martedì 1 aprile 2014

Il "municipio" ovvero il concetto di "unità". Linguistica e fisica dei quanti



                                              
                                                                
Da gran tempo avevo ruminato sull'etimo del lat. muni-cipi-u(m) ‘municipio, comune’  perché la proposta che i linguisti mi offrivano non mi soddisfaceva.  Per un motivo soprattutto: la loro spiegazione non tiene conto del principio della ripetizione tautologica dei due componenti del nome, principio su cui difficilissimamente transigo.  Essi infatti intendono muni- come un chiaro riferimento al lat. munia ‘doveri, obblighi’ e -cipi- come un altrettanta limpida radice collegata a lat. cap-ere ‘prendere’, lat. in-cip-ere ‘cominciare, intraprendere’, ecc.  Il muni-cep-s ‘munìcipe, cittadino, concittadino’ sarebbe insomma colui che si assume tutti i doveri inerenti alla sua condizione.  Qualcuno potrebbe supporre che il termine municipiu(m) sia nato in concomitanza con l’espansione di Roma nell’Italia centro-meridionale e con la creazione dei molti municipia legati ad essa da vincoli di volta in volta diversi, come era suo costume.  Ma sicuramente non è così perché il termine muni-cep-s indicava a Roma da gran tempo lo straniero (generalmente etrusco) che, vivendo in città, doveva accollarsi per questo alcune incombenze, i munia appunto, come il servizio militare. E vedremo che probabilmente il termine in origine, più che riferirsi ai doveri da svolgere, voleva indicare soltanto chi entrava nella comunità romana, indipendentemente dalle condizioni che pure doveva accettare, anche se poi l’incrocio con le voci suddette ne cambiò quasi completamente il significato nel senso descritto.  Se si vuole essere pignoli, infatti, la spiegazione corrente cozza contro il fatto che il muni-cep-s ‘munìcipe, cittadino’, come contropartita ai doveri da espletare, otteneva anche diversi diritti evidentemente, e non si capisce perché il suo nome dovesse essere così strettamente connesso al concetto di “dovere”, quando si riflette che la condizione naturale ed essenziale, da cui ci si aspetterebbe che derivasse il nome di cittadino, è quella di essere nient’altro che un membro di una comunità.  Il fenomeno della municipalizzazione sarebbe iniziato in effetti abbastanza tardi, subito dopo la guerra Sociale (90-88 a.C.).[1] E’ un fatto, comunque, che il termine già esisteva.  Esso doveva provenire da molto lontano, quando probabilmente significava solo cittadino. Successivamente fu soppiantato per questo impiego dal lat. cive(m) ‘cittadino’ ed esso sopravvisse adattandosi ad indicare lo straniero che entrava nella comunità romana perché d’altronde il suo significato di superficie sembrava proprio alludere a chi, venendo da fuori, si caricava (-ceps), da un certo momento in poi, dei doveri (muni-) del cittadino.  Con la municipalizzazione il termine conobbe una nuova fioritura passando ad indicare le numerose comunità italiche (sempre straniere rispetto a Roma) che a vario titolo entravano in possesso della cittadinanza romana.

