Dando una veloce
scorsa alle proposte di interpretazione[1] della nota espressione italiana si ha
l’impressione che, nonostante la
preparazione degli studiosi che se ne sono occupati, non si faccia altro che ciurlare nel
manico arrancando alla ricerca di una
più o meno passabile soluzione del problema, quando non si incappa in vere e proprie
amenità come quella di chi propone un riferimento alla famosa battaglia di
Canne (216 a. C.).
Io sono convinto che, finchè si
resterà sul piano sincronico su cui è adagiata l’espressione che sembra
provenire al massimo dallo strato linguistico del latino, non si caverà un
ragno dal buco, perché ben sovente le parole affondano le radici in strati
remoti e remotissimi ben anteriori a quelli storicamente noti, per i quali
naturalmente non esiste una documentazione
se non quella che possiamo ricavare dalle voci stesse che con la loro
testa svettano nelle varie lingue e dialetti della superficie e con le loro
radici, appunto, possono raggiungere strati linguistici lontanissimi da
noi. Se ci si ferma al concetto di
“povero” e a quello di “canna” è vano, a mio parere, tentare una soluzione che
sia molto diversa da quelle finora proposte.
Di esse la più razionalmente sostenibile mi sembra quella che fa
riferimento ad un brano del Vangelo di Matteo (XXVII, 28-30) in cui, parlandosi
di Gesù deriso nel pretorio dai soldati del governatore Pilato, si precisa: «Lo spogliarono e gli misero addosso un manto scarlatto; poi,
intrecciata una corona di spine, gliela misero in capo, gli misero una canna
nella destra e, piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano… gli
toglievano la canna e gliela battevano sulla testa». Ora, il fatto che
questi soldati romani, tra i quali molti dovevano essere di origine italica[2],
mettessero una canna nella mano del povero Cristo ridotto ad un corpo
sanguinante può anche aver generato, come pensano alcuni, nella mente delle
folle rievocanti la Passione di Cristo nel medioevo, l’immagine comune del povero in canna come simbolo di
estrema disgrazia e povertà. Ma, secondo me, è più accettabile e
verosimile la considerazione che quei soldati munirono Gesù di una canna perché forse nei dialetti italici
che essi usavano era già nota quella espressione evocante estrema sventura e
abiezione. Epperò queste considerazioni
lasciano sempre un residuo di perplessità, dato che se ne possono fare altre
ugualmente accettabili, come quella, ad esempio, secondo cui la canna, in quanto simbolicamente simile
ad uno scettro di comando, sarebbe il
completamento, insieme alla corona di
spine, della volontà sarcastica dei soldati di trasformare Gesù di Nazaret,
autoproclamatosi re dei Giudei, in una caricatura risibile e spregevole della figura
regale.
Ora, nel dialetto di Manfredonia-Fg ,
ma anche in diverse altre località della Puglia, si incontra l’espressione nganna mérë ‘in riva al mare, sulla battigia’[3].
La locuzione prepositiva nganna < *in canna , a volte raddoppiata, significa
anche ‘al limite, all’ultimo istante’
oltre che, come abbiamo visto, ‘vicino, presso, a ridosso, al bordo, vicinissimo’
con applicazione sia al tempo che allo spazio, come avviene normalmente in
molte lingue per i complementi di tempo assimilati a quelli di spazio. Di conseguenza, proprio il concetto di
“limite, punto estremo, orlo, termine, bordo” si colloca alla perfezione
accanto alla parola povero dell’espressione idiomatica in questione,
significando questa esattamente ‘poverissimo’ e cioè ‘povero al massimo grado’ o ‘povero al
limite estremo’. Così quello che sembrava un mistero
impenetrabile, tanto che ha spinto gli esegeti a formulare le ipotesi più varie
scomodando battaglie e fatti storici importanti, finisce col rivelare alla fine la sua banale
normalità. In questi casi spessissimo la
soluzione si trova, infatti, non allontanadosi dalla espressione nella sua
nudità e concretezza, ma scavando sotto la superficie delle sue parole e cercando
di raggiungerne lo strato più profondo.
E’ quindi solo questione di metodo se io, innamorato delle parole
(benchè nella vita ne sia piuttosto parco), ho trovato quella che a me pare la
verità mentre i linguisti che spesso hanno anche una cultura e preparazione teorica
superiore alla mia (lo dico senza piaggeria e senza nessuna intenzione
denigratoria) arrancano con difficoltà alla sua ricerca. Le parole sottotraccia, come le ho chiamate
in altro articolo[4], sono
quelle che ingannano di più gli studiosi, perché esse se ne stanno ben nascoste
dietro la sfavillante livrea che sfoggiano in superficie, il cui stemma rimanda
però a tutt’altra famiglia rispetto a quella cui esse in realtà appartengono. Gli incroci di termini, poi, sono sempre lì
pronti ad agitare e confondere le acque, e, se non si è forniti di questi
semplici strumenti chiarificatori, si rischia di annegare senza speranza di
salvarsi.
Ora, diradatasi la fitta nebbia che
avvolgeva il significato di ngànna
‘assai, molto’ oppure ‘presso, vicino, al bordo’ possiamo cercare di darne un etimo
acconcio. Ci può guidare ancora il
concetto di “limite, orlo, bordo” in questa operazione che, a mio avviso, ci
porta dritti dritti verso l’avverbio e preposizione it. accanto < a canto che
significa proprio ‘a fianco, a lato’ e che evoca quindi l’idea di “margine,
bordo, vicinanza”. Solo che in questo caso l’avverbio ha il
prefisso in al posto di a < ad, prefisso che avrà prodotto prima una forma dialettale *ngàndë
‘accanto’ che poi sarà stata attratta, per analogia o etimologia popolare,
dall’espressione più nota e molto più diffusa in Italia, più chiara al parlante
anche nell’etimo, ngànna ‘in canna’
cioè ‘in gola’ che può significare, più genericamente, anche ‘nel (sul) collo’
nel senso, quindi, di ‘addosso, presso, vicino’. L’it.
canto ‘lato, fianco’ richiama il
lat. canth-u(m) ‘cerchione di ruota’ dal gr. kanth-ós ‘cerchione di ruota, angolo dell’occhio’
ed ha molti riscontri nelle lingue celto-germaniche.
Come ultima realistica ipotesi penserei che in canna potrebbe essere un latino
volgare *in cannam e significare
semplicemente ‘fino al collo’, variante di usque
in cannam ‘fino al collo’. Si pensi
all’espressione italiana essere nei guai
fino al collo. L’espressione povero fino al collo, sebbene oggi non
usata, ha tutti i crismi per esserlo stata in un remoto passato.
«…Or puoi, figliol, veder la corta buffa
d’i ben che
son commessi a la fortuna,
per che
l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già
fu, di quest’anime stanche
non
poterebbe farne posare una».
«Maestro mio», diss’io, «or mi di’ anche:
questa
fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i
ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me:«Oh creature sciocche,
quanta
ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che
tu mia sentenza ne ‘mbocche… »
(Dante, Inf.
VII, 61-72)
[1] Cfr. C.
Lapucci, Modi di dire della lingua
italiana, Edizione CDE spa, Milano 1986.
[2] Secondo la tradizione popolare i soldati che
inchiodarono Cristo alla croce provenivano dall’odierno paese di Collarmele nella
Marsica (anticamente Cerfennia) chiamati spregevolmente nchiova-Cristë, cioè
‘inchioda-Cristo’.
[4]
Cfr. l’articolo del luglio 2013 del mio
blog: Incredibile ma vero: nelle lingue
le parole sottotraccia non sono una rarità!
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