giovedì 3 dicembre 2015

L'espressione dialettale italianizzata in Come ti rimetti? 'Qual è il tuo cognome?'




  L’espressione, presente in tutti (credo) i dialetti marsicani nelle forme «cumma të rëmittë» ad Aielli o «commë të rëmittë»[1] a Luco dei Marsi e così via, non mi pare che abbia avuto un etimo soddisfacente finora.  A Trasacco il verbo rëméttë [2]‘rimettere’, oltre a mostrare i vari significati presenti anche in italiano, significa ‘coire’, tratto probabilmente da significato di ‘infilare, ficcare’ che si può desumere dalla radice del verbo lat. mitt-ere ‘inviare’, divenuto ‘mettere’ in italiano. Anche méttë, sempre a Trasacco, significa ‘coire’. Nei paesi della Valfortore, nel foggiano, l’espressione italianizzata Come ti metti? (senza la particella re- intensiva, iterativa o di movimento in senso inverso) significa anch’essa ‘Qual è il tuo cognome?’[3]


  Assai probabilmente alla base di questo verbo bisogna vedere la radice del gr. mŷth-os ‘parola, narrazione, mito’ e del gr. mythé-esthai ‘nominare, dire, narrare’.  Molti sono i grecismi da me individuati nei dialetti della Marsica. Siccome quando si chiede il nome nei nostri dialetti si usa l’espressione «cumma (o commë) të chiamë?» quasi uguale alla corrispondente italiana, l’altra di origine greca si specializzò ad indicare il ‘cognome’, che è in fondo un secondo nome aggiunto al primo. 
 





[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[2] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2002.
[3] Cfr.sito web: www.valfortore.it/notizie/documenti/letteratura/storielle-paesane-parte iii.pdf

sabato 7 novembre 2015

Il trasaccano "tècchese"= chiodini da calzolaio

                                    

   Nel suo Biabbà[1] il compianto Q. Lucarelli riporta questa voce femminile plurale col significato di ‘chiodini da calzolaio’. Egli crede che questo termine sia l’esatta trasposizione in dialetto dell’ingl. pl. tacks ‘chiodini, puntine’, sing. tack ‘chiodino, puntina’, la cui pronuncia corrisponde in pieno a quella della parola di Trasacco, nella Marsica. E’ risaputo che diverse parole dialettali, in effetti, si sono insinuate nelle parlate locali perchè riportate da emigranti, come il diffuso chénga o chénca dall’ingl. gang ‘squadraccia, banda di malaffare, cricca’.

   Ora, il ragionamento del Lucarelli sembra ineccepibile ma la comparazione con qualche voce equivalente di altri dialetti ci fa capire che in questi casi bisogna procedere con i piedi di piombo, anche perché sappiamo quanto la Lingua sia versicolore e insidiosa, pronta a farci cadere vittime di veri e propri miraggi.

   Nel dialetto di Castelluccio Valmaggiore-Fg, infatti, si incontra la stessa voce tècchësë[2] col significato di ‘chiodino a sezione quadrata usato dai calzolai’, solo che qui il termine è femminile singolare, non plurale. Allora è molto probabile che la presunta forma plurale della corrispondente voce trasaccana sia appunto frutto di un miraggio, come dicevo.  A mio parere si tratta di una radice che può avere due forme, una delle quali presenta un ampliamento in /s/, come avviene di solito con altre radici. La parola in questione credo che abbia a che fare con la radice di lat. tex-ere ‘tessere, intrecciare’, gr. ték-t-on ‘artefice, carpentiere, architetto’, gr. téch-ne ‘arte’, sscr. taks-ati ‘fabbricare, comporre’ e naturalmente è una variante dell’ingl. tack ‘puntina, chiodino’ di cui sopra. Il valore di fondo di questa radice è qui quello di "unione, connessione" non importa se ottenuta attraverso  incastri o lacci o chiodi, ecc. Non sono stati gli emigranti di ritorno dagli USA qualche secolo fa a portarci la parola, ma semmai furono popolazioni preistoriche a portare in Gran Bretagna la radice gemella, passando forse per l’Italia.

   Se ben riflettiamo, inoltre, sulla radice di lat. teg-ere ‘coprire’ ci accorgiamo che anch’essa può essere vista come una variante della precedente rad. TEK-S. Il coprire, infatti, non è altro che una forma diversa del congiungere, connettere, mettere insieme due cose.  Un tetto (cfr. lat. tec-t-um ‘tetto’) prima di svolgere la funzione di coprire è esso stesso una struttura di travi e tavole (almeno in antico) come anche una tegola (cfr. lat. teg-ul-am ‘tegola’) prima di svolgere, insieme col tetto, la stessa funzione di coprire, è anch’essa una sorta di tessera di un complesso costituito dall’insieme di tutte le tegole del tetto incastrate ad arte tra loro.  Sarà stata quindi quest’idea della tessera ad aver dato il nome alla tegola e non la sua contemporanea funzione del coprire, espressa comunque sempre dalla stessa radice.