   Gli ostacoli che si oppongono a queste mie considerazioni sono abbastanza consistenti.  L’aggettivo lat. mun-e(m)  significa infatti ‘che fa il suo dovere, riconoscente, compiacente’; il sostantivo lat. munus, eris (arc. moenus, eris) significa anch’esso sostanzialmente ‘dovere, obbligo, dono, regalo’. Uno spiraglio comincia ad aprirsi, per una giusta interpretazione del termine, se si cerca di avvicinare tra loro i due significati di obbligo e dono: il punto d’incontro tra i due concetti è costituito, a mio parere, dal significato etimologico di obbligo che è quello di ‘nodo, legame’.  In effetti il dono, il cui etimo però rimanda al sign. di ‘dare, donare’, crea (o meglio presuppone) tra la persona che lo fa e quella che lo riceve uno stretto rapporto, per cui chi lo riceve si sente obbligato a contraccambiarlo alla prima occasione.  Ma anche la persona che dona, generalmente lo fa perché  è  essa stessa già legata all’altra da un sentimento di amicizia e di affetto.  Il concetto di “dono”, allora, può configurarsi anche come  pegno di una comunanza di intenti, di amicizia, di amore.  Questo ragionamento si consolida ancora di più se si analizza il verbo lat. mun-ire il cui significato fondamentale è quello di ‘fortificare’ e il cui etimo ci riconduce a lat. moen-ia ‘mura’.   Ora, secondo quanto abbiamo detto circa il concetto di “muro” (il quale è un insieme di pietre ) nell’articolo Il termine armento[]  del mio blog, dobbiamo dedurre che dietro questo nome moenia,  giustamente considerato dai linguisti una sorta di variante di lat. muru(m) ‘muro’,  vi sia nient’altro che l’idea di ‘gruppo, unione, legame’ come volevasi dimostrare!  Allora sì che il lat. com-mun-e(m) ‘comune’ può liberarsi della un po’ fastidiosa e artificiosa spiegazione ‘che esegue il suo dovere, incarico (munus) insieme con altri (cum)’ e trovare invece riposo in quella molto più naturale di ‘che è insieme, legato, in armonia con gli altri’.  Anche il citato agg. mune(m) all’inizio doveva significare, allora, ‘che è solidale con gli altri, che vive un rapporto di comunanza, d’amicizia, di favori’ (come fa intravedere il suo significato di ‘riconoscente, grato’) piuttosto che significare ‘che compie il proprio dovere’ per influsso del termine munus ‘dovere’[2].  Il Comune è insomma etimologicamente solo una semplice ‘comunità’, un insieme di cittadini che convivono in modo armonico, o almeno cercano di farlo. Il legame del cittadino con la cerchia dei parenti ed amici può colorirsi, in condizioni normali,  di scambi festevoli, compiacenti e gratificanti.  Il legame con la comunità tutta tende a tingersi di grigio anonimato regolato dalle leggi, in genere fonte di doveri, di restrizioni e di obblighi. 

   La radice è ben presente nell’area germanica, come nel ted. ge-mein ‘comune, ordinario, volgare’, ted. Ge-meinde ‘Comune, collettività’, ingl. mean  ‘medio, intermedio, umile, vile, basso’ che ha quasi interamente volto in negativo il valore iniziale di ‘comune, ordinario’. Ancora una volta debbo constatare che le mie etimologie portano direttamente a quello che i nomi significano già di per sè, e di conseguenza si potrebbe ricavarne il principio che l’etimologia è già scritta nel significato fondamentale che la parola ha, e si potrebbe con molta sicurezza desumerla da esso, senza troppi sforzi.  Mi dispiace dirlo, ma la linguistica tradizionale, più che sbrogliare le difficoltà, finisce coll’aumentarle o crearle. 

    La radice mun-, col valore che ora conosciamo, ricompare, appena diversa, nel lat. mon-ile ‘monile, collana’ che, secondo i più, deriverebbe da una parola per ‘nuca’.  La nuca attinge al concetto di “sporgenza, monte”, ma come intendere allora una collana o un braccialetto? come ‘qualcosa che sporge’? No!!!  Solitamente questi ornamenti erano e sono composti di un certo numero di elementi che formano una serie, un insieme, un gruppo, come le perle di una collana o gli anelli di una catena.  Da questo concetto si può di certo sviluppare anche quello di “massa, monte”, il quale però può anche risultare da radice un poco o molto diversa.   Sta di fatto, tuttavia, che molte sono le corrispondenze nelle varie lingue tra questa radice e i termini per ‘collana, bracciale, catena’: In greco si ha mánn-os, mán-os, mónn-os ‘collana, collare’; nel dial. comasco men vale ‘collare del cane’; in a. a. ted. compare man-ili, menni, in got. mani, a. slavo man-isto, mon-isto, tutti col sign. di ‘catena, monile, ornamento del collo’; in spagn. e port. si ha man-illa ‘manetta’. Quest’ultimo significato ci fa capire che l’it. man-etta non è così chiamata dalla mano intorno a cui si applica, ma sempre dall’idea di “insieme, legame”, rappresentata qui dagli anelli della catena che lega i polsi o da un unico serrame per i due polsi fornito da qualsiasi altro dispositivo.  Si può allora concludere che anche il lat. man-u(m) ‘mano’ deve sfruttare questo concetto: in effetti la mano non è un gruppo di dita?  Il nome latino indicava anche una schiera di uomini o soldati, come il mani-pul-u(m) ‘manipolo (di soldati), mannello’.  Dalle nostre parti il covone è chiamato appunto mano-ppjë, ma la spiegazione che se ne dà (quantità di steli di grano contenuta in una mano) non è molto precisa: il manoppjë è formato da molti mannelli, quindi il sign. primario è solo quello di ‘insieme di steli’ indipendentemente dalla loro quantità.

