lunedì 1 aprile 2013

Il nome del profeta Giona osservato in filigrana


                              

La città di Ninive (in accadico Ni-nu-wa, Ni-nu-a, Ni-na-a), capitale dell’Assiria, è spesso indicata da un ideogramma che rappresenta un recipiente o quadrato con dentro un pesce: la casa del pesce, come gli studiosi intendono. Forse si trattava di un’etimologia popolare del nome della città da connettere, ad esempio, con l’aramaico nuna ‘pesce’.  Il sito della città è antichissimo, gli scavi archeologici vi hanno scoperto un insediamento risalente al VI millennio a.C.

Basterebbe questo incredibile mutuo rispecchiarsi della casa del pesce dell’ideogramma e del ventre del grande pesce, dove Giona (ebr. Ionah, gr. Iōnas) secondo la Bibbia[1] visse (si può immaginare come dentro una casa) per tre giorni e tre notti per essere poi risputato sulla spiaggia, a mettere seriamente in dubbio la veridicità non solo di questo episodio centrale della vita di Giona ma anche della sua esistenza storica, che invece gli esegeti di orientamento cristiano tendono a riconoscere, anche per via della citazione del profeta da parte di Gesù (Mt. 12, 38-42) della quale parlerò più sotto.  In altri termini il nucleo centrale della vicenda di Giona, a mio avviso, si ritrova in nuce  nell’etimo più diffuso del poleonimo Ninive, città corrotta dove Dio gli ordinò di andare a predicare e dove egli non volle in un primo tempo recarsi, preferendo imbarcarsi su una nave diretta a Tarsis in Ispagna.  I due nomi di Giona e di Ninive erano quindi destinati ad attrarsi vicendevolmente, aldilà della osservazione degli antichi esegeti ebrei che avevano notato che essi si scrivevano quasi con le stesse lettere, esclusa la prima del poleonimo (cfr. la forma IUNE per Giona e  [N]INUE per Ninive).

Quasi sicuramente questi nomi, che potevano far parte di uno o più nuclei mitici che potevano provenire anche dalla preistoria, ebbero tutto il tempo e il modo di incrociarsi con numerosi altri termini simili che hanno poi dato vita al racconto biblico di Giona, che non esiterei a classificare come mito, leggenda.  E’ probabile, infatti, che il santuario arabo di Nebi o Nabi Yunus (Profeta Giona) a Ninive, sul  tell [2] recante lo stesso nome, riguardasse all’origine una divinità della luce o del sole richiamante, nel nome, il gr. Ione, figlio del dio Apollo.  Nabi in arabo ha infatti anche il valore di ‘illuminato’ come si può evincere dal nome assiro del dio della scrittura Nabu che in accadico significava ‘lo splendente’. Un suo tempio era nel tell Kuyunjik, altro  sito archeologico di Ninive dove si trovava anche il tempio della dea Ištar[3], complessa divinità dell’amore, della vegetazione e della guerra, il cui simbolo era comunque una stella.  In ungherese nap[4],parola simile al precedente Nabu, vale ‘sole, giorno’ ed in greco nēph-ali-eús, epiteto di Apollo, significa ‘sobrio, astemio’ ma il suo significato primitivo in questo caso è da ricercare, penso, in ungh. napp-ali ‘di giorno’.  Uno dei nomi babilonesi della dea era Nina, il che spiega lo svilupparsi nella città di Ninive di uno dei più famosi centri della dea Ištar.   E probabilmente non sarà un caso nemmeno il fatto che, nella lingua quechua dei nativi sudamericani occidentali, Nina è un nome proprio che significa ‘fuoco’ (il fuoco dell’amore o della guerra o di quella forza irresistibile che spinge la vegetazione a crescere e fiorire sotto il sole della primavera-estate)[5].

