giovedì 6 giugno 2013

Quanti venit? 'A quanto è messo in vendita?' oppure 'Quanto costa?'

                               

"Quanto viene?" sento spesso le donne dire  ai venditori ambulanti che  mostrano con fare invitante articoli di abbigliamento o altro.  Nessun linguista, che io sappia, si è ancora accorto dell'origine della breve frase, origine che costituirebbe un motivo di stupore anche per le distratte scolaresche di oggi e potrebbe suscitare, chissà!, qualche interesse in più per la lingua latina, povera cenerentola dei nostri convulsivi giorni tecnologici.  Per quanto sia semplicissimo rintracciarne l'ascendenza latina  (perchè falsa è la sua derivazione dal verbo italiano venire, tal quale il latino venire 'venire, andare' che però non ha, in quella lingua, questo significato commerciale), i linguisti non si soffermano a pensarci nemmeno un po'  (in tutt'altre faccende affaccendati!) perchè la loro forma mentis non li fa nemmeno lontanamente supporre che dietro molte espressioni italiane, e non solo quelle dei proverbi e simili, giace indisturbata e ben camuffata, tanto da non far sorgere il minimo sospetto, qualche frase latina.  In questo caso si tratta del latino Quanti venit? 'A quanto è messo in vendita?'  che equivale a ' Quanto costa?'.  L'espressione è formata dal gentitivo di prezzo quanti  'a quanto' e dalla 3° persona del pres. indicativo del verbo venire 'essere messo in vendita', e cioè ven-it 'è messo in vendita', composta della radice del lat. ven-um 'vendita' saldata al verbo anomalo eo, is, ivi, itum, ire 'andare'; essa  qui si è perfettamente confusa con la 3° persona  venit 'viene' del  pres. indicativo del verbo venio , venis, veni, ventum,  venire 'venire, andare' che ha un'origine diversa  dal verbo, diciamo così, concorrente , e cioè ven-eo, ven-is, venii, venum, venire 'essere messo in vendita', composto da lat. ven-um 'vendita' e da lat. eo, is... come abbiamo detto.  Cfr. anche l'aggettivo lat. venale(m) 'venale'.

Questo fatto costituisce anche un'altra prova inconfutabile, se ce ne fosse bisogno, della giustezza del mio metodo ermeneutico.  Chi ha orecchi per intendere ed occhi per vedere, veda ed intenda.

Ma le sorprese, a mio avviso, non sono finite qui.  La stessa espressione sessuale popolare venire oppure venirsene 'raggiungere l'orgasmo', riferita sia a uomo che a donna, non può far riferimento, come si potrebbe credere, all'eiaculazione in quanto tale (etimologicamente 'lancio'), ma al piacere erotico fisico tout court.  E in effetti è ampiamente circolante nelle lingue indoeuropee una radice wen 'desiderare'. Il suo significato di fondo è 'amore fisico' e 'qualità per eccitare il desiderio' (cfr. M. Cortelazzo-P. Zolli, DELI, Dizion. Etimologico della Lingua Italiana , sub voce venere). Definizione che combacia a pennello con l'idea di "orgasmo".   Potrebbe essere un po' imbarazzante parlarne con gli studenti delle scuole superiori, ma oggi credo che i tempi siano maturi per un'analisi scientifica del termine e per meglio capire parole come lat. Ven-ere(m), dea dell'amore,  lat. ven-erari 'venerare, adorare' attraverso il significato di 'amare, favorire, ecc.' e lat. venia(m) 'favore, grazia, perdono, ecc.'.  Anche l'espressione essere in vena  potrebbe  quindi essere collegata alla stessa radice ed indicare una condizione spirituale di grande felicità e grazia per poter svolgere una certa attività. La radice si ritrova nell'espressione francese Se faire bien venir de quelqu'un 'Farsi ben amare (benvolere) da qualcuno', dove essa si nasconde ancora una volta sotto il verbo venir 'venire', il quale  renderebbe la frase incomprensibile se corrispondesse per il senso, pur con le possibili variazioni figurate, a quello del normale verbo intransitivo francese venir 'venire'.  Et vive la France!

