonfiamento (cfr. il citato gr. panía ’pienezza,riempimento’) causato dall’insinuazione di parte dell’intestino tenue attraverso un punto debole della parte inferiore dei muscoli addominali: un vero e proprio incastro o inserimento o (com)penetrazione, insomma, di un elemento in un altro, con conseguente ingrossamento e rigonfiamento (cfr. anche lat. panus ‘tumore, pannocchia del miglio’), che può provocare  irritazione e dolore e può portare anche alla cosiddetta ernia strozzata (cfr. anche ingl. companion nel significato di 'spiraglio, piccola apertura' (9 bis) che sembra riproporci la rottura, il buco, il passaggio dell'ernia)!   I linguisti, anche dinanzi a questo esempio, non desisteranno affatto dalla loro posizione continuando ad affermare che si tratta di usi metaforici, figurati, traslati del termine compagnia.  Essi, però, dovrebbero anche spiegarmi come mai tutti questi usi metaforici di termini contenenti la stessa radice di compagno sono nel contempo riannodabili, per il significato, all’unico concetto base di “incastro” o “inserimento” e simili, conferendo tra l’altro a tutta l’operazione una compattezza a prova dell’importante principio metodologico, alla base del pensiero scientifico moderno, che va sotto il nome di rasoio di Occam: il mio metodo interpretativo spiega i vari significati dei termini legati alla radice di compagno col solo significato base della radice, senza alcuna necessità di introdurre gli usi figurati né il significato di ‘pane’.  Per capirci meglio, un compagno non va spiegato etimologicamente come ‘colui che mangia il pane con un altro’ ma come ‘colui che va d’accordo, si trova bene con un altro’ o, più semplicemente, come ‘colui che sta insieme con un altro’.  E questo significato base è sufficiente a spiegare tutti i termini contenenti questa radice PAN-, compreso il termine pane che è un impasto, un insieme di farina e acqua, almeno.  Che queste spiegazioni dei linguisti del termine compagno e quella simile del termine companatico siano sospette ce lo fa capire il fatto che esse stanno in piedi solo con l’indebita introduzione in esse di voci del verbo mangiare.  Si potrebbe legittimamente supporre, in questo modo, che compagno sia un termine nato nel mondo dei panificatori, e introdurre allora a buon diritto un altro verbo come impastare e intendere il termine compagno come ‘colui insieme al quale impasto il pane’ e che pertanto diventa mio collega e amico.  Oppure si potrebbe altrettanto legittimamente supporre che compagno sia sorto ad indicare i garzoni che uscivano al mattino dal forno e portavano il pane alle famiglie che lo avevano richiesto: quindi il compagno potrebbe essere inteso come ‘colui (il garzone) che insieme con me o come me porta il pane alle famiglie’.   Ancora, si potrebbe legittimamente supporre che compagno sia nato ad indicare 'colui che, in un posto di lavoro, si guadagna il pane quotidiano insieme con me'.  Ma non prendiamoci in giro!  