   Questo significato di connessione e unione del lat. teg-ul-a(m) mi pare si ritrovi nel dialettale técchia che a Trasacco ha i significati di ‘doppia, coppia, doppietta’ e qualche altro a questi riannodabile. Ricordo che, quando si era ragazzi e si giocava a battimuro, se la moneta battuta andava a cadere vicino a due o più monete degli altri partecipanti al gioco, ad una distanza uguale o inferiore a quella di una bacchettina di una ventina di centimetri impiegata come misura, si gridava: «Tecchia! Ho fatto tecchia!» senza però conoscere l’etimo della parola. L’espressione significava chiaramente che si erano presi due o più piccioni con una fava, insomma.  Ora, anche in questo caso la parola, ad Aielli, indicava quindi che si era fatta una doppietta o tripletta di monete come a Trasacco.  L’etimo deve risalire ad una forma *tecla < *tec-ula (come it. macchia <*macla <lat. mac-ula) imparentata con lat. teg-ul-a(m) e doveva indicare un insieme di due o più cose.  La voce técchio, in diversi dialetti, significa anche ‘grosso, grasso, sodo’[3].  Da quanto ho testé detto mi pare che bisogna scartare l’etimo proposto dai linguisti, riportato ad un longobardo *thichi ‘grasso’ da confrontare con l’ingl. thick ‘spesso, denso, fitto, grosso’. L’idea di “grasso” qui potrebbe derivare da quella di “gruppo, insieme” propria della precedente voce tecchia di Trasacco ed Aielli.  Ma comunque la radice primitiva è la stessa!

   Da notare le varianti come sp. taco  ‘zeppa, tassello’, sp. tacón ‘tacco di legno[4]’ concetto che richiama quello di “inserimento, contatto, incastro”, o come l’abr. tacc-arèllë ‘pezzo di legno, per lo più in forma di cuneo’[5]. Il suffisso –arèllë ha valore diminutivo. L’it. region. tacc-one significa ‘pezza, toppa di cuoio applicata su scarpe o indumenti’ e resta sempre nell’ambito del collegare, cucire come mostra l’altro suo significato di ‘piccolo chiodo con capocchia a forma di tronco di piramide, usato per chiodare i tacchi degli scarponi’[6].  E’ chiaro che qui la radice dal significato generico si è specializzata ad indicare i chiodini per tacchi, data la coincidenza fonetica di due termini. E’ chiaro anche che questa coincidenza è avvenuta su suolo italiano, e questo fatto è una prova solida della provenienza italiana della variante trasaccana e foggiana tèchësë ‘chiodini’. Esiste anche l’abr. tacchë-mattë ‘toppa malamente messa’[7].  Si capisce subito che la notazione «malamente messa» è dovuta al significato di mattë ‘matto’, ma inizialmente anche questo componente del termine aveva lo stesso significato del precedente: cfr. ingl. mat ‘stuoia’, lat. matt-a(m) ‘stuoia’, abr. mattë ‘mazzo, fascio di frasche’, col loro concetto di “intreccio, insieme”. Allora anche l’aiellese tacc-ulòzzë ‘pasta asciutta di forma rettangolare o quadrata’ e gli abruzzesi tacc-arèllë, tacc-ozzèllë, tacc-unë[8] ‘sorta di pasta per minestra in forma di pezzetti rettangolari’ sono della stessa famiglia, apparentata con l’ingl. tag ‘etichetta, targhetta’. Non bisogna dimenticare nemmeno l’ingl. tack-le ‘strumenti, arnesi da lavoro, paranco’: siamo nel pieno del concetto di “struttura, strumento, insieme”.  Forse il termine è più noto nel sign. sportivo di ‘placcaggio, arresto (nel rugby), contrasto con un giocatore (nel calcio)’ che comunque presuppone sempre il concetto di “afferrare, fermare, fissare, legare”.

   L’it. tass-ello ha vari significati specifici che comunque convergono in quello di ‘pezzetto di legno o pietra, più o meno quadrangolare (cubo), che si inserisce in qualche buco dei muri o dei mobili per ripararli e rinforzarli’.  Esso deriva dal lat. tax-illu(m) ‘piccolo dado, tassello’. Il significato di ‘dado’ della parola deve essere stato ricavato da quello, preponderante in italiano, di ‘pezzo quadrangolare’, anche se il sign. di ‘tassello’ per il lat. taxill-u(m) è attestato, ma posteriormente all’altro. Qui va inserita una riflessione sul lat. tess-er-a(m) ‘cubetto, dado, tavoletta quadrata, tessera’ che i linguisti si affrettano a riportare al supposto gr. *tesserá(gōnos)[9] ‘quadrato’ (al posto del normale tetrá-gōnos)  sulla base di gr. téssara ‘quattro’, variante di gr. téttara ‘quattro’.  Ma un etimo così preciso sappiamo che è per lo meno molto sospetto.  Io preferisco supporre per il lat. tess-er-a(m) un immediato precedente *tex-er-a(m) con assimilazione regressiva del suono /k/ al seguente suono /s/, favorito, probabilmente, proprio dall’incrocio del termine col gr. téssara ‘quattro’, altrimenti mal si spiegherebbe il perdurare della radice intatta  TEK-S nel lat. tex-ere ‘tessere’.  Questi fenomeni di assimilazione non sono avvenuti solo nel passaggio dal latino all’italiano, ma certamente essi si sono verificati sin dalla più remota antichità.