sabato 1 giugno 2013

Le parole dialettali "spesa, mmutina" ed altre

            


Quante stagioni sono trascorse da quando mio padre, un uomo dall’aspetto segaligno, lavorava i campi ed io ero un garzoncello, prima di scuola elementare e poi di scuola media, scherzoso ma anche incline alla pensosità e agli studi che seguivo con viscerale passione, soprattutto l’amato latino!  Ricordo che mia madre era solita al mattino preparare la spesa  per mio padre in partenza per il lavoro. ―Che cos’era questa spesa? ― si chiederà giustamente oggi qualcuno non più aduso alla vita contadina di un tempo.  La spesa  era il cibo che il contadino portava con sé, consistente generalmente in alcune spesse fette di pane spalmate d’olio e farcite con companatico che variava di volta in volta: peperoni lessi, formaggio, ventresca, prosciutto,frittata, lardo ecc.  Il tutto veniva avvolto nel fazzoletto della spesa legato per i quattro capi, a due a due[1].  Essa costituiva l’indispensabile sostentamento e rifocillamento per il contadino che spesso affrontava, nell’arco della giornata, fatiche che facevano venire una gran fame. Il perderla sarebbe stato oltremodo increscioso, tanto è vero che, quando uno appariva abbattuto e scuro in volto, si usava in paese apostrofarlo con l’espressione: Cu të s’è magnatë lë panë (la spésa) j’asënë? (forse che l’asino ti si è mangiato il pane?).  A volte capitava effettivamente che la povera bestia, compagna assidua del contadino, scioltasi fortunosamente la fune che la teneva legata ad un piolo conficcato nel terreno che le concedeva solo un limitato spazio per il pascolo, venisse attratta dal buon odore proveniente dalla spesa la quale, se non era stata nascosta in luogo sicuro, finiva così in pochi bocconi nello stomaco dell’innocente animale.

Iniziato l’apprendimento del latino avevo già cominciato a notare alcune somiglianze tra parole latine e parole dialettali, ma naturalmente non avevo ancora la scaltrezza per notare la quasi contraddittorietà intrinseca del termine spesa usato nel senso che ho detto.  Perché lo si impiegava anche nell’altro senso che esso ha in italiano, di ‘esborso di denaro per il pagamento di qualche merce acquistata’.  Nel primo senso, parola più adatta sarebbe dovuta essere quella di risparmio se si vuole mantenere questo linguaggio commerciale, dato che la preparazione della spesa era improntata a completa economia: il pane lo si produceva in proprio come in genere il companatico, tranne i peperoni che attecchiscono sotto climi più caldi dei nostri. In passato anche l’olio usato come condimento era di produzione locale, prima del prosciugamento del lago del Fucino che mitigava di molto il clima delle nostre zone, rinfrescandolo d’estate e mitigandolo d’inverno. In paese esistevano alcuni trappìtë ‘frantoi’, vocabolo proveniente dal lat. trapetu(m) ‘frantoio’, a sua volta di ascendenza greca.