  Spiegare, poi, in senso figurato il significato di ‘ernia inguinale’ del termine lucano cumbagnìië comporta due assunzioni per nulla provate scientificamente: che cioè il termine pane (nel significato proprio di ‘pane’, a parte quello etimologico di ‘impasto’) preesistesse al termine compagno da esso fatto derivare e che questo preesistesse a sua volta alla voce lucana cumbagnìië nel significato figurato di ‘ernia inguinale’, la quale costituirebbe così una sorta di ‘compagno’ quotidiano per chi ne è colpito. Un’insopportabile  e  complicata circonvoluzione rispetto alla soluzione semplice e diretta della mia proposta!  Soluzione che suppone l’unicità di significato della radice coinvolta nei vari termini, per i quali non esige, poi, nessun rigido rapporto temporale, nel senso che essi potevano essersi sviluppati anche contemporaneamente. Anche per questo motivo la proposta dei linguisti non può superare la prova del rasoio di Occam, in quanto essa introduce  una rigida successione temporale dei termini suddetti, della quale la mia proposta può fare benissimo a meno senza conseguenze di sorta per la sua validità.  In svariati altri articoli ho sempre sottolineato, con esempi puntuali ed illuminanti, che la Lingua nomina direttamente i suoi referenti, anche quando questi sembrano espressi con figure retoriche, secondo l’opinione di tutti i linguisti.  Invito a leggere, ad esempio, l’articolo Il significato volgare del termine “uccello” […] del gennaio 2014 o (relativamente all’alternanza fresca/fregna per designare nei dialetti l’organo sessuale femminile) l’articolo “Fischia-froce”= fischietto […] dell’aprile 2011, presenti nel mio blog di Meditazioni Linguistiche.  Dopo la loro lettura ci si renderà conto, spero, che i cosiddetti sensi figurati dei termini spessissimo, se non sempre, non sono un prodotto volontario e consapevole da parte dell’uomo parlante, ma una conseguenza automatica di incroci casuali delle parole nel corso della loro antichissima storia.  Sicchè si può asserire che questo senso figurato costituisce l’ostacolo forse più duro e insidioso ai fini dell’individuazione del vero significato etimologico di una parola, il quale giace solitamente ben nascosto al di sotto del maquillage che un termine è stato indotto a farsi in superficie.  Il significato figurato di ‘ernia inguinale’ espresso dalla parola cumbagnìë ‘compagnia’, in soldoni, è emerso automaticamente come il solo possibile allorchè la parola omofona cumbagnìë ‘ernia inguinale’, appartenente ad uno strato linguistico precedente o diverso, è caduta dall’uso lasciando però che il suo significato, considerato a questo punto inevitabilmente (ma erroneamente!) come figurato , rimanesse impigliato, in qualche dialetto, tra quelli della omofona parola cumbagnìë corrispondente all’it. compagnia.

    A ben riflettere, infine, la proposta dei linguisti va a cozzare contro un altro principio sostenuto da Albert Einstein nel campo della fisica ma estensibile, a mio parere, anche a questo campo della conoscenza linguistica, secondo cui una teoria è tanto più convincente quanto più semplici sono le sue premesse, quanto più varie sono le cose che collega e quanto più esteso è il suo campo d’applicazione[10].  I linguisti non pensano nemmeno lontanamente, ad esempio, a collegare i termini compagno, companatico, compagnia con il siciliano panìatreccia di fichi secchi’ oppure ‘fascina di sarmenti’, cosa che è risultata così naturale alla mia proposta! Infatti questo principio espresso da Einstein sembra basarsi sulla stessa esigenza di naturalezza e semplicità propria del rasoio di Occam. Collegare più cose tra sé apparentemente diverse, è possibile solo quando si sfrondano da esse tutte quelle caratteristiche e quegli  elementi superflui che fanno sì che esse appaiano ai nostri occhi come entità senza rapporto tra loro, il quale invece risulta evidente non appena si elimina il superfluo che lo nascondeva.  Abbiamo più sopra notato come il verbo mangiare introdotto nella spiegazione di compagno e companatico sia in realtà proprio un indebito riempitivo che impedisce, offusca e devia la nostra capacità interpretativa.  Che dire del presunto rigore scientifico che caratterizzerebbe il metodo seguito dai linguisti, a loro parere?  Da parte mia mi sentirei molto onorato e riconoscente se qualcuno che si intende di linguistica avesse la pazienza e la compiacenza di farmi capire  che è proprio il metodo dei linguisti, e non il mio, a potersi definire scientifico.