  Se questo scenario che scopre notevoli convergenze tra parole dialettali, italiane, inglesi, è realisticamente ammissibile, come a me pare, si ha l’impressione, conseguentemente, che esse appartengano tutte come a dialetti (incluso l’inglese e l’italiano) di una stessa Lingua.

 Pietro Maccallini








[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.

[3] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998.

[4] Cfr. nel web: O. Pianigiani, Dizionario della lingua italiana. Anche l’it. tacco, allora, è di questa famiglia, essendo esso stesso un ‘tassello’ o un insieme di ‘pezze di cuoio’ bel connesse tra loro e con la suola della scarpa.

[5] Cfr.  D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq 2004.

[6] Cfr. T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Paravia 2000.

[7] Cfr. D. Bielli, cit.

[8] Cfr. D. Bielli, cit.

[9] Cfr. M. Cortelazzo-P. Zolli, Deli, Dizionario etimologico della lingua italiana,Zanichelli, Bologna 2004.

mercoledì 7 ottobre 2015

Il trono di Iside e il concetto di "sedia"

                                                                                         
                                              
  Nell’articolo precedente ho fatto notare che di solito la dea Iside veniva rappresentata con un trono sulla testa e che essa pertanto era il simbolo del potere divino o regale. Ora, la voce Aset (variante di Iset), nome della dea in egizio, significa proprio ‘sedia, seggio, sede, trono’, e questo spiega la sua raffigurazione. L’etimo del termine non ci è noto (bisognerebbe conoscere l’antico egiziano per cercare di individuarlo col mio metodo), ma molto probabilmente esso doveva somigliare, per il significato, agli altri che abbiamo analizzato riguardanti gli altri attributi della dea, che contengono il concetto di ‘connessione, unione, composizione’ così caratteristico della dea la cui funzione precipua era quella di mettere insieme, comporre e risistemare le cose. 

  Per convincersi della bontà del precedente ragionamento circa il significato dell’etimo ignoto di egizio aset ‘sedia’ è opportuno chiarire i significati degli etimi di it. sedia e it. trono.

  Quando noi pensiamo, in effetti, al lat. sed-e(m) ‘sedia’, al fine di giustificarne l’etimo che ci pare lampante dal verbo lat. sed-ere ‘sedere’, ragioniamo in questo modo: la sedia è il mobile su cui una persona siede o si mette a sedere.  E così facendo ci precludiamo ogni possibilità di supporre che non fu questo tipo di circonlocuzione a determinare la nascita del termine. Ormai sappiamo bene che la Lingua è usa nominare le cose direttamente, dati i molti esempi incontrati che depongono in questo senso. La verità è che una sedia è appunto un mobile, un congegno, una struttura in via prioritaria che ha assunto successivamente il significato particolare di ‘sedia’, quando si è incrociato con quello del verbo lat. sed-ere ‘sedere’. Ma anche quest’ultimo significato è il risultato della specializzazione di uno precedente più ampio e generico. Noi siamo troppo abituati a riferire l’azione o lo stato di sedere ad un uomo che si abbassa piegando le ginocchia per mettersi a sedere o che se ne sta seduto su una sedia, uno sgabello, un sedile qualunque per poter sospettare che dietro quest’azione e questo stato ci sia il significato precedente di mettersi in contatto, contattare, stare in contatto, toccare, stare attaccato, stare connesso non necessariamente riferito ad un uomo, ma a qualsiasi corpo che entra in contatto con un altro. In effetti, uno dei significati del lat. sed-ere è proprio ‘aderire, restare attaccato’ che a mio avviso è quello primitivo in quanto più generico rispetto all’altro.  Allora è ammissibile che il significato originario di lat. sed-e(m) ‘sedia, sede’ fosse quello di ‘struttura, strumento, apparecchio’, un oggetto, insomma, composto da una serie di elementi attaccati o incastrati solidamente insieme. Il sostantivo ingl. set ‘serie, raccolta, insieme (mat.), apparecchio (radio o televisore)’, ritenuto sempre una forma della radice in questione, ne è la prova evidente.  Tra l’altro la parola assume anche il significato di ‘pesante struttura lignea usata per sostenere le pareti nei lavori di scavo, nelle gallerie, ecc. avvicinandosi molto all’idea che sta dietro quella di “sedia”.  In abruzzese[1] il verbo sëdé vale ‘trattenersi a veglia: delle donne che nell’inverno vanno dalle amiche e lavorando conversano’.  Il verbo quindi non può indicare in questo caso la semplice azione del sedersi bensì quella di raccogliersi, riunirsi nella casa di qualche amica. Nel dialetto di Aielli, mio paese, la voce sèdë (3° pers. sing. dell’indic. pres. La 3° pl. è sìdënë) riferita ad albero da frutto significava (perché oggi credo siano pochi quelli che ne conoscono il senso) che quell’albero era zeppo, pieno, carico di frutti.  Siamo nell’ambito del concetto di ‘molteplicità, abbondanza’ variante di quello di “massa”, la quale è composta di molti elementi addossati insieme.