     Le curiosità non finiscono qui.  Mi viene in mente l’asserzione di A. Einstein che una teoria è tanto più valida quanto più numerose sono le cose che collega.  Infatti questa radice si ritrova in ingl. mane ‘criniera’ per il fatto che una criniera non è altro che un insieme di peli, capelli.  L’aggett. ingl. man-y < man-ig ‘molti’ fa parte del gruppo, come la parola it. man-ica nel senso dispregiat. di ‘banda, accolita’ o ‘grande quantità’.  E, dinanzi all’espressione essere largo di manica (o essere di manica larga),  non rimarrei a guardare incerto il termine manica ma andrei dritto al fr. manch-on ‘manicotto, reticella (per lampade a gas), anello o cilindro di metallo’ e interpreterei la frase come un essere largo di maglia, allo stesso modo di una rete a maglie larghe che lascia passare quasi tutto.

     Sulla radice muni- di muni-cip-iu(m) quello che abbiamo osservato può bastare, anche se si potrebbero fare altri collegamenti.  Ora dobbiamo concentrarci sulla seconda componente –cip- che, per la norma della ripetizione tautologica, non può a mio parere essere intesa come forma del verbo cap-ere ‘prendere’ come abbiamo già detto, ma deve ripetere lo stesso significato di ‘insieme, gruppo’ della prima componente.  Può sembrare strano che l’aiuto possa arrivarci dal termine lat. cep-a(m) ‘cipolla’  ma se solo riflettiamo sul fatto che altro termine per indicare un genere di cipolla era il lat. union-em ‘tipo di cipolla’, parola che significava anche ‘il numero uno, l’unità, l’unione’ e con cui si confronta il fr. oignon ‘cipolla’ e l’ingl. onion ‘cipolla’.  Perché mai un nome del genere per indicare una cipolla? e il suo combaciare con in concetto di “unione” come si spiega? si tratta forse di una banale coincidenza? Niente affatto, perché ogni tipo di cip-olla è composta da un insieme di strati, tuniche o squame e pertanto rientra perfettamente  nel concetto di “gruppo, agglomerato, ecc.”, tanto è vero che nel dialetto napoletano la voce ceppa, che a mio avviso non è altro che il lat. cep-a(m), significa proprio ‘insieme di frutti o foglie nello stesso ramoscello, ciocca, gruppo’.  Ma le controprove non finiscono qui.  Nel dialetto di Trasacco-Aq la voce cipolla[3] significa anche ‘zuffa, rissa, ressa’ riconducendoci così all’idea di ‘mischia’ che è solo un intrico di persone che si scontrano in modo violento o meno. E’ palese il rapporto con la struttura della cipolla fatta di serrati strati sovrapposti[4].  Un altro significato, a Trasacco e altrove, di cipolla è ‘crocchia di capelli riuniti e intrecciati sulla nuca da parte della donna’ in cui è ancora più palese il riferimento all’idea fondamentale di “insieme, intreccio, ecc.”. Un altro signif. di cip-olla, a Trasacco e altrove, è ‘inciampo’ di cui avremo modo di parlare dopo.