      Degno di attenzione è infine il termine finlandese pano  che ha i significati di 'introduzione, intromisione, coito, compagno, deposito'.  Esso appare come un formidabile e definitivo commento confirmatorio di quanto ho detto sulla radice PAN- che è presente, quindi, anche in questa lingua uralica, non indoeuropea.  E non si tratta di un labile, equivoco, poco chiaro rapporto.  Direi che è l'anima stessa di questo termine a gridare la sua profonda parentela con la radice PAN-. E in effetti in finlandese si ha anche un'altra radice simile, cioè panna che significa 'affiggere, applicare, collocare, fottere, fare, ecc. ecc.'  e che ribadisce la cosa. Inoltre con i suoi svariati altri sensi, costituisce una prova dell'enorme ventaglio dei significati originari di ogni radice, riannodabili insieme. Il panico, l'improvviso sgomento e spavento che penetrava profondamente nell'intimo delle persone e che veniva attribuito al dio Pan, mi sembra quasi esattamente riflesso nell'ingl. pang 'fitta, angoscia' di cui ho letto una definizione inglese che calza a pennello: a sudden and sharp feeling of distress 'sensazione improvvisa e penetrante di angoscia, paura'.  La variante tedesca Bang significa proprio 'paura'. 
       
   Credo, a questo punto, che non valga la pena riferire le scarsamente credibili etimologie che solitamente si danno per pane inteso come ‘impanatura’. Qualcuno pensa di trovare l’etimo paragonando la filettatura alla forma ritorta del filoncino di pane!  Che amena fantasia con licenza di divagare![11]  Ma la Lingua, come poco fa e altre volte ho sottolineato, quando esplica la funzione conoscitiva, quando mette i nomi alle cose, rivela un’indole molto seria e diretta, non giocosa e metaforica!  Lo spagn. pan-al ‘favo’ indicava forse all’origine un altro “insieme”, quello delle cellette esagonali delle api.  Ma nondimeno qui subentra anche un altro concetto espresso sempre dalla radice pan, quello di “cavità” che si confà a tutti gli zufoli, i flauti, i pifferi, ecc. Infatti il gr. sŷrinks significa, più che la siringa come complesso di diverse canne, ’zampogna in genere, tubo o corteccia fistolare della cassia, custodia dell’asta, condotto, pori o passaggi bronchiali, galleria sotterranea, portico coperto, ecc.’, tutti concetti che si allineano dunque con quello di “cavità”, concetto che mi pare operi anche nell’ingl. pan ‘padella, ciotola’, anche se c’è forse l’interferenza con quello di “piatto, patina”.  Ma anche per siringa l’incrocio è dietro l’angolo, esistendo in greco la voce simile sýrikh-os ‘paniere,cestello’, contemporaneamente una cavità e un insieme (di vimini, giunchi, ecc.).


Pietro Maccallini




                                                          
Disteso su tenera sponda
bacio col flauto antico
lo stupore dell’alba
che schiude appena le labbra sottili e subito
in vaghi trapassi sfuma nell’aria.

Flauto agreste
strumento dei fauni
mi affido alla cava tua voce
perché vi si adagi il giorno che nasce
e all’orecchio sussurri
i mille segreti ronzanti nei suoi alveari. […]
                                                 da Il flauto agreste
Pietro Maccallini



[1] Cfr. G. L. Bruschi, Dizionario dei miti greci e romani, Ediz. Il Capitello, Torino, 1994.

[2] La questione del significato di it. paniere è stata  già da me affrontata nell’articolo Il termine “armento” [] del mio blog (marzo 2014), che consiglio di andare a leggere.

[3] Cfr. l’articolo La panonda […] nel mio blog (febbraio 2014) ove compaiono diverse altre parole con la medesima radice pan col significato di ‘miscuglio, colla, grasso, ecc.’.

[4] Per il Sabatini Coletti  cfr. sito web: dizionari.corriere.it /dizionario_italiano/D/paniere.shtml  
   
[5] Cfr. dizionario inglese Merriam-Webster.

[6] Cfr. inno omerico a Pan, v.47.

