domenica 1 dicembre 2013

Il rosmarino ovvero della validità della teoria di Mario Alinei circa la maggiore antichità dei dialetti romanzi rispetto al latino classico


     Per poter trovare l’etimo giusto di un termine spesso è indispensabile, se non si vuole andare fuori strada, raccoglierne il maggior numero possibile di occorrenze nelle varie aree linguistiche, cosa che ho fatto per rosmarino. Il computer in questi casi si rivela una mano santa, anche se si può correre il rischio di dover fare affidamento su una documentazione approssimativa e tecnicamente poco sorvegliata.  Tanto per cominciare, allora, elenco  le varie voci raccolte:

ramerino, ramelino, trasmarino, tresmarino, trosmarina, smarino (toscano); trisomarino (abruzzese); rosamaria (campano); rosemary (inglese); rosmarinu (siciliano); osmarino, usmarino (veneto, lombardo); gusmarino, sgulmarino (veneto); stammerino (umbro).  Si incontra anche l’abruzzese trosmarinë.[1]

Questi termini vengono sostanzialmente confermati, con qualche variante in più, dal dizionario etimologico I dialetti italiani[2] sotto la voce osmarìn(o).  Ne citerò qualcuno se sarà necessario.  Intanto debbo dire, però, che ai linguisti è sfuggito l’abruzzese truzzë-marìnë ‘ramerino, rosmarino’ il quale spiega molte cose oltre a correggere un loro errore, denso di conseguenze.  Il termine è stretto parente di abr. trus-marinë ‘rosmarino, ramerino’ e del toscano tros-marina, tres-marino, tras-marino ‘rosmarino’. Ma come si è differenziato il primo membro truzzë- dai corrispettivi trus-, tros-?  La cosa si capisce bene dall’abr. truzzë ‘torsolo, tutolo (del granturco)’ che è variante metatetica del diffusissimo abr. turzë ‘torsolo’[3].  Il quale corrisponde all’it. torso(lo) proveniente dal lat. tardo tursu(m), variante di lat. class. thyrsu(m) ‘gambo,stelo’.  In greco la parola è thýrs-os ‘tirso’, bastone avvolto di edera e pampini portato dalle baccanti (cfr. la  variante metatetica abr. triso-marino).   

    Bisogna allora prendere atto che le varianti per rosmarino riconducibili a questo termine tursu(m), che ne costituisce il primo componente, nascondono il significato di ‘stelo, gambo, piantina, arbusto marino’, più realistico e naturale rispetto a quello indicato dal lat. ros marinus o, univerbato, rosmarinus che è ‘rugiada marina’, denominazione a mio parere ingannevole per questa piantina, anche perché nemmeno la sbrigliata fantasia di un poeta simbolista del secondo Ottocento sarebbe riuscito ad inventarla.  Purtroppo i linguisti si sono lasciati fuorviare dalla variante simile tras-marino, generatasi secondo loro da ros-marinus per influsso dell’aggettivo lat. trans-marinu(m) ‘trasmarino, d’oltremare’[4]: da questo tras- sarebbero derivate anche le altre forme simili tres-, tros-.  A mio avviso se tras-marino ‘rosmarino’ ha subito l’influsso di trans-  (e non si tratta invece di variante, come propendo a credere) è molto più sostenibile e naturale che ciò sia avvenuto supponendo già esistenti le altre due forme tros-marina e tres-marino  derivabili chiaramente da lat. tursu(m), class. thyrsu(m).  Inoltre c’è da notare che in latino una forma ros, parallela a lat. rhus di origine greca, non indicava la ‘rugiada’ bensi un arbusto, il ‘sommacco’.  E allora non sarebbe così campato in aria supporre che all’origine il ros-marinu(m) non significasse ‘rugiada marina’ ma indicasse la piantina stessa del rosmarino.  Si delineerebbe, insomma, una situazione capovolta, e densa di conseguenze, rispetto a quella proposta dai linguisti. A questo punto, poi, la cosa veramente interessante è costituita dal fatto che questa impostazione e soluzione del problema può confermare la teoria elaborata dal grande archeologo-linguista Mario Alinei, il quale sostiene che i dialetti non sarebbero una derivazione diretta dal latino parlato nel tardo impero, come tutti affermano, ma che essi sarebbero la continuazione di varianti geo- o sociolinguistiche del latino classico e di quello parlato a Roma e altrove nel Lazio, già presenti ab antiquo accanto ad esso.  In effetti il lat. ros marinus  può benissimo essere il risultato di un precedente *(t)ros marinus diventato ros-marinus per via dell’etimologia popolare, la quale, non appena le si offre l’occasione, cerca di rendere vivo, attuale e chiaro, non importa se producendo significati distanti da quello del referente, ciò che le appare strano e incomprensibile, come sarebbe stato questo *tros- nella lingua latina (continuato oggi in Toscana, e anche altrove, da tros-marino).  Si direbbe che l’esigenza etimologica sia ben radicata nello spirito umano.  Questo *tros- era, molto probabilmente, una geo- o sociovariante della forma tŭrsu(m) (con la prima –u- breve)‘gambo, stelo’ che appare nel latino tardo ma che in effetti è «identico - come dice il Devoto- ad un adattamento arcaico del gr. thýrs-os e opposto al class. thýrs-us»[5]. Si deve allora constatare che, indipendentemente dal class. thýrsu(m),  circolavano diverse varianti del termine in questione mutuato dal greco già da epoca arcaica, se non presente in area italica da moltissimo tempo prima, addirittura a partire dalla preistoria.  Secondo Alinei, in effetti, dire che dal lat. bucca(m) si è sviluppato l’it. bocca non è esatto in quanto l’it. bocca sarebbe una variante esistente già prima dell’altra, e perciò si dovrebbe parlare più propriamente di prevalenza di una forma sull’altra per motivi di prestigio e peso sociale.  Egli sostiene ad esempio che, data per buona l’etimologia di Bruno Migliorini per il nome di Roma = ruma ‘mammella’ (cosa che sostanzialmente condivido[6]), esso risulterebbe quindi una variante preesistente o almeno coesistente con lat. ruma o rumis ‘mammella’, significato che sottolineerebbe la caratteristica più peculiare del paesaggio della città, i suoi colli.  In molti dialetti, infatti, col termine mammella si designa tuttora il colle.  In altre parole la -ŭ- tonica latina non si trasforma, come per magia, in –o- chiusa nei dialetti romanzi ma è quest’ultima che semplicemente sostituisce la prima perché esisteva già dalla preistoria[7].  
 
