mercoledì 25 settembre 2013

Le suddivisioni della nazione marsa



    A proposito dei nomi con cui venivano designati i diversi popoli della nazione marsa, si continua talora ad includere in essa anche il popolo dei Fucensi (o Fucenti) sulla base dell’elenco dei municipi marsi redatto, nel III libro della sua Naturalis Historia, da Plinio che, come sappiamo, fu presente all’inaugurazione dell’emissario del lago Fucino, fatto costruire, con grande dispendio di energie e danaro, dall’imperatore Claudio (metà del I sec. d. C. circa). L’elenco è il seguente: Marsorum Anxatini A(n)tinates Fucentes Lucenses Marruvini. Da una lettura veloce e disinvolta si ricaverebbero 5 municipi marsi: quello degli Anxatini, degli A(n)tinati, dei Fucenti, dei Lucensi, e quello dei Marruvini, che costituiva il capoluogo ed occupava gran parte dell’area fucense.  Ma il noto archeologo Cesare Letta dell’università di Pisa, ha mostrato, con argomentazioni chiare e stringenti, che l’aggettivo Fucentes, posto subito dopo A(n)tinates, è in realtà una glossa aggiunta dallo stesso Plinio, tesa a chiarire il senso di A(n)tinates da lui erroneamente scritto Atinates, anche perché, come solitamente capita quando si viene a conoscenza, soprattutto per via orale, di nuovi nomi, tendiamo inavvertitamente ad adattarli ai cliché di quelli a noi già noti, e qui deve aver giocato in tal senso l’etnico Atinates della più nota città di Atina dei Volsci, continuata tuttora nella Atina-Fr della Val Comino.[1]  Il municipio degli Antinati (da Antinum) rivive nel paese attuale di Civita D’Antino nella valle Roveto, quello dei Lucensi nel paese di Luco dei Marsi, quello dei Marruvini (da Marruvium) nel paese di San Benedetto dei Marsi.  L’ubicazione del municipio degli Anxatini, che ha dato filo da torcere agli studiosi, pare debba coincidere con quella di Angitia, il più importante centro religioso dei Marsi, non lontano dal paese di Luco. La forma Anxa, nome del centro, sarebbe variante italica di Angitia.

Di Fucensi e Lucensi parla anche l’abate trasaccano Muzio Febonio (1597-1663) nella sua famosa Historia Marsorum che ha visto recentemente una nuova edizione con traduzione in italiano, per la quale si sono mobilitati, nel corso di vari decenni, bei nomi del panorama culturale marsicano, a cominciare da Giulio Butticci, Ugo Maria Palanza, Vittoriano Esposito, Pietro Smarrelli, Angelo Melchiorre[2]. Le numerose epigrafi citate dal Febonio sono state interpretate dall’insigne archeologo Cesare Letta dell’università di Pisa.  E’ veramente una bella opera che riempie di gioia chiunque abbia un minimo di amor di patria e senso dell’antico, e che può essere fruita da un pubblico vasto ora che essa offre un’agevole traduzione in italiano, corredata di abbondanti note. Precedentemente solo gli studiosi potevano accostarsi ad essa, scritta peraltro in un latino poco attraente, piuttosto ostico, spesso tortuoso e talora oscuro, a tal punto che più di uno tra gli studiosi sospetta che debba trattarsi in effetti della minuta stesa dal Febonio e pubblicata, senza essere rivista e con nuove aggiunte, dopo la sua morte.  Al di là dei difetti che un’opera di Storia scritta in pieno Seicento[3], il secolo delle sfarzosità incontrollate e della stucchevole sovrabbondanza di ornato, può esibire, resta comunque il fatto che essa contiene numerose epigrafi ed informazioni di varia natura che possono aiutare a gettare un po’ di luce su un passato che in genere ne è avaro.  

Il breve passo della Historia in cui si accenna alla questione dei Lucensi e Fucensi costituisce proprio l’incipit del cap. IV , libro III. 
Ne do qui una proposta di traduzione che però si discosta di parecchio da quella di Palanza, il quale mi pare abbia inspiegabilmente forzato il testo in alcuni punti, in modo tale che le due versioni, la mia e la sua, si ritrovano a percorrere strade divergenti.