[7] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[8] Anche il ted. Zu-speise ‘companatico’ non credo sia in rapporto con ted. Speise ‘cibo, pasto, pietanza’ ma con ted. Speise ‘lega metallica, bronzo’: infatti da quest’ultimo significato si ricava benissimo quello di ‘unione, connessione’ che sta alla base dell’it. companatico, come abbiamo visto.  Anche il gotico ga-hlaiba (a.a.ted. ga-leipo)‘compagno’ non è da intendere come un composto di ga- ‘insieme, con’ (cfr. ted. ge- con valore associativo-collettivo) e –hlaiba ‘pagnotta’ (cfr. ingl. loaf ’pagnotta’); quest’ultimo termine dovrebbe essere variante di lat. gleba(m) ‘zolla’ nel senso di ‘massa, ammasso’, che in questo caso sottolineerebbe  la compattezza e l’accordo nei comportamenti degli amici.  Di ted. Ge-selle ‘compagno, socio’, da intendere sempre in questo modo che punta l’attenzione sullo stretto rapporto tra gli amici, ho parlato già nell’articolo del mio blog citato alla nota 2.  I servi della gleba, espressione nota dal sec. XI, potrebbe essere una sorta di tautologia in cui i due termini servi e gleba dovevano in realtà indicare, all’origine, la stessa cosa: la condizione che univa strettamente il servo al suo padrone. I veri schiavi erano nel Medioevo rimasti in pochi.  Il servo della gleba, benchè sottoposto a dure condizioni dal suo feudatario, stava un po’ meglio del vero schiavo.  Il termine dell’a. a. ted. galeipo ‘compagno’ poteva essersi semanticamente evoluto o aver mantenuto uno dei significati originari, in qualche parlata germanica usata dai feudatari, ad indicare non più il rapporto tra due amici o commilitoni di pari grado ma quello tra il padrone e il suo servo, il quale restava comunque sempre  un  uomo legato al suo padrone, una sorta di dipendente o subordinato, con pochi diritti però da uomo libero. Il termine letterario it. gleba, che nella sua lontanissima origine poteva indicare sia la zolla che il rapporto tra due persone, si incrociò ancora una volta con la rispettiva forma germanica evolutasi ad indicare il rapporto di servitù, dando luogo all’appropriata espressione servo della gleba, che sembrerebbe creata ad hoc. Ma così non è.  Del resto non è forse vero che gli stessi schiavi romani erano componenti della famigia, termine derivante addirittura da lat. arc. famul, class. famul-u(m) ‘servo, schiavo’? Io penso che questi termini indicassero nel fondo la stretta interdipendenza di persone tra di loro, a prescindere dal modo servile o paritario in cui essa si attuava. Anche per lat. servu(m) ‘servo’ ho dato un etimo in tal senso nell’articolo Eserciti in rivolta [], presente nel mio blog (maggio 2014).  La voce lat. familia(m), dunque, non indicava all’origine un ‘insieme di servi’, significato che si sarebbe poi esteso a designare l’intera famiglia, ma semplicemente un ‘insieme’, riferibile contemporaneamente sia ai soli schiavi, sia all’intera comunità della famiglia che comprendeva anche uomini liberi, al netto delle specializzazioni quindi che la parola poteva assumere di volta in volta.  L’equivoco è derivato dal significato specialistico  di famul ’servo’ che precedentemente valeva invece solo ‘ (persona) legata ad un'altra’.

(8 bis) Cfr. sito web: www.piemunteis.it/wp-content/.../zalli_appendice2.pdf  

(8 ter) Cfr. Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimologico, consultabile in rete s. v. pantano.

(9 bis) Cfr. sito web: it.dicios.com/iten/spiraglio 

[10] Cfr. Albert Einstein, Note autobiografiche.

[11] Direi che in questo caso si ripete la stessa situazione di chi (Wagner, Pittau!)  connette il significato di sardo logudorese unturzire ‘sentirsi male (dopo aver mangiato troppo)’ al sardo unturzu ‘avvoltoio’ il quale pare essere molto vorace.  Ma ai due illustri linguisti sfugge che verbi simili al logudorese unturzire si incontrano, con lo stesso significato, anche in dialetti dell’Italia centro-meridionale, dove purtroppo non si vede  volare nei cieli nessun rapace targato unturzu.  Di tutta la problematica relativa alla necessità di cercare il significato originario delle radici all’interno di loro stesse, senza ricorrere all’aiuto di termini ricollegabili ad esse  per via metaforica, si parla ampiamente nell’articolo Il rosmarino ovvero [] del mio blog (dic. 2013).