  La mancata consapevolezza, da parte della linguistica tradizionale, della esistenza di un significato generico dietro le parole, che tende a diventare sempre più generico andando a ritroso, ha prodotto molti equivoci e difficoltà insormontabili che intristiscono non poco questa bella e utilissima scienza dell’etimologia e del Linguaggio degli uomini.  Con questo nuovo metodo si potranno districare molte situazioni ingarbugliate riguardanti gli etimi e i meccanismi di tutte le lingue esistenti. 

  Se prendiamo il gr. thrón-os ’sedia,trono’, con le varianti thrân-os ‘sedia, sgabello’ e thrên-os ‘sgabello, predella, banco dei rematori’,  vedremo che esso deve essere messo in rapporto con l’it. tranello, piuttosto che col verbo sscr. dhāráyati ‘egli teneva, portava’ come solitamente si fa. In greco, d’altronde, si incontra la parola thróna ‘fiori ricamati, ricami’ la cui radice deve aver avuto il significato originario di ‘intessere’, cioè disegnare con l’ago una figura su un tessuto, operazione equivalente a quella di intrecciare. La parola richiama l’irl. druine ‘ricamo’. 

  L’it. tranello ha avuto, a mio parere, etimologie molto infelici che riportano il termine all’it. ant. tranare, variante di trainare, verbo derivante da un supposto lat. volgare *tragin-are, tratto dal class. trah-ere ‘trarre’.  Il tranello sarebbe secondo il Devoto[2] «(azione subdola) per trascinare (in un’insidia)»! Dove è andata finire la semplicità e il modo diretto di nominare le cose che abbiamo spesso rilevato in altri casi? Oggi il significato della parola è quasi soltanto quello figurato di ‘inganno, trappola’, mentre nel dizionario etimologico d’inizio ‘900 del Pianigiani se ne dà anche il significato di ‘rete,laccio’.  Per venire a capo di questa non bella situazione possiamo ricorrere, armati della convinzione che dietro la parola ci sia un significato generico di ‘legame, legaccio’ e simili, alle voci inglesi treenail, trenail, trunnel che hanno il significato marinaresco di ‘caviglia di legno’, usata per fissare tavole nella costruzione delle navi.  La sua funzione è quindi quella di fissare, inchiodare, tenere stretto, legare. Apparentemente l’etimo di tree-nail è semplicissimo, tanto che i linguisti non ne dubitano affatto: si tratterebbe di chiodo (-nail) di legno (tree-). Però tree significa solo ‘albero’, e già questa piccola difficoltà dovrebbe indurci a riflettere di più, anche se la radice in altre lingue mostra anche il significato di ‘legno’. La variante tre-nail si distacca poco dalla precedente, ma la variante trunnel[3] apre uno scenario diverso. 

  Infatti, a mio parere, la forma tree-nail è il risultato dell’etimologia popolare tratta da un precedente termine *trenel (anche *tranel) simile alla variante trenail, ma anche, per la parte finale, a trunnel, il quale in inglese risulta però opaco, cioè senza un qualche etimo evidente. E sappiamo come l’etimologia popolare o paretimologia in questi casi si dia da fare, quando è possibile, per rendere più familiare e cordiale il termine trovandogli una qualche motivazione purchessia.  Direi però che in questo caso la sua opera è ineccepibile, in quanto l’etimo da essa supposto indica con estrema precisione il referente. Ma è proprio questa precisione ad essere sospetta per i motivi che abbiamo sottolineato più volte,scaturenti dalla necessità che il significato originario di un termine deve essere assolutamente generico. Allo stesso modo io sono convinto che la maggior parte delle parole composte, in inglese ed altre lingue, avevano originariamente non due significati rispondenti ai due termini del composto ma uno soltanto, come ho ricordato anche in altri articoli. Parole sante sono quelle del Saussure che suonano :«Contrariamente all’idea falsa che noi volentieri ce ne facciamo, la lingua non è un meccanismo creato e ordinato in vista dei concetti che deve esprimere»[4].  Egli in questo passo commenta la formazione di alcuni plurali in inglese, ma la sua osservazione può ben essere riferita a tutti gli aspetti della lingua, compreso quello della formazione dei significati specializzati: in uno stato casuale, fortuito della lingua lo spirito si insinua a ricavarne magari quello di cui ha bisogno per una comunicazione il più possibile chiara e razionale.