    Interessante, inoltre, è la voce meridionale chippu[5] ‘omento, rete che avvolge il fegato’ la quale rientra, quindi, di diritto nel concetto di “intreccio” ma potrebbe anche sfruttare il concetto di “membrana, avvolgimento” collegato al precedente.  A volte ha il significato di ‘grasso, pinguedine’ che credo possa derivare dal significato di ‘mucchio, massa, ecc.’ ugualmente connesso all’idea base del termine.  Il greco epí-plo-on ‘rete che avvolge l’intestino’, a cui la voce viene riportata, può interessare, semmai, il secondo elem. del lat. mani-pul-u(m) ‘manipolo, mannello’ più sopra incontrato.  Molto chiarificatrici del significato profondo di questa radice sono le diffuse voci dialettali abruzzesi come l’avezzanese ‘n-cip ‘aggrovigliare, avvolgere in matassa’ col sostantivo ‘n-cìpë ‘groviglio, inciampo, nodo scorsoio’ con cui si spiega anche il sign. di ‘inciampo’ sopra incontrato per il trasaccano cëp-olla.  Voci che si ripresentano ancora nell’uso ancestrale, diffuso in passato nel meridione ma anche in zone del settentrione d’Italia, di chiedere la mano di una ragazza depositando un ceppo dinanzi alla sua casa.  Se la mattina la madre, dopo aver aperto la porta, lo tirava dentro significava che il partito era accettato e che la ragazza si considerava ‘n-cipp-ata, ac-cipp-ata, o anche ac-copp-ata come ho letto in un sito internet. La famiglia del resto doveva già conoscere in qualche modo l’identità del pretendente.  Come è comprensibile esistevano varianti di questo uso ma quello che ora a noi interessa è il significato che qui assume questa radice cip-, cop-.  In base ai significati che la radice presenta nei casi precedenti non può che dedursi altro che essa designava il  nodo o vincolo del fidanzamento con cui la ragazza veniva promessa al giovane che in quel modo ne aveva chiesto la mano.  Questo mio convincimento è ribadito anche dalle voci di origine laziale in-ghippo ‘imbroglio’, con pronuncia rimasta gutturale, e dallo stesso it. in-cepp-are che viene però riportato all’it. ceppi ‘arnesi di legno con cui si bloccavano i piedi dei prigionieri’.  Ma anche qui si è vittima di un fraintendimento, giacchè il lat. cippu(m) ‘ceppo’ si è solo casualmente appropriato di un significato di una radice abbondantemente in circolazione, come abbiamo visto, col significato di ‘legame, catena, ecc.’.  Siccome questa radice circola soprattutto nei dialetti, il primo piano nell’italiano è stato occupato irrimediabilmente dal ceppo (tronco d’albero).  Anche l'ingl. hip 'anca', a. a. ted. huf 'anca' con gr. kyb-os 'cavità iliaca,vertebra, cubo' rientrano di diritto in questa radice per via dei loro significati principali di 'articolazione, connessione' come il gr. kyb-it-on 'cubito, gomito' e il lat. cub-it-u(m) 'cubito, gomito'.

