venerdì 22 novembre 2013

"Povero in canna", espressione idiomatica che dà filo da torcere ai linguisti



           

    Dando una veloce scorsa alle proposte di interpretazione[1]  della nota espressione italiana si ha l’impressione  che, nonostante la preparazione degli studiosi che se ne sono occupati,  non si faccia altro che ciurlare nel manico  arrancando alla ricerca di una più o meno passabile soluzione del problema, quando non si incappa in vere e proprie amenità come quella di chi propone un riferimento alla famosa battaglia di Canne (216 a. C.).

Io sono convinto che, finchè si resterà sul piano sincronico su cui è adagiata l’espressione che sembra provenire al massimo dallo strato linguistico del latino, non si caverà un ragno dal buco, perché ben sovente le parole affondano le radici in strati remoti e remotissimi ben anteriori a quelli storicamente noti, per i quali naturalmente non esiste una documentazione  se non quella che possiamo ricavare dalle voci stesse che con la loro testa svettano nelle varie lingue e dialetti della superficie e con le loro radici, appunto, possono raggiungere strati linguistici lontanissimi da noi.   Se ci si ferma al concetto di “povero” e a quello di “canna” è vano, a mio parere, tentare una soluzione che sia molto diversa da quelle finora proposte.  Di esse la più razionalmente sostenibile mi sembra quella che fa riferimento ad un brano del Vangelo di Matteo (XXVII, 28-30) in cui, parlandosi di Gesù deriso nel pretorio dai soldati del governatore Pilato, si precisa: «Lo spogliarono e gli misero addosso un manto scarlatto; poi, intrecciata una corona di spine, gliela misero in capo, gli misero una canna nella destra e, piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano… gli toglievano la canna e gliela battevano sulla testa».  Ora, il fatto che questi soldati romani, tra i quali molti dovevano essere di origine italica[2], mettessero una canna nella mano del povero Cristo ridotto ad un corpo sanguinante può anche aver generato, come pensano alcuni, nella mente delle folle rievocanti la Passione di Cristo nel medioevo, l’immagine comune del povero in canna come simbolo di estrema  disgrazia e povertà.  Ma, secondo me, è più accettabile e verosimile la considerazione che quei soldati munirono Gesù di una canna perché forse nei dialetti italici che essi usavano era già nota quella espressione evocante estrema sventura e abiezione.  Epperò queste considerazioni lasciano sempre un residuo di perplessità, dato che se ne possono fare altre ugualmente accettabili, come quella, ad esempio, secondo cui la canna, in quanto simbolicamente simile ad uno scettro di comando, sarebbe il completamento, insieme alla corona di spine, della volontà sarcastica dei soldati di trasformare Gesù di Nazaret, autoproclamatosi re dei Giudei, in una caricatura risibile e spregevole della figura regale.

Ora, nel dialetto di Manfredonia-Fg , ma anche in diverse altre località della Puglia, si incontra l’espressione nganna mérë ‘in riva al mare, sulla battigia’[3].  La locuzione prepositiva nganna < *in  canna , a volte raddoppiata, significa anche ‘al limite, all’ultimo istante’  oltre che, come abbiamo visto, ‘vicino, presso, a ridosso, al bordo, vicinissimo’ con applicazione sia al tempo che allo spazio, come avviene normalmente in molte lingue per i complementi di tempo assimilati a quelli di spazio.  Di conseguenza, proprio il concetto di “limite, punto estremo, orlo, termine, bordo” si colloca alla perfezione accanto alla parola povero  dell’espressione idiomatica in questione, significando questa esattamente ‘poverissimo’ e cioè ‘povero al massimo grado’ o  ‘povero al limite estremo’.    Così quello che sembrava un mistero impenetrabile, tanto che ha spinto gli esegeti a formulare le ipotesi più varie scomodando battaglie e fatti storici importanti,  finisce col rivelare alla fine la sua banale normalità.  In questi casi spessissimo la soluzione si trova, infatti, non allontanadosi dalla espressione nella sua nudità e concretezza, ma scavando sotto la superficie delle sue parole e cercando di raggiungerne lo strato più profondo.  E’ quindi solo questione di metodo se io, innamorato delle parole (benchè nella vita ne sia piuttosto parco), ho trovato quella che a me pare la verità mentre i linguisti che spesso hanno anche una cultura e preparazione teorica superiore alla mia (lo dico senza piaggeria e senza nessuna intenzione denigratoria) arrancano con difficoltà alla sua ricerca.  Le parole sottotraccia, come le ho chiamate in altro articolo[4], sono quelle che ingannano di più gli studiosi, perché esse se ne stanno ben nascoste dietro la sfavillante livrea che sfoggiano in superficie, il cui stemma rimanda però a tutt’altra famiglia rispetto a quella cui esse in realtà appartengono.  Gli incroci di termini, poi, sono sempre lì pronti ad agitare e confondere le acque, e, se non si è forniti di questi semplici strumenti chiarificatori, si rischia di annegare senza speranza di salvarsi.  

Ora, diradatasi la fitta nebbia che avvolgeva il significato di ngànna ‘assai, molto’ oppure ‘presso, vicino, al bordo’ possiamo cercare di darne un etimo acconcio.  Ci può guidare ancora il concetto di “limite, orlo, bordo” in questa operazione che, a mio avviso, ci porta dritti dritti verso l’avverbio e preposizione it. accanto < a canto che significa proprio ‘a fianco, a lato’ e che evoca quindi l’idea di “margine, bordo, vicinanza”.   Solo che in questo caso l’avverbio ha il prefisso in  al posto di a < ad, prefisso che avrà prodotto prima una forma dialettale *ngàndë ‘accanto’ che poi sarà stata attratta, per analogia o etimologia popolare, dall’espressione più nota e molto più diffusa in Italia, più chiara al parlante anche nell’etimo, ngànna ‘in canna’ cioè ‘in gola’ che può significare, più genericamente, anche ‘nel (sul) collo’ nel senso, quindi, di ‘addosso, presso, vicino’.  L’it. canto ‘lato, fianco’  richiama il lat. canth-u(m) ‘cerchione di ruota’ dal gr. kanth-ós ‘cerchione di ruota, angolo dell’occhio’ ed ha molti riscontri nelle lingue celto-germaniche.  

Come ultima realistica ipotesi penserei che in canna potrebbe essere un latino volgare *in cannam e significare semplicemente ‘fino al collo’, variante di usque in cannam ‘fino al collo’.  Si pensi all’espressione italiana essere nei guai fino al collo.  L’espressione povero fino al collo, sebbene oggi non usata, ha tutti i crismi per esserlo stata in un remoto passato.


«…Or puoi, figliol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa;
            ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una».
            «Maestro mio», diss’io, «or mi di’ anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
            E quelli a me:«Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche… »
(Dante, Inf. VII, 61-72)
           



[1] Cfr. C. Lapucci, Modi di dire della lingua italiana, Edizione CDE spa, Milano 1986.

[2]  Secondo la tradizione popolare i soldati che inchiodarono Cristo alla croce provenivano dall’odierno paese di Collarmele nella Marsica (anticamente Cerfennia)  chiamati spregevolmente nchiova-Cristë, cioè ‘inchioda-Cristo’.

[4] Cfr.  l’articolo del luglio 2013 del mio blog: Incredibile ma vero: nelle lingue le parole sottotraccia non sono una rarità!

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