Intorno al concetto di “cavità, profondità, ventre, ecc.”  si è sviluppata, inoltre, una notevole parte del mito di Giona, finito tra le fauci di un grosso pesce (un cetaceo?) perchè gettato in mare durante una grande tempesta scatenatasi  dopo essersi imbarcato a Ioppe su una nave diretta a Tarsis, disobbedendo così all’ordine di Dio. Giona era sceso nel fondo della nave dove dormiva della grossa[6].  I marinai vennero a sapere da lui, svegliato dal capitano, che la tempesta era stata causata da Dio per punire la sua superbia.  Egli stesso quindi li pregò di gettarlo in mare, cosa che fecero e che provocò una calma improvvisa. La preghiera che Giona rivolge al Signore dal ventre del pesce è caratterizzata dalla presenza di vari termini legati al suddetto concetto di “cavità, interno”.  Sia pure nella traduzione italiana vi si notano le seguenti espressioni: Dalle viscere del pesce― nel profondo, nel cuore del mare― l’abisso mi  si è chiuso d’intorno―sono sceso fino alle bocche dell’inferno―mi facesti risalire dalla fossa.  A mio parere questo ricorrere di concetti imparentati con quello di ‘casa, cavità’, presente già nell’ideogramma di Niniv-e Ninu-a e corrispondente ad accadico E ‘casa’, non può essere alimentato da questa sola coincidenza che comunque fu certamente sufficiente ad attrarre nella città di Ninive il mito di Giona, probabilmente in fieri nel mondo semitico già dalla preistoria, come già detto.  Dietro il nome stesso di Giona, che in ebraico vale ‘colomba’, deve essersi insinuato altro termine per ‘cavità, fossa, ecc.’  che ha generato i vari brani del mito sopra riportati. Non dovrebbe, quindi, essere estranea al fatto la radice del sscr. yoni ‘utero’, cioè una ‘cavità’ che avvolge e protegge, ad esempio, allo stesso modo del ventre o stomaco del grosso pesce.  Come pure la prima componente dell’ingl. john-boat o jon-boat ‘tipo di barca a fondo piatto con prua e poppa squadrate’ che, anche in base al principio tautologico della mia linguistica, doveva avere all’origine lo stesso significato di boat ‘barca’, una cavità dunque. Diversi sono poi i toponimi interessanti al riguardo come  Jonas-tal ‘Valle di Giona’ ad ovest di Arnstadt in Germania o le Grotte di Jonas nel Puy-de-Dôme in Alvernia o il Fosso di Giona a Bibbiena-Ar[7].   E’ da ricordare anche il mare Iǒnium ‘mare Ionio’, noto anche come sinus Ionius ‘golfo Ionio’ (tra Italia, Sicilia e Grecia), in greco Iόnios kόlpos ‘golfo Ionio’. Ma il nome potrebbe rimandare direttamente al concetto di “fossa, cavità (quella del mare)”. Una curiosità: in albanese esso è chiamato deti Ion ‘mar Ionio’, solo che il significato dell’espressione in quella lingua equivale a ‘mare Nostro’, come il latino mare nostrum ‘mare nostro’ riferito al Mediterraneo, espressione che all’origine poteva allora avere, similmente, un significato non corrispondente al letterale ‘mare nostro’ come orgogliosamente si ripete.  L’albanese deti ‘mare’ assuona con Teti, la dea abitante gli abissi del mare, madre di Achille.