Ora leggo, in un sito web, che nei paesi dei monti Lepini divisi tra le province di Roma, Latina e Frosinone si usava in passato l’espressione rimettersi la spesa per indicare quello che era il pensiero costante di ogni famiglia contadina: mettere al sicuro in casa o in edifici adeguati i cereali necessari per il sostentamento di tutta la famiglia nell’arco di un anno.  Anche qui un termine più acconcio sarebbe dovuto essere non la spesa ma il ricavo o prodotto del duro lavoro dei contadini.  E’ strano, poi, che questo termine spesa, nel significato diretto di ‘cibo, viveri’, e non di ‘spesa per l’acquisto giornaliero di generi alimentari’ ricorra specialmente nelle campagne dove in passato quasi tutto veniva prodotto autarchicamente e non si incontri, magari, nelle città dove invece le famiglie comprano, e compravano in passato, in genere tutto per il proprio sostentamento e dove, quindi, si sarebbe potuto avere più facilmente il passaggio semantico da ‘spesa’ a ‘viveri’.  Queste considerazioni alimentano il sospetto che la voce dialettale spesa ‘cibo, cereali, nutrimento’ non abbia la stessa origine dell’omonimo italiano spesa, dal tardo lat. expensa(m) [pecunia(m)] ‘denaro  speso, spesa, pagamento’.  Anche se i linguisti alimentano questa credenza, tanto da sostenere[2] che anche il ted. Speise ‘nutrimento, pietanza’, danese spise ‘mangiare’ sono debitori del termine del tardo latino. 

La soluzione di questo problema etimologico non è semplice ma uno spiraglio di luce può aprirsi col secondo significato del ted. Speise, in apparenza del tutto diverso dal primo, che è quello di ‘lega metallica, bronzo’.  Anche l’ingl. speiss significa ‘miscela di arseniuri metallici’ ribadendo, quindi, il concetto di ‘lega, congiunzione, coagulo’ ed accostandosi così, a mio vedere, al significato e al significante dell’agg. lat. spissu(m) ‘spesso, denso, compatto, compresso, solido,ecc.’ e lituano spis-ti ’pressare’. Questo concetto si presta bene ad esprimere anche quello di ‘robustezza, sanità, prosperità’, tutte qualità fornite da una buona alimentazione e nutrimento.  Lo conferma ad esempio, il gr. tréph-ein ‘ ispessire, rendere grande e grosso, far coagulare, dar da mangiare, nutrire, crescere, ecc.’.   Il ted. Speise ‘lega metallica’ è una variante di dan. svejse ‘saldare’, ted. schweiss-en ‘saldare (a fuoco)’, ingl. tecn. sweat ‘fondere, saldare’.

 Un termine con una base simile a lat. spissu(m) ‘spesso, denso’ può essere considerato il ted. Speck ’lardo, grasso’. a. ingl. spic ‘lardo’ e l’abruzzese spitë ‘lardo’[3], da accostare quest’ultimo all’ingl. speed  ma nel senso antiquato di ‘favorire, far crescere, prosperare’ e non in quello di ‘velocità’, per quanto i due significati siano, a mio parere, specializzazioni di quello di spinta. Sembra incredibile! ma questa radice speed la si riscopre nell’espressione abruzzese A’ spëzzatë la vitë che significa ‘E’ cresciuto, sviluppato’, lett. ‘Ha elevato la vita, la statura’[4].   Anche l’italiano Spezzare una lancia a favore di qualcuno non può significare ‘Rompere una lancia scontrandosi con l’avversario in un torneo sostenuto in difesa di qualcuno (talvolta la lancia si spezzava)’ ma semplicemente ‘Scagliare una lancia’ nel senso di ‘dare un colpo’ in difesa di qualcuno.  E, puntualmente, l’ingl. speed ha anche il significato di ‘scagliare, emettere’: cfr. la frase Sped arrows from their heavy war bows ‘scagliavano frecce dai loro pesanti archi di guerra’ di F.V. W. Mason.  

Altra voce esattamente corrispondente, per il significato, al dialettale spesa ‘cibo (che il contadino portava con sé in campagna)’ in uso nel mio paese (non nella mia famiglia) era mmutìna, ricorrente anche in altri centri della Marsica, ed altrove, nelle forme mmutìna, mmëtina, mmotìna.  Da notare il raddoppiamento della labio-nasale iniziale, cosa che avviene abbastanza spesso in dialetto. Qui mi pare che non possano esserci dubbi sulla sua derivazione o, meglio, sui termini con cui confrontarla: ingl. meat ‘carne, arc. cibo’, a.ted. maz ‘cibo’, got. mats ‘cibo’ dan. mad ‘cibo’, fr. mets ‘vivanda, cibo’.  La forma mmut-ìna e le altre presentano il suffisso diminutivo –ina.   Questo nome conferma, tra l’altro, che probabilmente anche il primo, spesa, doveva indicare direttamente, e non attraverso il concetto di “spendere”, il proprio referente, come più e più volte mi è capitato di far notare.