  A questo punto mi pare chiaro che l’it. tranello, che, secondo il Pianigiani, significa anche ‘rete, laccio’, debba far parte di questa famiglia di parole inglesi che semanticamente indicano la funzione del legare, connettere, fermare, fissare.  Si sa che reti e lacci costituivano strumenti essenziali nell’uccellagione e nella cattura di altri animali, che rimanevano impigliati in essi.  L’etimologia popolare ha fatto il miracolo di trasformare un significato generico in uno molto preciso e calzante alla perfezione, come se il composto che ne è derivato fosse stato creato ad hoc. Ma noi sappiamo che ciò è impossibile. Questo è uno dei principi fondamentali della mia linguistica.  Le cose sono andate effettivamente così: esisteva un termine *trenel dal significato generico di ‘legame, legaccio’ e simili e la Lingua ne ha approfittato per adattarlo meravigliosamente, nel modo che abbiamo visto, ad indicare la caviglia di legno e creando un termine specifico che rende la comunicazione più chiara e puntuale.  Comunicare con termini contenenti solo significati generici riuscirebbe molto più aleatorio e penoso. 

  Anche l’etimo dell’it. trina, riportato all’aggett. lat. trin-u(m) ‘triplice, trino’, è poco convincente per il suo eccesso di precisione, che alluderebbe ad un intreccio di tre fili. Ma la trina è un pizzo o merletto non composto da tre fili, come il genovese trena che ha il significato generico di ‘cordoncino’.  Anche questa radice, quindi, è una variante di quella di it. tranello. Il suo incrociarsi col lat. trin-u(m) ha provocato un tentativo mal riuscito di far specializzare il significato generico iniziale nella direzione del tre, quando invece i suoi referenti sin dall’inizio potevano avere un numero  di fili maggiore di tre.

  Ma non è tutto.  L’it. traino, l’abr. traìnë ‘carro’,abr. trainèlla ‘carretto’ non sono da ricondurre, nemmeno questi, alla radice del verbo lat. trah-ere ‘trarre, trascinare’ con cui si sono pure incrociati, ma a quella di it. tran-ello perché con essa venivano a significare quello che realmente sono: un insieme di parti unite tra loro, una struttura. Anche l’it. treno, dal fr.train, non può sottrarsi allo stesso ragionamento.

  Una considerazione importantissima che si può fare, sulla base di questi esempi che riguardano parole di diverse lingue e dialetti, è che tutti gli idiomi dell’uomo evidentemente obbediscono agli stessi principi generali per la formazione delle parole. Così anche i linguisti giapponesi, ad esempio, potrebbero risolvere con una certa facilità questioni etimologiche e linguistiche riguardanti la loro lingua.

   Viva Iside, la gran madre di Dio, dea della vita e della morte, dea del silenzio e delle innumerevoli parole, la quale, con le sue arti magiche, deve avermi aiutato non poco a districare questi imbrogliatissimi nodi semantici.




[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario bruzzese, Adelmo polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[2] Cfr. G. Devoto, Dizionario etimologico, Le Monnier, Firenze 1968.
[3] Cfr. Dizionario Mirriam-Webster
[4] Cfr. Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Editori Laterza 1976, Bari, p.104. Traduzione di Tullio De Mauro.  

venerdì 2 ottobre 2015

Il sistro di Iside ed altro

                                       

 Mi è piacevole, oltre che utile, tornare a parlare del mito di Iside[1], dea egizia della maternità e fertilità, sposa del fratello Osiride, madre di Horus.  Il suo culto si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo e in tutto l’Impero romano, benchè venisse ostacolato dagli imperatori augustei.  Molti tratti dell’iconografia riguardante Iside si ritrovano in quella cristiana della Vergine Maria come anche gli appellativi di Madre di Dio, Regina del cielo, Immacolata concezione, Consolatrice degli afflitti. L’immagine molto comune della Madonna che tiene in braccio il bambino Gesù corrisponde esattamente a quella di Iside con in braccio il figlio Horus.  Il sincretismo, cioè la contaminazione attraverso i secoli e i millenni delle tradizioni relative a qualunque mito religioso o di altra natura con miti simili di altre religioni, è un fenomeno molto ricorrente: ben farebbero coloro che sono preposti all’insegnamento della religione cattolica, ad esempio, a mettere in rilievo i tanti punti di contatto di essa  con religioni e credenze pagane, se si vuole veramente contribuire a formare coscienze più consapevoli e mature per quanto riguarda la fede di ciascuno.

 Ora, anche le parole che accompagnano i miti, i riti, gli strumenti attribuiti a qualche figura religiosa, sono spessissimo il risultato di incroci di diversi vocaboli omofoni provenienti da lingue e dialetti diversi che hanno, quindi, con i vari significati, contribuito a creare e trasformare le tradizioni stesse, come più volte ho avuto modo di far notare.  La radice del termine sistro, dal lat. sistr-u(m), gr. seistr-on viene solitamente accostata al verbo gr. séi-ein ‘scuotere, agitare’.  Ma ―ho avuto modo di sottolinearlo altrove― etimologie di questo tipo, che non indicano direttamente lo strumento e si accontentano di proporre, come in questo caso, una radice che indica solo un’azione che riguarda lo strumento quando viene usato, lasciano il tempo che trovano.  Il sistro è molto semplice: esso consiste di una lamina piegata a ferro di cavallo con un manico per l’impugnatura, e di una serie di aste trasversali, inserite in appositi buchi praticati nella lamina.  Scuotendolo si ottiene un suono piuttosto indeterminato generato dalle aste. Si tratta di un vero e proprio strumento in senso etimologico, cioè una struttura, una costruzione, un insieme di parti interconnesse.  Anche il così detto nodo di Iside o tit (oppure tiet, tet, teth, ecc.), di cui ho parlato nell’articolo citato del mio blog, rientra in questo concetto generico di “connessione, collegamento, unione” che appare essere particolare di questa dea, protettrice del matrimonio, cioè dell’istituzione che congiunge due persone di sesso diverso.  Ma non è tutto! La dea ricompone i vari pezzi, sparpagliati in tutto l’Egitto, in cui il fratello Seth aveva sezionato il corpo di Osiride suo marito, dopo averlo ucciso, e lo riporta in vita.  Essa è una costruttrice sembrano suggerirci questi tratti del mito, anche se proprio in virtù di queste capacità di resuscitare i morti, per così dire, era diventata anche dea della magia e dell’oltretomba.