Anche l'espressione ingl. Davy Jones's locker 'fondo del mare (letter. 'ripostiglio di Davy Jones')' risulta a mio avviso composta di tre termini per 'mare, fondo del mare'.  Il secondo Jones ha qualcosa da spartire con la radice di cui si sta parlando; l'ultimo, locker 'ripostiglio', richiama il lat. lacu(m)'lago', a. norreno loegr 'mare, acqua'; il primo, Davy, si avvicina alla radice di gr. taphos 'fossa, sepolcro', ingl. deep 'profondo', ingl. to dive 'tuffarsi, immergersi', ingl. dive 'bettola', lituano dubus 'profondo, cavo', ted. tauf-en 'battezzare' cioè immergere (nell'acqua); per il concetto di "acqua" deve essersi incrociato anche con ingl. dew 'rugiada, ted. Tau.  Nel Vocabolario Abruzzese del Bielli la voce dav-éntre significa, oltre che 'dentro', anche 'inferno', concetto che solitamente viene espresso da termini che indicano "cavità, profondità" e simili. La valle di Teve nella Marsica divide il gruppo del Velino dai Monti della Duchessa. Il medievale portus de Deva (porto di Deva) corrisponde all'attuale Dèiva Marina-Sp. Il lat. tab-erna(m)'capanna, bottega, osteria' non era così chiamata perchè costruita con tavole (come con sicurezza affermano i linguisti, seguendo Festo) ma perchè rientrava nel concetto più ampio di "cavità". La città di Deventer sul fiume Ijssel in Olanda era nota nel 1877 come Dav-entre portu, cioè  porto Dav-entre: l'idea di "porto" è attigua a quella di "passaggio, insenatura, cavità".  Il secondo membro -erna, lo stesso di lat. cav-erna(m) 'caverna'è variante in questo caso di it. arnia, la  cui radice è abbastanza ricorrente nei toponimi.  Naturalmente anche la serie dialettale taf-icchio 'ano' (nel napoletano); il secondo membro  -i-cchio  non era in origine suffisso diminutivo -culum ma corrispondeva in questo caso al lat. culu(m) 'ano'; nella nostra Marsica la parola è tàf-ano (col lat. anum 'ano' incorporato). Nella lingua corsa ricorrono le forme taf-icchju, taf-òne, tav-anu 'buco' da cui si dovrebbe dedurre che gli elementi -one e -anu sono equivalenti.  Nel calabrese tav-agnu oltre al significato di 'buco' appare quello di 'grotta oscura' che ci riporta al sign. di cav-erna di cui si è parlato prima (cav-erna=tav-erna).  Nel sopra ricordato Vocabolario Abruzzese del Bielli si incontra la voce tav-ùte 'casa male costruita, mobile grossolano, abito mal fatto' che secondo me nasconde sempre il concetto di "cavità" e va confrontata con la voce meridionale tab(b)-ute/u 'bara' che non deve derivare per forza dall'arabo tabut 'bara' ma ambedue le voci sfruttano la stessa base che va a perdersi nella preistoria delle lingue.  Alla stessa base rimanda la voce del veneto settentrionale tav-ìna 'locale sopra la stalla, dove dormire, nella cascina di montagna'. Il falso suffisso -ina, variante dei precedenti -one, -ano, rimanda, a mio avviso, all'ingl. inn 'locanda', termine che a sua volta richiama la prepos.-avverbio in 'in, dentro, a casa, ecc.'.  E certamente non bisogna dare retta a qualche linguista che parla di  base onomatopeica taf .  Quando la finiranno di sproloquiare!  

