mercoledì 9 gennaio 2013

Etimo della voce meridionale cafone 'zappaterra, contadino, persona zotica e incivile'


    

Il vocabolo è considerato di etimologia incerta o addirittura sconosciuta, e non è un caso, quindi, se su di esso circolano proposte a dir poco fantasiose, anche se agganciate a qualche dato storico o qualche circostanza particolare che a ben vedere risultano però poco pertinenti.  Qualcuno ricorre, ad esempio, al nome di Cafo, genit. Cafonis, centurione di Marco Antonio più volte citato da Cicerone che avrebbe ottenuto, come veterano di Cesare, delle terre in Campania in modo poco cristallino e che si distingueva per i suoi modi non proprio da gentleman.  Il DELI[1] accortamente prende le distanze da proposte etimologiche del genere e invita a cercare  piuttosto nell’ambito dei seguenti termini meridonali di probabile origine osca:  cafà ‘cavare’, cafuni ‘precipizio’, ‘solco profondo’, cafone ‘cavità’ (evidente è il rapporto col lat. cavu(m) ‘cavo, cavità’).   Il cafone potrebbe essere allora il nome osco dello ‘zappaterra’ o estensivamente del ‘contadino’ che inizialmente non aveva nessuna accezione spregiativa.  Quando esso fu costretto ai margini della lingua dai nuovi nomi introdotti dal latino, come colonu(m) ‘colono, contadino’, agricola(m) ‘agricoltore’ ecc., dovette assumere una coloritura di subalternità rispetto alla nuova lingua dominante, cosa che avviene molto di frequente come ho potuto constatare nei miei studi, e passo’ a designare magari chi, tra i contadini, si trovava in un gradino inferiore di povertà e precarietà attirando su di sé tutti i pregiudizi e le negatività che di solito le classi  superiori riservano agli ultimi, che certamente non possono essere di bell’aspetto, eleganti  o di modi raffinati.  Alla luce di quanto detto bisognerebbe allora rovesciare il ragionamento che si fa a proposito del centurione Cafone(m): questo nome personale latino non può aver dato origine alla voce “cafone” ma semmai essa stessa ha tratto origine dalla rispettiva voce osca per ‘contadino’. 

Nonostante tutto qualcuno potrebbe pignolescamente ritenere un po’ forzato l’accostamento tra il concetto di “zappatore” e quello di “scavatore”, ma in questo caso è la nostra mentalità moderna, sempre più analitica e specialistica, a crearci qualche problema semantico che sfuma come neve al sole se consideriamo, ad esempio, i significati di lat. fod-ere che sono quelli di ‘scavare’ e di ‘zappare’, ripetuti nel lat. fossore(m) ‘zappatore, aratore, becchino’.  Anche il greco, del resto, ci offre due voci parallele skaph-éus e skap-an-éus ‘scavatore, contadino’ che onomasiologicamente ci confermano da quale concetto generico può scaturire quello di “contadino”, cioè da quello espresso, appunto, dal gr. skáp-to ‘io scavo’, identico a quello della  radice caf- di caf-one: si potrebbe sostenere che la radice caf- sia la stessa di (s)kap- ma non è necessario farlo.  Francamente non capisco la proposta, avanzata anche da linguisti famosi[2], che consiste nel chiamare in ballo una pronuncia dialettale osca di lat. cab-o, genit. cab-onis ‘cavallo castrato’ incrociatosi, a loro dire, con lat. cap-o, genit. cap-onis ‘cappone’. Ma dove andrebbe a parare una simile supposizione?  L’idea del “cavallo castrato”  dovrebbe forse metaforicamente suscitare quella di “cafone”?  Mah!!! La verità è che, quando non si hanno tra le mani radici credibili, si va a pascolare abusivamente in prati rigogliosi di fantasia!  Piuttosto, suscita qualche interesse l’annotazione, presente anche nel DELI, che Devoto fa collegando le due parole al verbo greco kóp-to ‘io colpisco, taglio’ visto che esse indicano due animali castrati, e rafforzando così l’etimo dato per il termine meridionale cafà ‘scavare, cavare’ e gli altri sopra elencati, tutti formalmente simili alle due parole di cui si parla.  Ne deriva che l’idea di “cavità, fosso, solco” è una diretta emanazione di quella di “colpire, tagliare, penetrare” che sta dietro anche a quella di ‘zappare’.