Come ho mostrato in altri articoli io non credo che queste radici germaniche siano state portate a noi dalle invasioni barbariche del Medioevo, ma che probabilmente esse fossero preistoriche. Sono anche abbastanza numerose. Nella zona dei monti Lepini summenzionata i fusti del granturco vengono chiamato stavi, chiara variante di ted. Stab ‘asta, stecca, bastone’, ingl. staff ‘asta, bastone, palo, ecc.’, ingl. stave ‘piolo, stecca, doga’. Nel mio dialetto erano chiamati stamm-ùcchë, voce con un suffisso diminutivo confrontabile col ted. Stamm ‘tronco d’albero, fusto, ceppo’, ingl. stem ’gambo, stelo, fusto, tronco, ecc.’.  Dato che il granturco si è diffuso tra noi molti anni dopo la scoperta dell’America, qualcuno potrebbe chiedersi donde siano potuti spuntare questi termini di colore germanico. Il fatto si spiega agevolmente  riflettendo, ad esempio, che la voce stammόcche, stammùcche significava in Abruzzo anche ‘tronco d’albero invecchiato con pochi o senza rami, osso spolpato, sagginale, tibia’[5] e che pertanto il termine era preesistente all’arrivo del mais in Europa: la voce, nel mio paese, si è semplicemente adattata ad esprimere il fusto, senza pannocchie e senza foglie, della nuova coltura, facendo cadere nel dimenticatoio gli altri significati.  Nel dialetto di Avezzano la parola si è specializzata per lo stelo secco di ortaggi, tuberi, fagioli[6].  Tutti questi esempi confermano, se ce ne fosse bisogno, il principio più volte da me ribadito e di ascendenza saussuriana, secondo cui è vano presumere che le parole siano state inventate per indicare il referente di cui si caricano solo nel corso di una lunghissima storia, che ha solitamente specializzato in svariati modi il generico significato iniziale delle radici.  Per la Lingua, ad esempio, un filo d’erba, uno stelo, un palo, un tronco, un albero, un pilastro, un pinnacolo, ecc. sono concetti subordinati di uno più generale che li comprende tutti, anche se di volta in volta essi possono essere indicati con radici formalmente diverse: è il concetto sovraordinato di “protuberanza, escrescenza” e simili che si può allargare, a mio parere, a designare alture, colli, montagne: questo è il motivo per cui spesso i monti portano nomi di piante.  Non perché esse crescano sulle loro pendici (la cosa è indifferente), ma perché il concetto di “pianta” (entro cui rientrano le varie specie: ciliegio, pioppo, olmo, ecc.), in qualche parlata del lontano passato si era prestato ad indicare quello di “monte”: si trattava sempre di escrescenze. Bisognerebbe tenerlo sempre presente questo principio, perché esso è spesso risolutivo per individuare l’etimo più probabile delle parole.