Altro nucleo di termini, che incrociandosi con Giona hanno alimentato la leggenda di cui stiamo parlando, è costituito dall’espressione ingl. john  dory ‘orata’ o ‘specie di orata (dory)’ chiaramente collegata, per il primo termine, a gr. iōn-ískos[8] ‘orata’ e ingl. poor john ‘tipo di merluzzo’ in cui evidentemente il personale ingl. John ‘Giovanni’  non c’entra nulla.  Da notare in turco l’espressione yunus baligi ‘pesce delfino’ o semplicemente yunus ‘delfino’.  Si riconferma in questi casi la genericità iniziale del significato della radice che qui esibisce, di volta in volta, quello di colomba, di delfino, orata o di altri tipi di pesce ma che originariamente doveva significare ‘animale’Da tener presente anche il gr. hýaina ‘iena’ e ‘sorta di pesce’.

Giona ha avuto il privilegio di essere citato dalla viva voce di Gesù nel vangelo di Luca (11,29) nel passo in cui il Messia dice: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorchè il segno di Giona».  Questo segno allude, secondo gli esegeti, alla morte e resurrezione di Gesù dopo tre giorni.

Giustamente Piergiorgio Odifreddi, il noto matematico “impertinente”, in riferimento a questo brano si chiede[9]: « Com’era possibile che dichiarasse di non fare miracoli, colui del quale ogni fedele può citarne una lista incredibile, dalle guarigioni dei malati alle resurrezioni dei morti?  Chi faceva quei miracoli, poteva non essere lo stesso di chi diceva quelle cose? Nel variopinto Israele di allora, per molti versi così simile alla variopinta India di oggi, gli evangelisti potevano non essersi ispirati a una sola persona, bensì a molteplici stereotipi?
«Più precisamente, era possibile che nei Vangeli non si parlasse di un unico contraddittorio individuo, ma di uno o più dei tanti santoni, che affascinavano l’uditorio con detti e parabole? Di uno o più dei tanti ciarlatani, che turlupinavano la povera gente con magie e trucchi? E di uno o più dei tanti istigatori politici, che sobillavano gli insoddisfatti a ribellarsi contro i poteri romano ed ebreo?».  

Non nascondo che queste sono tutte domande perlomeno legittime, data la intrinseca contraddittorietà delle nette parole di Gesù sul non voler fare miracoli, quando, prima e dopo questo passo di Luca, di suoi miracoli se ne annoverano invece parecchi.  Stando così le cose non si può purtroppo nemmeno accettare ad occhi chiusi che l’episodio di Giona citato da Gesù, maestro di verità e di vita, acquisti per ciò stesso maggiore veridicità storica, come credono taluni, rispetto ad altri passi: la sua inconsistenza come dato concreto emerge dalla mia analisi precedente.  Naturalmente ciò non toglie la teorica possibilità che qualche episodio vagamente affine della vita reale sia stato inglobato nella struttura del mito.

So di dire una cosa inaccettabile, oltre che molto incresciosa, per un credente cresciuto per così dire a pane e vangelo, ma si va sempre più consolidando in me la convinzione, suffragata anche da queste mie indagini, che i libri cosiddetti sacri di ogni religione non sono affatto opera diretta o indiretta di Dio, bensì un prodotto umano, troppo umano, come del resto altri studiosi per altri motivi sostengono. La Religione del futuro vedrà ―spero― animi più virilmente maturi e scientificamente orientati, capaci di ingoiare anche le pillole più amare della vita senza volerle condividere con la misericordia di Santi e Madonne, e pronti a ridurre e superare le barriere etniche, storiche e cultuali che gli uomini hanno sempre eretto intorno a sé nella irrazionale e tenace volontà di difendere le proprie intoccabili verità, in specie quelle attinenti al proprio Credo, che del resto loro stessi si sono confezionati con le loro stesse mani; la cosa, invece di sgretolare la loro presunta identità, dovrebbe renderli al contrario più liberi, forti e solidali dinanzi alla maestosità misteriosa, austera ed impersonale della Natura, perché non più costretti entro le maglie di una educazione precettistica, particolaristica ed unilaterale spesso acriticamente accettata ma aperti al nuovo che la Natura vorrà rivelarci, e meno soggetti ad una in fondo egocentrica concezione materna e consolatoria della religione, da cui però è difficile liberarsi specie nei momenti più tristi dell’esistenza, che talora possono durare anche per l’intero percorso della vita. In questo cielo apparentemente desolato l’individuo dovrà abituarsi a trovare dentro di sé la forza per andare avanti o per rassegnarsi all’ineluttabile, anche se possono venirci incontro a tenderci fraternamente la mano uomini come Giordano Bruno, Galileo Galilei, Baruch Spinoza, Alberto Einstein, Giacomo Leopardi e tanti altri.









[1] Cfr. il Libro di Giona della Bibbia.