Nel dialetto di Trasacco[3] ricorre, accanto alla voce caf-onë, quella di caf-órchië dal medesimo significato.  Ora, il termine simile caf-úrchië, sempre a Trasacco, significa ‘divisorio di canne o frascame che nella stalla delimita uno spazio dove tener separati, per il divezzamento, agnellini e capretti’. Ad Aielli il caf-úrchjë non era altro che un cestone di vimini che solitamente veniva rovesciato su un agnello o capretto per immobilizzarlo e farlo ingrassare.  La voce si ripresenta anche nel Vocabolario Abruzzese del Bielli[4] col significato di ‘buco, caverna, bugigattolo’: risulta a questo punto chiaro che il significato generico della parola doveva essere quello di ‘cavità’  e si riconferma, così, lo stretto rapporto, più sopra evidenziato, tra il concetto di “cavità” e quello di ‘zappatore, coltivatore’. Un uguale intimo rapporto è attestato, ancora, tra i due termini italiano-dialettali di gravina ’piccone a zappa’ e di gravina ‘vallone, crepaccio’[5].  Con caf-úrchjë si ha, a mio avviso, un composto tautologico (i linguisti li hanno pochissimo studiati) in cui anche il secondo membro –úrchjë può nascondere i due significati fondamentali, uno di ‘cavità’ (cfr. lat. orc-am ‘grosso recipiente’, da accostare al gr. hýrkhe ‘vaso, orcio; lat. urce-um ‘orcio’; lat. orc-ulam ‘orciuolo’ che dovrebbe essere all’origine di -urchjë) e l’altro di ‘pressione, colpo, taglio’ del  lat. urg-ere ‘incalzare, premere, schiacciare’ la cui forza (cfr. sscr. urjà-s ‘pieno di forza’) si ripresenta, a mio parere, nel gr. org-é ‘impulso, istinto, eccitazione, furore’, nonché nel gr. (w)é rg-on ‘lavoro, opera, occupazione, fatica, ecc,’, ingl. work ‘lavoro’ e in altre diverse parole germaniche che presentano una radice variamente alternante werg-, wrek-. 

E’ appena il caso di far notare che il termine caf-one, nel significato di ‘contadino’, si allinea per la componente one, con i numerosi nomi latini come capo, cap-onis ‘cappone’; glutto, glutt-onis ‘ghiottone’; lurco, lurc-onis ‘ingordo’; ganeo, gane-onis ‘crapulone’, vespillo, vespill-onis ‘becchino’ ecc.  Questa componente –one rispunta in vari termini italiani, con varie sfumature di significato, compreso quella accrescitiva e peggiorativa.  La proposta etimologica che segue le orme dello scomparso semitologo Giovanni Semerano e che fa derivare il termine da accadico kabû ‘stalla’ e accadico enu ‘signore’  (caf-one= signore della stalla o degli armenti) è a mio avviso da scartare per vari motivi non ultimo quello rappresentato dal fatto che l’etimo che abbiamo sopra individuato indica molto più direttamente il referente: il cafone non è tanto un ‘signore di armenti’ quanto un ‘contadino, un lavoratore della terra, uno zappaterra’.