 Ritornando al sistro mi pare si possa azzardare un accostamento, apparentemente campato in aria, col termine inglese sister ‘sorella’ (cfr. m. ingl. suster, soster) il quale, a mio avviso, deve trovare la sua motivazione nel concetto di “congiunto” o di “membro di un gruppo”, concetto non diverso da quello di “struttura, collegamento, unione” precedentemente illustrato.  Questo significato me lo suggeriscono alcune voci dialettali come lombardo sóstra, suóstra [2](cfr. ted. Schwester’sorella’) ‘tettoia, magazzino per legna o altro, ecc.’.  Una tettoia solitamente è costituita da una struttura in legno e non è detto che questo termine sia un derivato dalla radice di lat. teg-ere ‘coprire’, da cui lat. tec-tu(m) ‘tetto’: si potrebbe trattare di incrocio con la radice di lat. tex-ere ‘tessere’, e gr. tékt-ōn ‘artefice, falegname, carpentiere, scultore, costruttore, architetto, ecc.’, radice un po’ messa all’angolo in latino dall’altra più comune e chiara.  L’accostamento di queste apparentemente distanti radici, quella per ‘sorella’  e l’altra per ‘struttura, connessione’, perde il carattere di azzardo, se si pon mente all’aggettivo ingl. sister-ing che vale ‘contiguo, vicino’[3]. Un uso figurato di ingl. sister ‘sorella’ avrebbe dovuto produrre un significato come ‘simile, somigliante’, un po’ diverso da questo di ‘contiguo’ che, a mio parere, mette in evidenza il significato originario della radice, cioè quello di ‘congiungimento, connessione, addossamento, contatto, ecc.’.  Anche il sardo  sòstre, che pare venga dal catalano, significa ‘soffitta’, qualcosa di simile a tettoia.

 Credo sia opportuno introdurre anche un’altra voce, quella di susta, che in alcuni paesi della Marsica, ma anche nel napoletano e probabilmente anche altrove, significa diverse cose: alterigia, boria, sussiego; spilla pettorale o fermaglio che usavano le donne nei tempi andati[4]; ressa, pressa, calca, elastico (nel napoletano); molla a spirale, stanghette degli occhiali, imbroglio[5] (in Toscana).  Ora, io sono del parere che questi concetti, apparentemente irrelati, possano invece riannodarsi insieme, partendo da quello originario di ‘spinta’ che in fondo sta dietro a quello di ‘contatto, connessione, addossamento’ poco fa introdotto.  La ressa e la calca ne sono una forma evidente, come l’elastico e la molla a spirale, oggetti la cui natura essenziale è quella di avere in sé una forza propulsiva, che preme in qualche direzione. Le idee di fermaglio e stanghetta trovano anch’esse un punto in comune nella funzione, caratteristica dei due oggetti, di unire, fissare, collegare tra loro, più o meno stabilmente, due cose diverse come gli occhiali e il viso (attraverso l’appiglio delle orecchie) o, nel caso del fermaglio, i due lembi di una camicia o addirittura il fermaglio stesso e la camicia. Nel dialetto di Trasacco-Aq si incontra anche la variante sùstalë ‘grappa di ferro che tiene strette insieme due assi’[6].  Resta da spiegare l’alterigia e il sussiego che, a mio modo di vedere, non sono altro che il contegno di chi si muove e cammina tutto teso e impettito come fosse spinto da una forza interiore che lo fa sentire al di sopra degli altri.  A meno che non si tratti, all’origine, dell’atteggiamento risentito e stizzoso di chi viene infastidito perché pressato da qualcuno. Nel dialetto veneto sustàr, insustàr[7] significano appunto ‘irritare, stizzire, infastidire’ ma l’espressione omo pien de susta vale ‘uomo pieno di tempra e fibra robusta’ con la quale, a mio parere, si ritorna al concetto di ‘spinta, carica, molla’.  Non si può far derivare queste voci dal lat. suscitare ‘eccitare’, altrimenti non si saprebbe come spiegare i significati di ‘stanghette per gli occhiali, e di ‘imbroglio’ della voce susta.  Quanto tempo trascorso c’è dietro questa e tante altre parole! Chi credesse che ogni termine nasce con un significato particolare non potrebbe mai, se non artatamente, rimettere insieme, come i pezzi sparpagliati del corpo di Osiride,  tutti i significati che una parola ha sciorinato qua e là, partendo da quello generico iniziale, nel corso della sua lunghissima vita.