Oggi, 18 settembre 2013, ad oltre tre mesi dalla stesura di questo articolo, mi sono accorto che l’etimo che ho dato della voce dialettale mmutìna ‘cibo che il contadino portava con sé in campagna per rifocillarsi durante la giornata’ molto probabilmente non corrisponde al vero.  Credo che mi abbia tratto in inganno il raddoppiamento della nasale bilabiale iniziale /m/ che avevo creduto uguale a quello che si ha in molte parole dialettali come mmëtà ‘metà’, mmatónë ‘mattone’, mmatìna ‘mattina’, ecc.  Pare invece più esatto considerarlo uguale all’esito che si ha nei nostri dialetti in parole che iniziano in italiano o latino col gruppo inv- come in mmerneinverno’, mmìdiainvidia’, mméggëinvece’, ecc.  Questo fatto permette di interpretare il dialettale mmutìna, mmotìna come esito, con la perdita della liquida /l/, di una forma uguale all’it. involt-ino, con riferimento al fazzoletto con cui si avvolgeva la spesa.  Ma, sorpresa delle sorprese, questo etimo molto probabilmente non è neppure esso quello originario: proprio in virtù del ragionamento di ascendenza saussuriana di cui parlavo più sopra, secondo cui bisogna dubitare degli etimi che sembrano fatti apposta per l’oggetto da esso indicato, che qui sarebbe il concetto di “involto”.  Ma questo concetto, a ben riflettere, non è nemmeno fondamentale  per il nostro referente.  E’ come se, dovendo indicare una penna, noi ricorressimo all’idea di “astuccio”, il suo contenitore.  Ora, siccome le parole all’origine solitamente indicavano, anche se con concetto generico, il referente nudo e crudo, io sono propenso a suggerire che dietro il concetto di “involto” si debba in questo caso vedere quello di “cibo, nutrimento, sostentamento” come nel caso di spesa di cui ho parlato.  E me ne dà l’occasione la radice del verbo lat. fulc-ire ‘sostenere, puntellare, rianimare, ristorare’ nella forma del part. pass. fult-u(m) che ha dato l’it. folto anche se in latino non è attestato in questo significato.  Il dialettale futë (che, come spesso avviene in questi casi, perde la liquida /l/) significa anch’esso ‘folto, denso, fitto’ ma anche ‘forte’ riferito a qualcuno pieno di risorse, di abilità e di ingegno.  Si adombra così dietro questa radice una situazione similissima a quella di gr. tréph-ein di cui sopra che significa ‘ispessire, rendere grande e grosso, far coagulare, dar da mangiare, nutrire, crescere, ecc.’.  In effetti il verbo lat. in-fulc-ire ‘inserire, cacciar giù, far ingoiare’ potrebbe aver avuto anche il significato di ‘nutrire, sostentare’ e, in una forma sviluppata dal part. pass. in-fult-(m), quello di ‘nutrimento, cibo’.  Da questa forma sarebbe poi derivato il concetto di “involto” formalmente simile al precedente che vien da lat. in-volut-u(m) ‘avvolto, involuto, inviluppato’.  Nei nostri dialetti in genere il gruppo inf-  ha dato mb- come in mbérnëinferno’, ma è anche probabile che in questo caso, in conseguenza di un possibile incrocio con la forma dialettale simile di *in-volt-u(m) (da cui l’it. involto) al posto del classico in-volut-u(m), si abbia avuto il risultato di mmot-ìna, mmut-ìna. Da ricordarsi sempre che nei nostri dialetti la liquida /l/ scompare senza lasciare generalmente tracce. 



[1] La spesa era anche il ‘cibo’ fornito agli operai a giornata, diversa dalla paga giornaliera.  La parola era diffusa certamente nel centro-meridione d’Italia.  Non so se essa lo fosse ugualmente nel settentrione. Cfr. anche G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 163.

[2] Cfr. O. Pianigiani, Dizionario etimologico, presente in rete.

[3] Cfr.D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.  Del resto i linguisti fanno derivare il lat. spissu(m) ‘denso,spesso’ da una radice in dentale SPID-, come lat. fossu(m) ‘scavato’ da fod-ere ‘scavare’, lat. sessu(m) ‘il sedersi’ da sed-ere ‘sedere’, ecc.

[4] Cfr. D.Bielli, cit.

[5] Cfr, D.Bielli, cit.

[6] Cfr. U. Buzzelli-G. Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese (Il libro non reca alcuna indicazione sulla stampa e sull’anno di pubblicazione).