    Quanto alla variante cop- bisogna riflettere sull’it. coppia dal lat. cop-ula(m) ‘legame, catena’ che non è composto dal lat. cum ‘con’ + lat. ap-ere ‘attaccare, legare’ (come si favoleggia) ma piuttosto richiama l’it. coppa, insaccato composto da varie parti della testa del maiale, carne, cartilagini e grasso. La radice è presente ancora nel lat. copi-a(m) ‘abbondanza, gran quantità, truppe’.  Nello stesso it. copia, che indica un duplicato o qualcosa molto somigliante ad un’altra, bisogna vedere in trasparenza proprio il concetto un po’ complesso di “(elemento di) una serie (di simili o uguali)”, concetto che ci tornerà utile a capire l’unità. Lo stesso comportamento scorgiamo, ad esempio, nel lat. sim-il-e(m) ‘simile, uguale’ che deriva dalla radice sim- che indica l’ unità, il numero uno, radice presente nell’ingl. same ‘stesso (di altri simili)’, nel gr. háma (< *sam-) ‘insieme, in comune’, gr. hom-ós ‘identico, simile’, gr. hóm-ad-os ‘moltitudine tumultuante, gran quantità’, gr. hóm-ēr-os[6] ‘unito, marito, moglie, pegno, ostaggio’, accadico samáhu ‘congiungere, unire’[7], ecc.  Anche l’ingl. cob ‘mattone di argilla e paglia’ credo sia della stessa serie, perché contiene l’idea di “impasto”; l’it. cov-one è un insieme di steli di grano; l’ingl. cope ‘tener testa a, competere’ presuppone il rapporto con partner con cui misurarsi: difatti in antico significava anche ‘incontrarsi, scontrarsi’.  Non bisogna dimenticare nemmeno l’ingl. heap (a. ingl. hepe) ‘mucchio’, proveniente da una forma indoeuropea *kepe con varianti.   Riconferma il significato di fondo di insieme la serie composta da abr. coppë ‘rotolo di monete’[8], spagn. cop-a ’chioma (di alberi)’, spagn. cop-ete ‘ciuffo’, spagn. cop-o ’batuffolo, fiocco’, ingl. cop ’mucchio, pila, bobina’.  Meraviglioso mi sembra poi l’ingl. cup-board ‘credenza, armadio’, che in superficie ha l’aria del ‘mobile (board) che conserva le tazze (cup)’ ma che in realtà, come ora ben sappiamo, indica tautologicamente  una struttura composta da diversi membri (cup=cop). La radice si ripresenta, ad esempio, nello stesso lat. oc-cup-are che inizialmente doveva significare proprio ‘impegnare, legare’ come nell’espressione pecuniam oc-cup-are ‘impegnare il denaro (imprestandolo a qualcuno)’.   E un posto occupato non è forse un posto impegnato, come impegnata era la figliola ‘n-cipp-ata di cui sopra? Persino la dialettale cëpolla ‘inciampo, intralcio’ trova il suo quasi sosia nell’ingl. hobb-le ‘zoppicamento’ nonché ‘pastoia’ con l’accento germanico iniziale.  In fondo questa idea di impegnare va a coincidere con quella di prendere, afferrare di lat. cap-ere e dei suoi composti come in-cip-ere ‘iniziare, intraprendere’, dato che anche queste azioni stabiliscono un contatto e una presa diretta tra chi afferra e la cosa afferrata. Anche il verbo impers. ingl. be-hove (amer. be-hoove) ‘essere doveroso, necessario, adatto; essere interesse di’ appartiene a questa serie come mostra chiaramente il suo significato di ‘essere obbligato’ in Scozia.  Dimenticavo il verbo aiellese ‘ncuppà ‘incollare una busta, mettere una fetta di pane su un’altra con in mezzo del companatico’ , Ad Avezzano il termine è ncoppà[9].  Mi pare incontrovertibile il legame tra questa radice e quella di it. copia. Tout se tient!

    Per quanto riguarda l’etimo di lat. civ-e(m) ‘cittadino’ e osco-umbro ceu-s ‘cittadino’ bisogna pensare che alla base non vi sia la radice *kei- col significato di ‘giacere, insediarsi’, come in genere si crede, ma semplicemente che il termine sia una variante della radice cip- ‘gruppo, comunità’ sopra analizzata. Nell’a. fr. cive significava ‘cipolla’, in a.ingl. chive  indicava la ‘cipolletta’ ma anche lo ‘spicchio d’aglio’, cioè un singolo elemento tra tutti i componenti del bulbo intero.  E’ facile comprendere che un singolo cittadino sta all’insieme della comunità come un singolo spicchio sta all’insieme di essi.  Non si possono, poi, riportare, come si fa, alla precedente radice *kei-  le parole dell’a.a.ted. hiwo ’coniuge’ e hiwa ‘moglie’ che invece indicano chiaramente il legame che accomuna i due coniugi sia dal punto di vista legale che sentimentale, considerato anche che in a. ind. çeva-h significa ‘amico’, e çiva-h significa ‘familiare’.