 La leggenda voleva che Iside fosse anche l’inventrice della vela.  Il nome della dea in egizio era Aset o Iset.  La prima versione pare che avesse il significato di ‘sedia, sede’ e così si spiega anche il fatto che la dea, rappresentata normalmente con un trono sulla testa, divenisse il simbolo del potere regale o divino. La seconda versione Iset, che probabilmente era pronunciata Ist, come la prima Ast, è molto vicina al gr.hist-ỉon ‘vela, panno, tessuto’, diminutivo di gr. hist-ós ‘tela, telaio, trama’.  Così si spiega anche l’insegnamento dell’arte della tessitura impartito, sempre secondo la tradizione, alle donne egiziane da parte della dea.  O vogliamo forse credere che tutto il mito sia dovuto all’invenzione della mente degli uomini che si misero un bel giorno, o in fasi successive nel tempo, a fantasticare sulla natura, le attribuzioni e il comportamento di Iside così, di punto in bianco, senza nessuno stimolo? La loro opera secondo me si limitò a dare una veste formale di racconto a quanto, intessuto con i significati dei vari nomi attinenti la divinità, si andava a mano a mano formando spontaneamente, attraverso secoli e millenni dall’inizio preistorico del suo culto.






[1] Cfr. l’articolo Il tedesco Hochzeit […] del mio blog (luglio 2015). Iside era la maggiore divinità femminile dell’Egitto.

[2] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato,  I dialetti italiani, UTET, Torino  1998.

[3] Cfr. Dizionario Merriam-Webster. Se si va sul sito: apologeticacattolica.blogspot.it/2011/02/significato-di-adelphos.html  si vedrà che anche il greco adelphos , che normalmente significa ‘fratello’,  ricorrono nei papiri e altrove i più svariati significati che però possono essere riuniti tutti sotto il concetto di ‘congiunto, parente, amico’.  L’etimo tradizionle di ‘couterino’ a mio avviso non è valido. 

[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003. 

[5] Termine marinaresco: ciascuno dei cavi per avvolgere rapidamente le vele. Cfr. De Muro, il dizionario della lingua italiana, Bruno Mondadori ed., Paravia, 2000.

[6] Cfr. Q. Lucarelli, cit.

[7] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato,  I dialetti italiani, cit. sub v. insustàr.


martedì 21 luglio 2015

Il tedesco Hochzeit 'nozze, matrimonio': uno di quei termini il cui etimo non costituisce un problema per i linguisti, eppure la verità sembra essere tutt'altra.




     Ormai, come ho ripetuto più volte, questo è un principio assodatissimo della mia linguistica: è vano credere che il significato etimologico di un termine possa essere cercato tra le espressioni metaforiche, traslate, figurate che da esso sono apparentemente e subdolamente suggerite o da esso possono essere ricavate con i significati che attualmente la Lingua assegna alle parole o alle parti di cui esse sono composte. La Lingua, al contrario, nomina direttamente i suoi referenti, nel senso che le parole contengono in sé radici che all’inizio della loro annosa vicenda, la quale si immerge ben a fondo nella preistoria, indicavano le cose per quello che erano, cioè con concetti appropriati che non avevano bisogno dell’ausilio delle varie figure retoriche, ben descritte dalla grammatica sin dall’antichità.  Il problema è costituito dal fatto che, col passare dei molti millenni che ci separano dall’origine di una parola, su di essa si sono in genere accumulati significati diversi da quelli primordiali, sviando e frastornando la nostra capacità indagatrice.  Questo è potuto accadere perché i significati che una radice poteva assumere, nelle varie e frammentate parlate di una comunità preistorica, erano i più diversi, in un ventaglio aperto a 360°, e soggetti a facili e numerosi incroci, contrariamente alla falsa idea profondamente infissa nella nostra mente, secondo cui una radice era ed è adatta ad esprimere solo uno o alcuni dei significati, tra tutti quelli possibili, a parte i significati metaforici che da essa possono scaturire. 

    Così, per il tedesco Hoch-zeit ‘nozze, matrimonio’, i linguisti non possono fare altro che prendere atto dei due significati apparentemente indiscutibili, quello dell’aggettivo hoch- ‘alto’ (cfr. ingl. high ’alto’) che presenta anche i significati simili e traslati di ‘grande, importante, sublime, ecc.’, e l’altro del sostantivo zeit ‘tempo’, affine all’ingl. tide ‘marea, corso, tendenza, stagione, tempo, periodo (festivo)’ per ricavarne i significati di ‘tempo importante’ o ‘cerimonia festiva importante’ i quali sembrano adattarsi bene ad indicare metaforicamente le nozze, o il matrimonio, a meno che non si colga la nota stonata di questa definizione figurata che nulla ha a che fare col modo di procedere e di costruire le parole da parte della Lingua.  Così facendo i linguisti seppelliscono per l’eternità il vero significato di questa parola Hoch-zeit ‘matrimonio’ che, all’origine, era più o meno lo stesso di quello indicato dal vocabolo di oggi nel suo complesso, ripetuto però tautologicamente in ciascuna delle due componenti del termine.