[2] L’arabo tell ‘altura’ è il termine con cui gli archeologi indicano quei rilievi artificiali sul terreno causati dai resti stratificati di insediamenti umani susseguitisi in loco nei millenni. Questi insediamenti potevano essersi sviluppati, comunque, anche su piccole colline naturali originarie.

[3] Cfr. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, 2001 Paravia, Bruno Mondadori Editori, p. 210.  Il nome Ištar, corrispondente al cananeo Astarte,  viene messo da Semerano in relazione col gr. astér, ástron ‘astro, stella’.  Io lo riconosco anche nella seconda componente del doppio nome tautologico per ‘lucciola’ in uso nel dialetto di Villavallelonga-Aq, e cioè lucciola cap-istr-ella.  Il primo elemento cap-, di cui ho parlato nell’articolo Nomi di animali nelle espressioni idiomatiche […] del luglio 2012, ricompare nell’altro diffuso termine abruzzese per ‘lucciola’, cioè luce-capp-ella.  Questi termini mettono in bella evidenza i vari elementi di cui si compongono, proprio come in un gioco ad incastro.  Infatti capp-ella si può intendere come ciò che resta di cap-istr-ella, toltone l’elemento centrale –istr-.

[4] Cfr. l’articolo La tradizione della panarda […] del gennaio 2012.

[5] Il termine el Niño usato inizialmente dai pescatori del Pacifico nell’America meridionale indicava un fenomeno periodico di riscaldamento delle acque in prossimità della costa.  Si crede, erroneamente a mio avviso, che il nome derivi dal fatto che il fenomeno è solito verificarsi intorno a Natale.  Esso sarà stato appreso invece dagli indigeni che usavano quindi una parola incrociantesi con quella spagnola niño ‘bambino’ e imparentata con quella quechua Nina ‘fuoco’ di cui sopra.  Si usa anche il femminile la Niña ‘la bimba’ ad indicare un fenomeno di raffreddamento a volte susseguente a quello del riscaldamento.  Ma in realtà si registra  una certa confusione nell’uso dei due termini che secondo me attesta la tendenza a sfruttare una delle due varianti indicanti uno stesso fenomeno per designare anche l’epifenomeno del raffreddamento.

[6] Si noti la somiglianza con l’episodio di Gesù che dorme nella barca allo scatenarsi di una tempesta nel lago di Tiberiade, che costringe gli apostoli impauriti a svegliarlo.  Ma Giona è ancor più figura della passione e risurrezione di Gesù nel suo essere rigettato sulla spiaggia dal pesce, dopo tre giorni.  Questi richiami al Vecchio Testamento sono frequenti nei Vangeli, nel tentativo di avvalorare, tra l’altro, la veridicità e storicità di ambedue i Testamenti.

[7] Non è escluso che anche il nostro paese di Santa Iona, frazione di Ovindoli-Aq, tragga il nome dal concetto di “valle” se più volte lo storico locale del sec. XIX don Andrea Di Pietro, nella sua opera Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi (pp. 161-62), si riferisce al paese con l’espressione valle di Santa Iona.  Taluni, sulla scorta di documenti medievali e rinascimentali non sempre però concordi tra loro, fanno derivare, con improbabili capriole linguistiche, il nome Iona da quello di Santa Eugenia, patrona del paese.  Ma questo doveva essere in antico solo l’idronimo della Sorgente di Santa Eugenia non lontana dal paese.  E’ a mio avviso poi di notevole valore linguistico, per evidenziare la forza degli incroci sempre operante nei toponimi, il fatto che in qualche sito del web si scriva Santo Iona al maschile, per evidente e semidotto influsso sul toponimo del nome cristiano di san Giona  relativo al profeta Giona.

[8] Il significato di ‘orata’ di gr. iōn-ískos conferma indirettamente il valore di ‘aureo, splendente’ che la radice aveva probabilmente assunto anche nel termine Íōn ‘Ione’, figlio di Apollo.

[9] Cfr. P.Odifreddi, Caro Papa, ti scrivo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011, p. 104.