   Le ultime conclusive osservazioni le dedico ai concetti di unità e molteplicità di cui abbiamo parlato, apparentemente contrastanti, antitetici.  Ma in concreto si constata che tra i due concetti esiste un rapporto un po’ ambiguo, di cui stentiamo a renderci conto, proprio perché nella vita di tutti i giorni, invece, essi ci sembrano entità nettamente contrapposte.  Ma basta riflettere, come abbiamo già fatto, sul lat. uni-one(m) che vale sia ‘unità, numero uno’, sia ‘unione, insieme di parti’, sia ‘cipolla (intesa come agglomerato di squame)’ per dover desumere che dentro il termine si trovano inclusi i concetti antitetici di unità e molteplicità, ma come se  l’unità fosse stata estratta dalla molteplicità e ne mantenesse indelebilmente per questo il ricordo, e di converso come se la molteplicità  o anche la massa, guardandosi al suo interno, non scorgesse altro che singole unità, pur potendone riformare una sola (di tutte le singole unità) semplicemente vedendole l’una in rapporto con l’altra e considerandole come un insieme, che è una unità diversa da quelle costituite dalle singole parti.  La nostra mente che oggi viene studiata sempre più con lo stesso metodo con cui si studiano le particelle subatomiche, pare effettivamente comportarsi, nell’elaborazione dei concetti e delle parole, come queste particelle che mantengono sempre un rapporto di stretta interdipendenza, anche quando sono separate e lontanissime tra loro, come se continuasse a sussistere (inspiegabilmente secondo le categorie con cui siamo abituati a vedere il mondo) un legame inscindibile.  In effetti si può dire che il problema fondamentale con cui la filosofia, sin dai suoi primordi, ha dovuto fare i conti, risolvendolo in un modo o in un altro, è stato quello dell’Uno (Dio o chi per Lui) origine di tutte le cose che però sono disperse, divise e contrastanti non solo tra di loro ma anche rispetto all’Unità d’origine.  In questa nuova concezione della mente «può dunque essere ormai prossimo —scrive Piergiorgio Odifreddi— il superamento dell’attuale situazione paradossale: che possediamo precise teorie scientifiche dei fenomeni materiali che conosciamo indirettamente, mediante i sensi, ma solo vaghe teorie filosofiche dei fenomeni mentali che conosciamo invece direttamente, per introspezione»[10].  Uno di questi fenomeni, se non il più importante, è certamente la Lingua che oltretutto produce qualcosa di concreto come le parole.  Le quali, con la loro varietà innumerevole nel complesso di tutte le lingue del mondo, ruotano comunque intorno ad un unico significato originario, a mio parere, quello di ‘essere, vita, spinta, forza’ (come più volte ho ricordato nei miei articoli)  che le riunifica in un nodo comune.  La danza della varietà sempre nuova non è però mai così sregolata e indisciplinata da proiettare ciascuna parola verso solitudini insondabili.  L’unico e comune significato di fondo le costringe a ruotare intorno ad un perno, pur mentre disegnano sempre nuovi intrecci e compongono nuovi sciami insieme alle altre. 