I cafoni di Silone possono quindi fregiarsi orgogliosamente di questo blasone di genuina nobiltà del loro nome che ne rivendica l’origine di forti e degni lavoratori della terra, rispettati dalle comunità contadine dei primordi, prima che la loro condizione venisse considerata inferiore e spregevole dai soliti ceti emergenti della società, magari altezzosi e abili nel raggiro, che ben spesso lucravano parassitariamente sulla loro fatica.  Ahimè!!! nonostante le condizioni e i tempi molto mutati, la storia umana mi pare amaramente ripetersi, stante oggi, a fronte dell’impotenza angosciosa e disorientata della gente comune, la voracità oscena e mai sazia di parte considerevole degli attuali ceti dirigenti, in specie di quello costituito dal variegato becerume politico e parapolitico di basso profilo morale che brulica sempre più numeroso e spudorato nei nostri paesi e città, impaziente di imbrattare, coi suoi pasti immondi, la bella provincia italiana, e che, dietro la cortina fumogena delle parole passe-partout di democrazia equità giustizia con i loro annessi e connessi, di cui si riempie la bocca incontenibile nella foga logorroica dello stereotipato politichese del momento, è compulsivamente intento, senza coscienza alcuna da parte sua e senza più speranza dalla nostra, alla rapina occhiuta del bene comune.  Senza speranza, dicevo, perché le orde di politicanti calano nella bella Italia non già dalla luna ma ogni giorno, come api bottinatrici, sciamano dalle nostre case dove la sera rientrano carichi di glorie furfantesche all’abbraccio amorevole e complice dei propri famigliari.

 Solo ahimè i popoli nordici, in specie scandinavi, sembrano essere immuni o perlomeno poco attaccabili dalla vecchia tabe che imputridisce la vita pubblica degli altri.  Per essi, tanto tempo fa, scrissi questa poesia. 
          
                                                  L’amore di una terra


                                                  Non so
                                                  da quali lontananze
                                                  dello spirito
                                                  mi tormenta la nostalgia
                                                  d’una terra
                                                  che non ho mai vista
                                                  e che mi sembra di conoscere
                                                     come le quattro rocce
                                                     del mio paese;
                                                     il desiderio di una terra
                                                     tuffata in acque gelide,
                                                     della nordica Scandinavia
                                                     dai magici villaggi
                                                     avvolti nella neve,
                                                     dai piani bianchi e desolati,
                                                     e le fiancate di monti
                                                     irti di pini irrigiditi,
                                                     sotto un freddo cielo triste
                                                     come la mia anima.

                                                     Mi piacerebbe vivere
                                                     in mezzo a voi
                                                     popoli della Norvegia e della Svezia,
                                                     discreti e silenziosi
                                                     come la neve che vi circonda,
                                                     scoprirmi figlio
                                                     d'una patria comune.

                                                

                                         












[1] Acronimo di Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di M. Cortelazzo e P. Zolli, Zanichelli editore 2004, Bologna.

[2] Cfr. G. Devoto, Dizionario Etimologico, Edizione CDE spa 1984, Milano.

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo 2003, Avezzano-Aq.

[4] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore 2004, Cerchio-Aq.