lunedì 2 febbraio 2015

Genesi e sviluppo del proverbio "Prendere la lepre col carro"



 Da molto tempo avevo riflettuto su un proverbio certamente obsoleto, almeno dalle mie parti, che descrive l’insolita situazione in cui con un carro si dovrebbe acciuffare una lepre.  Prendere (pigliare) la lepre col carro viene spiegato, in senso generico e senza riferimento ad un campo particolare di attività, come ‘prendere le cose molto lentamente’ oppure come ’arrivare ai propri fini con pazienza’.  La stranezza della situazione è secondo me generata dalla inefficacia, appunto, del mezzo con cui si propone di raggiungere e afferrare il veloce animaletto, il quale in antico, prima dell’invenzione del fucile, veniva cacciato con arco e freccia, con trappole e lacciuoli sapientemente sistemati in punti obbligati di passaggio, con reti, ecc.[1] In effetti, data questa mancanza di qualsiasi rapporto tra il normale uso di un carro e il suo impiego per cacciare una lepre, l’ipotetico inventore del detto avrebbe potuto scegliere tra un certo numero di mezzi di locomozione ugualmente inefficaci, come le gambe stesse dell’uomo, alternativi a quello dell’inutile carro.  A me pare molto evidente, anche alla luce di quello che subito dirò, che manca un’accettabile motivazione per l’uso di quel termine al posto di possibili altri.  Per quanto riguarda il significato, poi, c’è da osservare che il proverbio, così come si presenta, si presterebbe più ad un’interpretazione pessimistica, come quella adombrata già nella spiegazione ‘prendere le cose molto lentamente’, che ad una ottimistica, fiduciosa di poter raggiungere in questo modo i propri fini. 
 
Queste difficoltà esegetiche di un proverbio, che verosimilmente affonda le sue prime radici negli strati profondi delle società preistoriche di cacciatori e raccoglitori, difficilissimamente si risolvono con  argomentazioni di tipo genericamente antropologico se non si tiene conto, nel contempo, della possibilità che esso sia passato attraverso strati linguistici diversi per arrivare fino a noi, modificando o cambiando il suo significato anche in modo radicale.  Gli studiosi sanno certamente che la trasmissione di un proverbio può andare incontro a trasformazioni varie anche nel significato, ma non mi pare che abbiano, per vari motivi, riflettuto abbastanza su certi particolari aspetti di natura linguistica, anche perché solitamente riportano questi modi di dire al medioevo o al massimo alla latinità.  Ma in questo caso c’è qualche indizio consistente, a mio parere, che ci spinge a ben ficcare gli occhi a fondo. 

Sfogliando il Vocabolario abruzzese del Bielli[2], infatti, ho incontrato la voce carr-érë ‘corsa di cavalli, gran corsa, carraia’ ma anche ‘la via che percorre la lepre inseguita dai cani’.  Quest’ultimo significato ci pone, ancora una volta, dinanzi ad un problema di motivazione: perché mai la via percorsa dalla lepre viene indicata con la voce carr-érë, corrispondente all’it. carriera, connessa con it. carro < lat. carr-u(m)?  E non è singolare che questo termine carro sia puntualmente presente, in stretto rapporto con la lepre, anche nel proverbio in questione?  Certamente sì!  Ma, nonostante ciò, uno potrebbe pensare che, siccome l’espressione abruzzese dë carrérë (a tuttë carrérë) vale, come del resto la rispettiva italiana, ‘di gran corsa, di gran carriera’, l’ipotetico inventore del proverbio sia stato mentalmente indotto, per associazione di idee, a scegliere questo termine per indicare il percorso della velocissima lepre. Contro questa supposizione, alquanto cerebrale e capziosa, milita però la constatazione che il proverbio, abbastanza diffuso in Sardegna in forme spesso tra sé differenti, non accenna mai ad un termine come l’abr. carrérë, che possa far scattare il meccanismo suddetto, ma nomina sempre il lento carro dei buoi.  