   Ritornando all’ambiguità dell’uno e del molteplice si può notare ancora, ad esempio, che la parola it. coppia, la quale oggi ci dà l’idea di un insieme di due cose, due animali o due uomini che agiscono in sintonia, all’inizio aveva solo il significato di lat. cop-ula(m) ‘legame’ e niente più. Solo strada facendo quel legame si è prestato ad indicare due unità interconnesse (coppia), ma poteva anche finire con indicarne tre, quattro o molte di quelle unità, come penso sia successo al lat. cop-ia(m) ‘gran numero, truppe’ che presenta a mio avviso la stessa radice.  E così poteva anche succedere che venisse indicata una sola unità legata ad un’altra (non due contemporaneamente), come è avvenuto per l’it. cop-ia ‘duplicato’ e per la variante civ-e(m) ‘cittadino’, un membro di una comunità legato a tanti altri membri che poi finisce col vivere di vita autonoma e singola. Ma l’impronta comune originaria continua a persistere sulla sua pelle.  Il lat. omn-e(m) vale ‘tutto’ ma anche ‘ogni, ognuno, ciascuno’: il significato oscilla sempre tra i due poli ambigui, antitetici eppure interrelati dell’unità, singolarità da una parte e della molteplicità o totalità dall’altra (cfr. il Principio di complementarità di Niels Bohr nella fisica quantistica, in cui due caratteristiche di una stessa particella, quella corpuscolare e quella ondulatoria, si completano escludendosi a vicenda).  Lo stesso filo logico mi pare collegare il gr. hól-os ‘intero’ e il lat. sol-u(m) ‘solo’ , il lat. sol(l)-u(m) ‘intero’ o anche il gr. sól-os ‘massa compatta’[11].  Il gr. món-os ‘solo’ richiama, sub specie multitudinis,  i molti sosia del primo membro di muni-cipiu(m) ‘municipio’ più sopra incontrati.  E’ straordinario: le parole, che appaiono come semplici etichette appiccicate alle cose che nominiamo, sono in realtà uno strumento conoscitivo che penetra nel profondo di esse, cogliendone chiaramente il cangiante colore olistico che le contraddistingue, anche se noi, risucchiati e storditi dal gorgo di utilitaristici rapporti e ormai lontanissimi dalla fase aurorale del Linguaggio, non possiamo accorgercene se non meditandovi bene sopra, appunto. La Lingua ci dà, sia pure attraverso un processo del tutto naturale e inconsapevole, una lezione stupenda  sulla meccanica quantistica delle particelle elementari[12].  Chi se lo sarebbe mai aspettato, soprattutto quando si proviene da una cultura imbevuta di religione che ci spinge a guardare verso i cieli numinosi della metafisica piuttosto che verso il basso della materia profana! Ma questa ha almeno un grande vantaggio sull’altra: è incontrovertibile che essa esiste veramente dinanzi ai nostri occhi, intorno a noi e in noi, è alla nostra portata, la si tocca, la si vede, la si studia con profitto fino a farci scoprire segreti inimmaginabili, paradossali, che si scontrano con il senso comune. A tal punto da farci cambiare radicalmente, stupiti e sbigottiti insieme, l’idea stessa che ne abbiamo avuto fin qui, acquisita attraverso gli strumenti macroscopici fornitici dall’Evoluzione,  e ad aprirci forse la vera strada verso la comprensione non dico di tutto il Mistero che ci circonda e di cui siamo fatti, ma almeno di briciole concrete di esso.

Il nostro cervello in verità opera riproducendo lo stesso comportamento delle particelle fisiche di cui è composto.  E’ vano, a mio parere, cercarvi finanche l’ombra di quella che pomposamente e cristianamente chiamiamo anima, ritenendola di diretta derivazione divina e completamente diversa dalla materia!  L’epoca delle favole, su questo argomento, dovrebbe essere giunta definitivamente al capolinea, con tutto il rispetto per chi sinceramente vi crede.  Una netta dicotomia tra spirito e materia credo non abbia più senso. Nonostante ciò non posso dichiararmi scientificamente ateo, perché il concetto di Dio solitamente rimanda ad una realtà metafisica completamente al di fuori della portata della nostra mente fisica, la quale è pertanto impotente a dimostrarne sia la presenza  che l’assenza.  Detto altrimenti: l’oggetto Dio per definizione non può cadere minimamente sotto i nostri sensi, sia materiali che intellettuali (Kant ce l’aveva già insegnato!). E’ per questo che non possiamo riservarGli, onestamente e consapevolmente, che il nostro silenzio (se non vogliamo parlarne a vanvera), sia nell’eventualità che esista come in quella che non esista, a meno che Egli non coincida, magari, con la Natura, come voleva, ad esempio, il filosofo olandese Baruch Spinoza (1632-1677).  Allora un qualche contatto con la Sostanza Unica originaria, che per l’universo si quaderna in una molteplicità di cose le quali però sono come inscritte in essa, dovrebbe esserci assicurato, dato che noi, come ogni altra entità mondana, ne saremmo di conseguenza parte. 