    Abbiamo accennato all’etimologia popolare: vediamola ora in azione nei nomi sopra riportati per rosmarino. E’ facilissimo capire ramerino, data la somiglianza delle due parole e l’apparenza di rametto del rosmarino approdato in cucina.  Di trasmarino abbiamo già detto: la parola ha assunto perlomeno un significato chiaro, anche se lontano dal referente: esso potrebbe alludere ai fiori azzurri della pianta o ad una sua ipoteticissima esoticità, come se si trattasse di pianta importata da terre lontane.  Il campano rosamaria e l’ingl. rosemary  trasformano il nome in quello di una donna, senza starci a pensare su.  Molto curiosa è secondo me la forma os-marino, us-marino che credo derivi dall’incrocio col verbo dialett. ose-mà, use-mà, us-mà ‘fiutare, odorare’ e varianti, diffuso in molte regioni[8].  L’osmarino sarebbe così ‘quello che odora’ a causa del suo aroma.  Questo termine, poi, una volta diffusosi anche lì dove il suo significato non era noto, ha dato origine a mio parere a smarino, in quanto la vocale iniziale è stata assorbita dall’articolo determinativo lo.  Al posto del normale l’osmarino si cominciò ad intendere e scrivere, insomma, lo smarino.  Tanto, l’un termine valeva l’altro per il parlante, circa il tasso di oscurità etimologica. I tipi veneti gus-marino e sgul-marino derivano presumibilmente da un precedente *gul-smarino il quale perde la liquida –l- nel primo caso, come avviene fin nel mio dialetto aiellese nel gruppo –ls- (cfr. puzë ‘polso’, atrë ‘altro’, ecc.), nel secondo la –s- passa all’inizio di parola, rendendo in questo modo più stabile la liquida –l- , che infatti resiste. Il primo membro gul- va confrontato con la voce veneta (veronese) góli ‘stalattiti e stalagmiti’ fatta derivare da lat. aculeu(m) ‘aculeo’[9]. L’umbro stammerino  mi pare mostri nel primo elemento una forma stav- o stab-, stam-  corrispondente ai tipi dell’area germanica stab, staff, stave, stamm col valore fondamentale di ‘bastone, gambo,fusto, ecc.’.  Nella zona dei monti Lepini nel Lazio, infatti, i fusti del granturco vengono chiamati stavi come ho già scritto nell’articolo I termini dialettali “spesa e mmutina” del mio blog (giugno 2013).
     Avreste mai creduto che il rosmarino potesse diventare un gesu-mmarìa come la relativa popolare interiezione? Tale è il suo nome a Luco dei Marsi-Aq accanto a trësë-mmarìna[10]A Castellafiume-Aq l’etimologia popolare investe la prima parte lasciando intatta la seconda, come se si fosse resa conto dell’enormità del mutamento che stava attuando e avesse avuto, a metà strada, un ripensamento: gésu-mmarino[11].  Anche l’avezzanese tresu-mmarìa[12] non ha portato a termine la trasformazione lasciandola in stato di abbozzo nel primo componente per quanto riguarda Gesù perché, nonostante la volontà di farlo per influsso, forse, della forma già risolta in gésu-mmarìa nel paese vicino di Luco (ma avrebbe potuto coesistere con l’altra per lungo tratto di tempo anche nella stessa Avezzano, per poi cadere in disuso), trovava un forte intralcio nella sillaba tre-, non trasformabile in -, della prima componente tresu-. Infatti la mutazione in gésummarìa è dovuta, credo, alla saldatura (concrezione, agglutinazione) dell’articolo determ. je oppure jo, ju  con la voce sëmmarìno ‘rosmarino’, variante, con -ë- anaptittico, del tipo smarino sopra descritto. Così le prime due sillabe del termine agglutinato avrebbero dato jesë- simile al lat. Jesu(m) ‘Gesù’. Anche ad Aielli ricorre per la piantina l’unica voce sëmmarìna, diventata femminile e simile a quella di Cerchio-Aq summarìna.  A Trasacco-Aq  si hanno tre nomi: 1-  rës-marinë, con la riduzione a vocale evanescente –ë- delle due –o- atone di it. rosmarino; 2-  trësë-smarinë, con la seconda componente del tipo smarino; 3- rësë-smarinë[13] con la caduta della dentale –t- iniziale (favorita forse dall’influsso di rës-marinë), come abbiamo supposto che sia avvenuto per il lat. ros-marinus da un precedente *tros-marinus, per influsso di lat. ros, roris ‘rugiada’!!!  Ad ulteriore conferma di ciò, c’è l’indizio non indifferente che il dizionario I dialetti italiani sopra indicato cita solo le due forme trase-marino e traso-marina per il Lazio, non tros-marino, perché questo era evidentemente divenuto ros-marino.  Sarebbe pertanto molto interessante verificare la cosa con dati più numerosi sul rosmarino relativi alle varie parlate laziali e osservarne il comportamento a mano a mano che ci si allontana da Roma.