[5] Il termine it. gravina ‘piccone a zappa’ nel dialetto del mio paese di Aielli è in realtà sinonimo meno usato di picchë ‘piccone’.  La gravina ‘vallone, burrone’ rimanda al pugliese grava ‘inghiottitoio’ dei terreni calcarei delle Murge.  I linguisti rinviano questa voce ad una non meglio identificata radice prelatina.  A me pare innegabile anche il rapporto col ted. Grab ‘tomba’, ted. grab-en ‘scavare, incidere, intagliare’, ingl. grave ‘tomba, fosso’, ecc.  Il dialettale trentino veneto friulano grava (cfr. Cortelazzo-Marcato I dialetti italiani, UTET, 1998) ‘ghiaia, ghiaieto’, laziale rava ‘grossa pietra’, abruzzese gravare ‘brecciaio nei canali montani’, abr. gravate, ravate (vocab. del Bielli) ’materiale sassoso e ghiaioso portato dalle acque che scendono dai monti’, aiellese rava ‘grossa pietra, roccia’ sono voci che, anch’esse, attingono al concetto di “cavità”,  espresso qui da quello affine di ‘rotondità’ come ho spiegato nell’articolo I Ciclopi e il concetto di rotondità del giugno 2009, presente nel mio blog di Meditazioni linguistiche. Anche un buco, una fessura rientrano nel concetto più vasto di “cavità”. L’abr. grav-ïule ‘viticci della vite’ ma anche ‘ravioli’ fa piena luce sull’etimo di quest’ultima parola considerata addirittura di origine oscura dal DELI.  I due significati attingono a piene mani al concetto di “avvolgimento, involto, involucro”, altro tipo di “rotondità” se non si vuole chiamare in ballo anche il lat. grav-idu(m) ‘carico, pieno, pesante, pregno, rigonfio’ con riferimento ai vari ingredienti con cui i ravioli si riempiono e rigonfiano.  Oppure si possono vedere i ravioli sotto l’aspetto del corpo, corpuscolo, tocco, piccola massa ecc. che è la stessa cosa.   In effetti l’abr. grav-ïule ’ravioli’ sopra citato si presenta come diminutivo di grava ‘pietra, ghiaia’ o del termine della fisica grave ‘corpo soggetto a gravità’.  Gli altri nomi con cui si indicano i ravioli o simili prodotti culinari in varie parti d’Italia confermano la tendenza a nominarli per quello che sono: sostanzialmente rotondità, appunto, rigonfiamenti.  In Piemonte si hanno gli agnolotti o agnellotti, nomi vicini a quello di anolini nel Piacentino che rimanda al lat. anulu(m) ‘anello’ con pronuncia palatale della nasale –n-, in Liguria si hanno i pansoti o pansotti dal dialettale pansa ‘pancia’, in Emilia e Lombardia ci sono i tortelli che diventano tordelli nella Toscana settentrionale. Il cremonese mar-ubino deve quindi fare i conti con la radice prelatina mar-, marr- ‘pietra’ da cui it. marrone ‘castagna’, abruzz. marrë ‘noce grossa con cui si tira alle cappe, nel gioco del nocino’,  abruzz. marrë ‘interiora di agnello avvolte negli intestini’, sicil. (a Gela-Cl) marr-éddra ‘matassa, complotto, fatto intricato’ e marr-iddru ‘imbroglio’.  

mercoledì 2 gennaio 2013

La voce BBUVE 'ferita, vescicola, eruzione cutanea, sfogo' del dialetto lucano di Gallicchio-Pz ma circolante ampiamente anche altrove, conferma che la legge di Grimm o rotazione consonantica andrebbe rivista




La voce  lucana bbùvë[1] corrisponde esattamente a quella di bua, buva ‘ferita’ presente nei nostri dialetti marsicani nel linguaggio cosiddetto infantile, usato sia dai bambini che dagli adulti che parlano con loro. Ad Aielli essa ha il significato di ‘ferita, sfogo’ mentre nei vocabolari italiani in genere appare col significato di ‘male, dolore, disturbo, malattia’, il quale ricompare, accanto all’altro, anche nel dialetto del non lontano paese di Trasacco[2].

I vocabolari, come al solito, si precipitano a sostenere un’origine onomatopeica della parola che, secondo il Devoto-Oli, sarebbe addirittura una “onomatopea elementare, fissata in un mugolio doloroso”: è forse vero che la parola bue, di simile struttura,  trae origine dal muggito dell’animale? Chi ci dà tanta ingiustificata sicurezza?  E così si seppellisce per l’eternità ogni ulteriore riflessione sul termine che invece ha una forza rivelatrice e rivoluzionaria senza pari, rispetto ai soliti schemi elaborati dai linguisti.  Ripeterò fino alla nausea che le parole considerate scherzose, infantili, eufemistiche e quant’altro (come fetta ‘piede’ del post Il lino delle fate […]) sono in realtà spessissimo, non il frutto della intenzionalità dell’homo loquens che a volte cercherebbe di addolcire la pillola o sarebbe in vena di scherzare, ma il risultato involontario di un decadere di quelle parole dallo status di membri di diritto del normale linguaggio ufficiale di una comunità, decadenza che può verificarsi per vari motivi, connessi comunque all’apparizione in quel linguaggio di termini omosemantici che vi acquistano maggiore influenza e rispettabilità, e salgono quindi all’apice della gradevolezza, oscurando gli altri dello stesso significato. I quali, per poter continuare a vivere, si adattano a svolgere funzioni marginali e particolari nella semiclandestinità, sperando magari che un colpo di fortuna li riporti un giorno a galla a godere la piena luce del sole.