   La prima componente Hoch-  è solo una reinterpretazione di un vocabolo originario similissimo all’ingl. hock ‘garretto’, significato che apre a tutti quelli che indicano un’articolazione, una connesione, un insieme, una massa, una unione, un matrimonio, quindi.  Lo stesso ted. Hocke ‘mucchio di covoni’ conferma bellamente il nostro ragionamento come pure l’ingl. hock nel significato colloquiale di ‘impegnare’, il quale è sempre un ‘legare qualcosa a qualcos’altro’.  Si tenga presente anche la variante ingl. hitch ‘annodarsi, impigliarsi’ nonché (amer. colloq.) ’andare d’accordo, essere in armonia’. Fa parte di questa serie anche l’it. cocca, considerato di etimo sconosciuto, nel significato di ‘nodo’ agli angoli di un fazzoletto.  Ma, a ben riflettere, anche l’altro significato di ‘tacca all’estremità della freccia’, che permette l’aggancio della freccia con la corda, fa capo a quello generico di ‘connessione, unione’ specializzatosi e incrociatosi con altri significati.  Molto probabilmente, allora, anche il dialettale (centro- meridionale) cocchia 'coppia, pariglia' sarà derivato da un precedente *coc-ula piuttosto che essere variante di lat. cop-ula 'legame'. Il significato tipografico di Hochzeit, poi, e cioè quello di 'doppione', parla chiaro.  Altri termini li lasciamo stare, questi esempi bastano ed avanzano. 

   Per la componente –zeit e il suo probabile incrocio con un originario termine per ‘matrimonio’ o ‘massa, impasto’  si guardi il danese taet ‘spesso’ (agg.), dan. tit ‘spesso’(avv.), ebraico tit ‘terra argillosa, terra grassa’, ted. Tit-sche 'salsa, intingolo', ted. Mahl-zeit 'pasto' (non 'ora di pasto', che si dice essen-zeit) il cui  1° membro Mahl- in tedesco significa da solo ugualmente 'pasto', ingl. tod ‘unità di peso per lana, fascio, massa’.   Ma la cosa più interessante è incontrare nella lingua egizia il termine tit, tjet, tet (con varianti) ‘nodo di Iside’, un particolare tipo di nodo che la dea egizia, nota in tutto il bacino del Mediterraneo, portava tra i due seni. Essa secondo la leggenda istituì anche il matrimonio ed è quindi possibile che questo nome tet, tit, tjet avesse avuto in qualche lingua o dialetto del mondo egizio proprio quel significato, giunto in verità fino a noi.

   Interessante è anche l’esatta corrispondenza di questo tratto di sonorità zeit < zit con il dialettale meridionale zita, termine che indica solitamente un tipo di pasta (la quale si configura appunto come un impasto, mescolamento, unione), oltre a designare lo sposalizio stesso e il matrimonio.  Questo significato è importante notarlo non è dovuto al fatto che anticamente il tipo di pasta veniva usato anche nei pranzi matrimoniali, ma alla circostanza che doveva esistere nei nostri dialetti un termine simile o uguale per ‘matrimonio’ che si incrociò con quello corradicale per ‘impasto, pasta’ e determinò l’impiego di quel tipo di pasta nel pranzo delle nozze.  Che la pasta zita assomigli a quella più nota come bucatini è dovuto all’incrocio con un probabile termine come l’ingl. teat ‘capezzolo’, una sorta di tubicino, dotto per la fuoruscita del latte.

   La leggenda di Santa Zita, inoltre, la vergine (cfr. tosc. cita ’ragazza’) di Lucca di umile famiglia, narra, tra l’altro, che essa mangiava lo stretto necessario e lavorava indefessamente tanto da essere diventata esile come un fuscello, cioè come uno stelo di paglia, dunque, altra epifania del concetto di “bucatino”, cioè la pasta zita.  La Santa, un giorno, essendo rimasta a pregare troppo a lungo dopo la Comunione, e dovendo preparare il pane per la famiglia del ricco mercante presso cui svolgeva il suo servizio di domestica, trovò miracolosamente la farina già impastata nella madia: è evidente che il suo nome, fatto derivare dal toscano cita, citta ‘ragazza’, si incrociò con termini indicanti il concetto di “unione, impasto, matrimonio” di cui ho parlato sopra.  L’it. zitella, diminutivo di zita, a mio parere conferma l’incrocio della radice con quella per ‘matrimonio’: il suo significato originario di ‘ragazza non sposata’, infatti, senza la connotazione dispregiativa attuale, si sarà originato proprio a contatto con l’altro termine simile per ‘matrimonio’, che avrà generato prima il significato di ‘ragazza da matrimonio, da marito’ e quindi quello di ‘ragazza non sposata’.