Nel paese di Lodé, nel nuorese, esso presenta la forma Su carru ‘e su re sichit su lepore ‘Il carro del re insegue la lepre’ per indicare la lentezza della giustizia che comunque alla fine raggiunge il fuggiasco, secondo alcuni, o al contrario la sua inefficacia nel farlo, secondo altri. Come si vede qui rispunta ancora una volta il dilemma tra la visione ottimistica e quella pessimistica, suscitate ambedue dalle identiche parole.  Viene inoltre introdotta la figura di un re il quale, oltre a ridar vita al problema della sua motivazione, sposta secondo me tutta l’attenzione sui rapporti intercorrenti in passato tra apparato dello Stato e sudditi[3], facendo perdere al proverbio quella che doveva essere forse la sua originaria veste e funzione descrittivo-didattica nel contesto di una vita campagnola.  In un’altra versione ottocentesca del proverbio, infatti, la sintetica dicitura è Su carru sighit su lepore  ‘Il carro seguita la lepre’ chiosata “con l’assiduità si raggiunge il diligente”, intendendo dire che con perseveranza e dedizione si possono raggiungere gli stessi risultati di chi è, o è stato, più diligente di noi.  Cito solo un’altra forma propria di Oliena-Nu: Su re tenede su lepore a harru ‘Il re acciuffa la lepre col carro’ in cui compare la voce harru < carru, con l’aspirazione della velare sorda iniziale /c/ come avviene in Toscana.  

Questo breve elenco di varianti del medesimo proverbio, che quasi sicuramente viene da molto lontano, ci fa capire che in questi casi il significato non è certamente rimasto quello che il suo ipotetico inventore aveva voluto dargli, imprimendo in esso il suo sapere come se si fosse trattato della voce definitiva di un oracolo.  La verità, a mio avviso, è che questo ipotetico inventore, di cui vado parlando, non è mai esistito, potendo esso essere benissimo sostituito dalla mutevole voce popolare che, per esperienza diretta, poteva cogliere da sé fatti, situazioni, comportamenti di animali e tramutarli piano piano e quasi automaticamente in proverbi che poi assumono un’aura un po’ misteriosa e problematica, proprio per l’interferenza in essi consumatasi con elementi estranei alla sua forma iniziale.  Va poi risottolineato debitamente  che il significato d’origine non poteva non subire, passando da occasione ad occasione e, soprattutto, da uno strato linguistico ad un altro, trasformazioni e deformazioni più o meno sostanziali adattandosi, da una parte a situazioni oggettive diverse, e, dall’altra, alla psicologia e alla mentalità di chi lo pronunciava.  Sicchè si può affermare con tutta sicurezza che in certi casi i proverbi non ci consegnano intatta la cosiddetta saggezza degli antichi ma un prodotto passato casualmente per mani diverse  che ne hanno riplasmato e stravolto la fisionomia d’origine.  Essi sono insomma non un prodotto monolitico e coerente di un solo uomo ma una elaborazione a più mani variamente mescidata nei secoli e nei millenni. 

Un’altra variante del proverbio di cui si discute può a mio giudizio aiutarci a capire concretamente quanto vado asserendo, se prendiamo per buone o almeno verosimili alcune osservazioni che sto per fare.  La variante, ampliamento di quella del paese di Lodé sopra citata, recita Su carru ‘e su re sichit su lepore in s’ena ‘Il carro del re insegue la lepre nella sorgente’.  Il sardo ena vale ‘polla sorgiva, fonte, ecc.’ (dal lat. venam ) e talvolta anche ‘valle’, ma non credo in questo caso.  La presenza di questo termine ena ‘vena, sorgente’ comincia a farci capire quale dovesse essere stato il contesto naturale in cui il proverbio cominciò a prendere forma: quello della vita e del comportamento degli animali osservati da occhi abituati a scrutarne giornalmente le abitudini. Ora, una prima spiegazione di questa variante, sempre un po’ malferma, potrebbe essere che la lepre, presa dai tormenti della sete dopo il suo correre all’impazzata, si ferma a bere presso una fonte dove il carro del re può raggiungerla, se non si tiene conto naturalmente della considerazione che il suo dissetarsi non durerà abbastanza a lungo da annullare tutto il tempo che il lento carro impiegherà a colmare il notevole distacco che la lepre avrà su di esso acquistato. 