Ora, a me sembra molto chiaro che il significato di ‘eruzione cutanea, sfogo, vescicola’ di lucano bbùvë connette il termine con la notissima radice di gr. phý-o ‘faccio crescere, creo, sono generato, sono per natura, ecc.’ in quanto ‘escrescenza, vescicola, eruzione’ che sono tutti concetti affini a quello fondamentale della radice, la quale indica la ‘forza della natura’ che dà vita alla vegetazione come attesta anche il gr. phyt-ón ‘vegetale, pianta, albero’ ma anche ‘ creatura, figlio, tumore, ulcera[3].  Il concetto di “ferita, ulcera” dovrebbe essere nella fattispecie il risultato di questa forza della natura che erompe lacerando il tessuto della pelle. Da citare anche il gr. phŷ-ma ‘escrescenza, tumefazione, ascesso’, gr. phý-sis ‘natura, forza della natura, forze’.  Secondo i linguisti la radice base di queste voci sarebbe BHŪ, BHEWĒ : da essa deriverebbero varie forme verbali come lat. fu-i ‘fui, sono stato’, lat. fi-o ‘divento’, lat. fu-turu(m) ‘futuro’, ingl. to be ‘essere’, ingl. to bu-ild ‘costruire’, danese byld ‘foruncolo’, ted. bau-en ‘costruire, coltivare’, sscr. bhu ‘essere, far essere’, bháva-ti ‘è, diventa’.

 Da questo quadro emerge il fatto che parole in circolazione in Italia come la citata bua ’ferita’ presentano, tranne quelle latine, la labiale sonora iniziale come le forme germaniche corrispondenti: ne consegue, quindi,  che anche nell’antichità  dovettero incontrarsi su suolo italico parole appartenenti  a questa radice ma che presentavano un trattamento della sonora aspirata iniziale diverso da quello latino e uguale a quello germanico.  Pertanto sarei propenso a credere, come ho già rilevato nel post precedente La Madonna della Libera […], che le forme latine in fricativa sorda f- (che secondo la legge di Grimm[4] sarebbero derivate dall’aspirata originaria bh-) siano in realtà una sorta di varianti coesistenti con le altre da remotissimo tempo. Se c’è stata trasformazione, essa è avvenuta veramente in epoche lontanissime della preistoria. Lo schema della rotazione consonantica (o Lautverschiebung) previsto da quella legge può a mio parere continuare ad essere considerato valido ma con la consapevolezza, da parte dello studioso, che non di effettiva trasformazione consonantica si tratta, bensì di una più normale sostituzione di varianti, causata forse dalla libera inclinazione di ogni lingua o della parlata delle classi dominanti ad adottare questa o quella forma omosemantica. 