Testo originale tratto dalla Historia Marsorum [4] di Muzio Febonio:

Quos Plinius Fucenses, Lucensesque appellat, hos uno vocabulo Cluverius complectitur, & a Luco oppido denominationem sumpsisse, unumque populum sub utraque appellatione denunciatum fuisse censet.  Quod rerum praesentium status confirmat, quo inspecto Lucenses Fucenses appellamus, cum uterque populus in separata parte regionis insederit, & ut nomine sic incolatu, origineque diversi, sed fatiscente utroque in nuperrimo oppido ad lacus ripam alterius memoria renovatur, cuius sedem circa Angitiam sylvam  fuisse, non dubitatur.                                                           

Mia proposta di traduzione:

Quei popoli che Plinio chiama distintamente Fucensi e Lucensi, il Cluverio li pone sotto un unico nome (Lucensi), che pensa derivi da quello della città di Luco. Secondo lui, in altri termini, un unico popolo avrebbe avuto, nell’antichità, due denominazioni diverse.  Il che viene confermato dall’attuale stato delle cose: noi ora i Fucensi li chiamiamo Lucensi,[5] benchè questi due popoli, a mio avviso, abbiano avuto in antico nomi, sedi ed origini distinte nella regione marsa.  Svanita nel corso dei secoli ogni loro separata presenza, ai nostri giorni solo uno di essi vede perdurare la propria memoria nel nome, appunto, dell’attuale città di Luco, che si trova sulla riva del lago.  E nessuno può mettere in dubbio che la sede di questo popolo fosse situata nelle immediate adiacenze di quella che fu la selva d’Angizia.


Traduzione del brano da parte di Palanza:

Quei popoli che Plinio chiama Fucensi e Lucensi, Cluverio indica con un solo nome, che crede derivato dalla città di Luco;insomma, con un solo nome, crede siano indicati entrambi i popoli. La situazione attuale del resto lo conferma:infatti, riflettendoci su, notiamo che noi chiamiamo Lucensi o Fucensi entrambi i popoli, che,diversi di nome, di regione ed inizialmente insediati in due parti distinte della regione, trovandosi infine a disagio nelle cadenti località accennate, torniamo ad aver memoria dell’uno e dell’altro allorchè si ritrovarono uniti sulla riva del lago, avendo posto la loro residenza intorno alla selva d’Angizia.


Questa esposizione della traduzione del compianto prof. Ugo Maria Palanza, che per qualche anno è stato anche mio preside al liceo classico A.Torlonia, non vuole minimamente essere un tentativo di gettare cattiva luce sul letterato e critico di chiara fama, la cui vasta e pregevole opera non sarà certamente scalfita dalle vagabonde osservazioni di un, diciamo così, intemperante suo discepolo.  Egli sa bene, il discepolo, che tutti possiamo sbagliare per un’infinità di motivi, e che anche la sua proposta di traduzione potrebbe essere messa in dubbio da qualcuno: è quello che del resto egli stesso neppure disdegnerebbe, anche se accusando una punta d’amarezza, di sentirsi eventualmente rinfacciare la sua traduzione da qualche cultore della lingua latina e della storia dei Marsi, il cui parere gli sarà anzi sempre graditissimo, di qualunque tenore esso sia.  Perché il suo indefettibile amore va alla Verità, costi quel che costi.


[1] Cfr. Cesare Letta- Sandro D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, p. 298 e seg.

[2] Precedentemente l’opera del Febonio era stata tradotta e pubblicata  a scadenze diverse, per ciascuno dei tre libri di cui si compone.  Un particolare riconoscimento va anche alla Fondazione Carispaq (Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila) che ha reso possibile la realizzazione dell’opera.

[3] Certamente non possiamo paragonare, sotto il profilo del vigore dell’ingegno e della tempra di storico, l’opera del Febonio a quella più o meno coeva di Paolo Sarpi, intitolata Soria del Concilio di Trento.  

[4] Cfr. Muzio Febonio, Historiae Marsorum libri tres, riproduz. anastatica dell’edizione di Napoli, 1678 (a cura di Walter Capezzali e Pietro Smarrelli), Fondazione Cassa di Risparmio dell’Aquila, L’Aquila 2012.

[5] L’autore vuole forse dire più precisamente che col nome di Lucensi, che è l’unico rimasto, noi oggi in realtà indichiamo quello che fu il popolo dei Fucensi in riva al lago, il cui nome è scomparso.  Perché in verità il Febonio credeva che il bosco d’Angizia corrispondesse a quello che ai suoi tempi era indicato come selva d’Agn-ano, il cui nome richiamava, per una certa assonanza, quello di Angizia, che effettivamente poteva anche essere pronunciato volgarmente e metateticamente *Agn-izia.  Secondo lui questa selva era situata presso Cappelle, a sette miglia da Luco, all’estremità del monte Salviano, e si estendeva per ampio tratto nei piani Palentini, fino a raggiungere probabilmente il paese di Cese.  Quindi gli antichi Lucensi, nell’idea di Febonio, dovevano occuparne il territorio circostante (come del resto afferma nella frase finale di questo brano) che non combaciava però con quello di Luco del suo tempo e di oggi.  Per il nome di Luco, che a mio parere  non aveva a che fare, nelle sue più remote origini, col significato di lat. lucu(m)’bosco sacro’, rimando all’articolo La dea Angizia, il suo bosco sacro e l’inghiottitoio della Petogna presente nel mio blog (novembre 2010).

Nessun commento:

Posta un commento