   Da questa abbastanza variegata esemplificazione delle trasformazioni capitate ad una singola parola, nel corso di molti millenni a partire dalla preistoria, si può dedurre la regola che non esistono nella lingua mutazioni cervellotiche dovute a qualche misterioso e irrefrenabile impulso interno alle parole, come si credeva un tempo, e a volte si crede tuttora, o all’estro incontrollabile dei parlanti (tutto in essa resterebbe invece immutato se non intervenisse questa forza esterna della etimologia popolare a costringerla a cambiare, ma secondo precise e razionali norme, ben individuabili se ci sono sufficienti dati a disposizione), e che non bisogna mai fidarsi, nella ricerca di un etimo, di quelle proposte che si allontanano metaforicamente, di poco o di molto, dal concetto espresso dal referente: scavando scavando si deve arrivare ad esso ad ogni costo.  Stando così le cose, forti e legittimi dubbi mi sono sorti sul significato della seconda componente di ros-marino.  Il rosmarino è una pianta che cresce spontaneamente nelle zone temperato-calde del Mediterraneo, in luoghi aridi e sassosi, a cominciare dalle aree vicino al mare fino alle alture di 800-1000 m. che ne possono essere molto lontane. La pianta, comunque, si acclima facilmente.  Quindi potrebbe non essere vero l’etimo comunemente accettato della componente marino che fa riferimento al mare: esso potrebbe benissimo derivare  dal termine cosiddetto mediterraneo mar(r)a ‘mucchio di sassi’, vista la predilezione della pianta per le zone aride e rocciose.  Il termine marino[14] significa anche ‘materiale roccioso risultante dalla perforazione di gallerie’. Ma anche questa soluzione non mi soddisfa per i motivi che dicevo prima, e preferisco accostare la parola in questione alla radice delle piante del tipo marr-uca e marr-obbio e dar vita così ad un comune composto tautologico. In greco moderno il termine dendro-líbano significa ‘rosmarino’.  Letteralmente esso vale ‘albero libano’. In greco antico líbanos valeva ‘incenso, albero dell’incenso’ mentre libanotís, ídos indicava il ‘rosmarino’. Sempre in greco antico il neutro déndr-on, che a mio avviso va scomposto in dén-dr-on, della II decl. significava ‘albero, tronco, legno, verga’’. Esisteva, però, anche una variante neutra della III decl. dén-dros  il cui sec. membro –dros (la finale –os non è desinenza ma parte della radice) può corrispondere  al primo membro del dialettale tros-marino ‘rosmarino’ (cfr. la variante umbra dres-marino[15] con la sonora iniziale) e al gr. a. drũ-s ‘quercia, pino, olivo, albero in genere’ con cui si rapporta anche l’ingl. tree ‘albero’.  Le cose comunque non cambierebbero rispetto al quadro delineato più sopra in cui si introduce il lat. tardo  tursu(m) per spiegare l’elemento tros-.  Inoltre si può senz’altro affermare, anche in base alla mia pur modesta esperienza, che nelle parlate preistoriche moltissime dovevano essere le varianti di un termine (anche perché i significati d’origine delle radici erano molto generici, come in parte si nota dalle parole greche or ora citate), gran parte delle quali erano destinate a finire ai margini della lingua e, spesso, a scomparire.  Intanto, a sostegno di questo, si possono citare tre termini interdipendenti che a mio avviso chiariscono  la cosa: 1- abr. turz[16] o truzz‘torsolo’ < lat. tardo? tursu(m); 2- abr. tórz-a[17] ‘fascio di frasche (in genere senza foglie), fascio d’erba’, variante femminile del precedente; 3- gr. tars-ós ‘canniccio, graticcio, canna, remeggio, remi[18], flauto di Pan, ecc.’, il quale mi sembra di questa famiglia e non legato al gr. térs-aín-ein ‘asciugare, far seccare’ in riferimento al formaggio (sappiamo che questi tipi di etimi non sono attendibili).  Il significato di fondo di queste radici è infatti quello di ‘fusto, ramo, frasca, pianta, canna, ecc.’. Esse formano, dunque, una serie di tre varianti molto probabilmente già preistoriche, che di conseguenza tolgono inesorabilmente  ogni possibilità di intendere il dialettale laziale tras-marino ‘rosmarino’ come effetto dell’incrocio di rosmarino con lat. trans ‘oltre, attraverso,’ come sostengono, senza tentennamento alcuno, i linguisti. Normalmente in ogni lingua circolano sempre varianti di voci più o meno dialettali, a meno che non abbia agito su di esse, riducendone il numero ma senza poterle eliminare del tutto, una forte azione selettiva e uniformatrice del modello dominante. I possibili incroci tra i termini simili formalmente ma di significato e origine diversi, contribuiscono poi ad intorbidare ancor più le acque, tutto a favore del codice linguistico di superficie.