 A questo punto ci vuole una energica operazione di  restauro per restituire al proverbio la semplicità e la bellezza di un quadretto realistico, degno degli occhi sgranati dei primitivi cacciatori dinanzi alla lepre che lambisce il liquido rinfrescante. Io sono convinto che dietro questo fantomatico carru > harru (ad Oliena) se ne stia ben acquattata nientedimeno che una parola corrispondente all’ingl. hare ‘lepre’ che doveva far parte del vocabolario di antichissime popolazioni sarde e italiche, visto che il proverbio era diffuso anche nella penisola.  Ecco, allora, finalmente scoperta la vera motivazione del termine abr. carr-érë nel suo significato di ‘la via che percorre la lepre inseguita dai cani’: agli orecchi di quegli antichissimi uomini che conoscevano quella parola *carr-o ‘lepre’, una carr-érë era finita per suonare proprio come ‘via della lepre’, anche se essa era nata col significato generico di ‘via, strada, percorso, sentiero, traccia’ e simili, da una radice variante di lat. curr-ere ‘correre’.  Certamente la velocità della lepre avrà favorito, ma non avviato, l’accostamento e l’incrocio dei due termini.

Sia ben chiaro. Una convinzione non è una prova inoppugnabile, ma le osservazioni che ho fatto sul ricorrere dello strano binomio carro/lepre la rendono almeno probabile e verosimile.

 Però anche in questo modo il senso del proverbio resta problematico perché il significato di *carru ’lepre’ va a cozzare malamente contro quello identico di sardo lepore ‘lepre’ (dal lat. leporem).  Per superare l’impasse si deve dar credito ad un’altra mia ferma convinzione, già espressa altrove[4]. E’ noto ai ricercatori che idronimi, oronimi e toponimi si ripetono normalmente su territori a volte vastissimi, perché essi nei tempi dei tempi erano a mio giudizio normali nomi comuni, il cui significato indicava direttamente l’oggetto cui si riferivano: una sorgente, un rigagnolo, un ruscello, un fiume, un colle, un monte, ecc. Questi significati talora rispuntano, a convalida dell’assunto, in qualche dialetto[5]. Ora, si dà il caso che ricorrano in Italia diversi idronimi come Fonte della Lepre, ad Aielli-Aq (nei dialetti in genere il nome dell’animaletto è maschile: Fonte jju Leprë, in dialetto aiellese), Fonte Leprara, a Forme-Aq, Fonte alla Lepre, a Riparbella-Pi, e persino un Fiume Lepre in Calabria.  Come dicevo, la mia convinzione è che in questi casi il significante lepre non serviva agli uomini preistorici ad indicare l’animale che conosciamo, ma quella che doveva ad essi apparire come un’altra forma vivente : l’acqua, la polla, la fonte, il rio, ecc.  In altre lingue la parola potè prendere la strada che la portò ad indicare, prima l’animale in genere, e poi l’animale di cui si parla.  Si tenga presente anche il fatto che la radice della parola lepre è considerata dagli etimologisti antichissima, e cioè “preistorica”, “prelatina”, “mediterranea”, ecc. 

A  questo punto, si può sperare di ridare la freschezza primigenia alla frase sarda Su carru sichit su lepore in s’ena che verrebbe a significare semplicemente ‘La lepre (carru) cerca l’acqua (lepore) nella polla sorgiva’. Personalmente credo che la parola *lepore ‘acqua’ sia imparentata con il gr. libr-ós ‘stillante, umido’, gr. lib-ás -ádos ‘goccia, flusso, corrente, sorgente, ruscello’, lat. lib-are ‘libare, versare’, radice a sua volta collegabile, a mio avviso, con quella di ingl. live ‘vivere’, ted. leb-en ‘vivere’[6].  Se non si vuole credere, come invece taluno suppone, che il lat. liqu-id-u(m) ‘liquido’ poteva avere anche una forma parallela *lip-id-u(m) che avrebbe quindi potuto dare anche un italico *lip-or-e(m) ‘acqua’, simile a lat. lepor-e(m) ‘lepre’, al posto di lat. liqu-or-e(m) ‘liquido, acqua’.  Da riflettere anche sulla sorgente Agua Livre (Acqua Libera) da cui origina il famoso Acquedotto delle Acque Libere di Lisbona in Portogallo.