   A scanso di equivoci, siccome il precedente ragionamento sembra portare al supino adeguamento dell’anima alla materia, è bene sottolineare che in questa visione olistica non si può più parlare di spirito e di materia nel senso tradizionale, ma piuttosto di una nuova e unica realtà in cui non ha luogo alcuna reale separarazione tra le parti e che, nel contempo, sembra avere più le caratteristiche dello spirito così come inteso tradizionalmente, incorporeo, inseparabile, indefinibile, che della materia, massiccia, separabile e misurabile[13].  E’ per questo che alcuni scienziati affermano che non c’è in verità nulla da capire nella fisica delle particelle, perché tutto il nostro apparato conoscitivo, formatosi a contatto col mondo macroscopico, si rivela tragicamente disarmato e impotente a penetrare questa nuova realtà di natura probabilistica. Sappiamo, infatti, che lo stesso A. Einstein, che pure aveva dato un tremendo scossone alla fisica tradizionale, morì senza aver potuto mai digerire le sconvolgenti novità che proponeva la Scuola di Copenaghen guidata da N. Bohr.  Famosa è la sua affermazione: Dio non gioca a dadi con l’Universo.
   
  
  
  


[1]  Cfr. C. Letta-S. D’Amato,  Epigrafia della regione dei Marsi,  Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, 
p.95.

[2]  Credo che più di ogni spiegazione possa  servire, per  capire il mio ragionamento, la differenza  tra i due termini corradicali franc. obligation  ‘obbligazione, obbligo’  e  obligeance ‘cortesia, gentilezza’.  

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003 s.v. cipolla.

[4]  Riflettendo sul concetto di “zuffa” è straordinario notare come esso spieghi anche le evidentemente  interconnesse parole italiane di origine germanica come zuffa ‘polenta’ (un miscuglio), zuffa ’ciuffo’ (un insieme di capelli), zuppa (una minestra oppure pane inzuppato nel  latte).  Ciò dovrebbe significare che il mio metodo funziona bene.

[5] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998, s.v. chippu.

[6]  Il termine è composto da due radici tautologiche col sign. base di ‘unione’. Esse sono hóm-  e  ar- . Per quest’ultima cfr. l’articolo Il termine “armento”[] del mio blog (marzo 2014).  Ho l’impressione  che in tutta la cosiddetta questione omerica, a cui han messo mano  molti studiosi a partire dall’antichità greca fino ad arrivare ai giorni nostri,  giochi un ruolo molto importante poter definire se HomērosOmero’ sia l’autore di uno, di ambedue i poemi epici dell’Iliade e dell’Odissea o di nessuno di essi come taluni hanno sostenuto, tra i quali il grande Giambattista Vico . Ora, se si riflette sul fatto che nell’antichità ad Omero venivano attribuite anche altre opere che costituiscono un corpus di inni, epigrammi e poemetti, oltre a tutti i poemi del Ciclo epico, non è affatto peregrino supporre che il termine hómeros potesse indicare, secondo il suo etimo, una semplice raccolta di componimenti di vari poeti i cui nomi erano già andati perduti, in un’epoca in cui la scrittura, anche se già esistente, non era certamente un solido e diffuso strumento comune.  Quel termine finì, quando scomparve il suo significato esplicito di ‘raccolta’, col confondersi con quello dell’autore delle varie raccolte a lui attribuite.

[7] Cfr. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, Paravia Ediz. Bruno Mondadori Editori, Milano, p. 190, n. 181.

[8]  Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Edit., Cerchio-Aq  2004.

[9] Cfr. Buzzelli- Pitoni,  Vocabolario del dialetto avezzanese, Avezzano-Aq 2002.

[10] Cfr. P. Odifreddi, Il Vangelo secondo la scienza, Ediz. Mondolibri S.p.A., Milano 2008, p. 99.

[11]  Cfr. G. Semerano, cit., p. 198, n.210. 

[12]  Nell’articolo Principi di gnoseologia [] del mio blog (agosto 2013) avevo insistito un po’ troppo sulla funzione etichettatrice delle parole: non avevo riflettutto sul fatto che il gioco tra il loro significato unico di fondo e i mobilissimi significati di superficie fotografa la natura quantistica della realtà.  

[13]  Tra i filosofi dell’antichità mi pare che specialmente Plotino (III sec. d. C.), che comunque si rifà a Platone,  si avvicini alla concezione della materia elaborata dalla fisica moderna. Per lui la materia è infatti senza dimensioni e assolutamente indeterminata, dunque incorporea.