Se ben si riflette si può capire anche il motivo per cui la voce bua, buva (anche bubù [5]) è finita nell’ambito del linguaggio bambinesco. In verità essa aveva dato vita anche a termini col significato di ‘bambino, ragazzo’ come ingl. boy ‘ragazzo’, ted. Bube ‘ragazzo’, allo stesso modo in cui la radice greca corrispondente aveva sviluppato, molto naturalmente del resto, il significato di ‘creatura, essere vivente, figlio’ nel gr. phyt-ón, come abbiamo visto.  Ma la cosa è confermata dal composto tautologico gr. boú-pais ‘giovane fatto’, in cui, come ho più volte mostrato in altri casi, i due membri debbono avere lo stesso significato iniziale.  Quindi se -país significa ‘ragazzo, giovane’ l’altro membro boú- deve significare la stessa cosa.  Questo cosiddetto prefisso bou- che precede anche diversi altri termini, viene comunemente inteso come rafforzativo con l’idea di “grande, immenso”, ma che in questo caso esso significhi ‘ragazzo’, cioè un essere in crescita, ce lo conferma anche, a mio avviso, lo spartano boû-a ‘divisione dei fanciulli dai sette ai diciotto anni’.  La radice ricompare nell’altro composto tautologico gr. bou-kólos ‘pastore (-kólos) di buoi (bou-), bifolco’ che sembra un nome creato apposta per questo tipo di pastore.  Ma noi, che non abbocchiamo più a simili esche, pensiamo che in questo caso bou-  non stia per boû-s ‘bue, vacca’ ma contenga dentro di sé lo stesso significato di ted. bau-en ‘coltivare, costruire’ < a. a. ted. bu-an ‘coltivare, abitare’, danese bo ‘abitare’, significati che riconducono speditamente a lat. col-ere ‘coltivare, abitare, venerare’ e a –kól-os, 2° membro tautologico del composto. Il significato originario del composto doveva essere quello generico di ‘coltivatore, allevatore’ ma finì fatalmente per specializzarsi nel senso di cui sopra, data la presenza in greco del termine omofono boû-s ‘bove’ che andava a sovrapporsi al 1° membro, e la scomparsa, nella coscienza del parlante, del significato originario della radice bou- che è, in questo caso, variante della radice di gr. phý-o sopra analizzata.  Anche per il greco, allora, risulta un po’ stretto lo schema delle trasformazioni consonantiche nelle lingue del gruppo arioeuropeo, schema che prevede per le labiali sonore aspirate (bh) indoeuropee la trasformazione in labiali sorde aspirate (ph) per la lingua greca. 

A me sembra così di poter asserire, limitatamente agli esempi riportati, che forme non rispondenti ai canoni ufficiali delle trasformazioni consonantiche, fossero presenti, benchè in fase di decadimento, anche nella lingua greca, e che la loro coesistenza con le altre forme ufficiali non possa essere messa in dubbio: ciò toglie ad altre lingue, dove esse ricorrano, la possibilità di rivendicarle come esclusivamente proprie.


                                                         Viva la Libertà





[1]  Cfr. sito web Dizionario di Gallicchio. L’autrice M. G. Balzano lo ha compilato con professionalità e precisione.  Sotto la voce bbùvë sono elencati degli esempi da cui si evince che la parola non è affatto bambinesca in quel dialetto, tanto più che la Balzano, solitamente attenta, non ne evidenzia tale accezione.
 
[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, s. v.  Da tener presente anche il lat. boa(m), bova(m),boba(m) ‘serpente boa’ ma anche ‘roseola, eruzione cutanea’; marchigiano (a Fabriano) bo(v)a ‘enfiatura’ (cfr. I dialetti italiani, UTET, Torino  1998). 

[3] Cfr. G.Gemoll, Vocabolario greco-italiano, Edizioni R. Sandron, Firenze, ediz. 23.ma.

[4] La legge di Grimm riguarda specificamente le presunte trasformazioni in germanico delle consonanti dell’indo-europeo, ma di riflesso coinvolge anche le corrispettive trasformazioni in altre lingue del gruppo.  Faccio notare che anche in latino ricorrevano forme in labiale sonora al posto di quelle canoniche in fricativa sorda, come dimostra la parola boa(m),bova(m),boba(m) ‘roseola’ citata alla nota 2. A Trasacco si incontrano (Cfr. l’opera di Q. Lucarelli, citato alla nota 2.)   fëccùtë e pëccùtë con lo stesso significato di ‘profondo, cupo’.

[5] Cfr. T. De Mauro, Dizionario della lingua italiana, Paravia B. Mondadori Editori, Milano 2000. Nell’inglese dialettale si incontra la voce boo-boo ‘leggera ferita, contusione, graffio’.  Essa viene usata soprattutto per i bambini, dice il vocab. Merriam-Webster.  Non si esclude del tutto, quindi, un suo uso più generico, confermando così la mia tesi sull’originaria serietà di questi termini.