Per quanto riguarda l’espressione ‘e su re ‘del re’, spesso aggiunta, nel proverbio, come specificazione di carru ‘carro’, penso possa trattarsi sì di specificazione o aggiunta, ma relativa all’originario significato della parola *carru ‘lepre’,  specificazione espressa prima in latino e poi reinterpretata in sardo.  L’espressione presumo che potesse essere costituita da un lat. exuret ‘arde’ oppure exurens ‘ardente, assetata’, forme del verbo lat. ex-ur-ĕre ‘infiammare, ardere, bruciare’, anche se in latino il verbo è solo transitivo[7].  Facile e naturale sarebbe stato il passaggio exuret > ‘e su re quando il significato del proverbio prese tutt’altra piega coinvolgendo il rapporto dell’uomo comune con l’autorità costituita. Ma finchè esso rimase inserito nello stretto ambito della vita campagnola di cacciatori o anche coltivatori, dovette significare  La lepre ha sete (e) cerca l’acqua nella sorgente oppure La lepre assetata cerca l’acqua nella sorgente.  Quante volte, ancora quando ero ragazzo, ho visto contadini che, lasciando momentaneamente il lavoro, cercavano l’acqua di una vicina sorgente, spesso non più grande di un esilissimo rigagnolo!  E non è assolutamente artificioso immaginare che i cacciatori o coltivatori della preistoria, incontrandosi nelle ore della canicola presso qualche rigagnolo ristoratore anche per consumare un parco desinare, pronunciassero scherzosi una frase simile a quella sarda, riferendosi metaforicamente anche a sé stessi e non solo agli animali.

Il significato che ritraeva un piccolo quadro di vita agreste dovette essere stravolto quando al valore primigenio di *carru ‘lepre’ subentrò quello di lat. carr-u(m) ‘carro’, probabilmente per la scomparsa dal lessico di quel vocabolo insieme all’altro vocabolo *lepore col significato di ’acqua’.   A questo punto, con la nuova veste che il proverbio cominciava a indossare, con un carro che inseguiva una lepre, al verbo exuret ‘arde (di sete)’ non restava altra possibilità che cadere dal contesto o trasformarsi senza sforzo in ‘e su re ‘del re’, appunto.


      


[1] Cfr. il breve articolo In bocca al lupo! crepi! nel mio blog (giugno 2009).

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004,

[3] Cfr. sito web Lodé.  Contributi antropologici alla sua storia, p.100.

[4] Cfr. P. Maccallini, Meditazioni linguistiche, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2007, p. 8.

[5]  Per maggiori notizie al riguardo cfr. il mio articolo Fonte “Cantu Riu” [] nel mio blog (sett. 2010).

[6]  In molti dialetti centro-meridionali si incontrano le voci lebbre ’lepre’, lebre ‘lepre’.  A Scorrano, nel Salento, l’espressione pijare nna lebbre significa ‘fare una caduta’. Qui la parola lebbre a mio parere non rimanda all’animale ma all’idea di “movimento, sdrucciolone” insita in quella di “corrente, rio’.  Il detto ricorre altrove come a Cingoli-Mc dove Ho cchiappatu u lepore vale ugualmente ‘ho fatto una caduta’.  
[7] Il latino poteva trovarsi in Sardegna già prima che vi giungesse con le navi romane.  Secondo il linguista Mario Alinei una vasta area del Mediterraneo, chiamata da lui Italide, parlava in qualche modo latino prima di Roma.