   Ricordiamo ancora il lombardo torza, -sa ‘fascio’, fr. trousse ’fascio’, sp. troxa ‘fascio’, ted. Tross ‘folla, moltitudine, seguito’, ecc.  Questi termini non derivano dal lat. tortu(m)  p. pass. di torqu-ere ‘torcere’ come pensano i più (cfr. il Pianigiani in rete, s. v. trozzo, anche per i termini precedenti) ma partono dalla radice *tros  di cui si parla, anche se si saranno incrociati con altre radici compresa quella di lat. trusu(m) p. pass. di trud-ere ‘spingere con forza’(cfr.ingl. arc. threat ‘esercitare pressione su, premere’, ingl. tread ‘calpestare, pigiare, andare’, a. norreno throti ‘rigonfiamento’), in riferimento anche al serrare  tra loro i vari elementi della torza, in modo da formarne  un ammasso ben compatto: cfr. dialetto di Trasacco-Aq ‘ntërzà ‘pressare, rendere zeppo un recipiente, costipare, stringere, fare fascine, far impregnare d’acqua per rinsaldarne le commessure botti, bigonci rinsecchiti e quindi gonfiarli), penetrare con forza il sesso femminile in modo da rendere  incinta la donna (ingl. tread sopra citato vale anche ‘copulare’ detto del gallo), picchiare, percuotere’.  Nello stesso dialetto si ha l’agg. ‘nturzë, anche turzë, col valore di ‘pieno zeppo’[19](Cfr. Q. Lucarelli, cit.).  L’aiellese rën-durtà che significa solo ‘gonfiare con l’acqua i recipienti di legno’ e ‘ricoprire di botte qualcuno’ insieme al luchese rentortà con i medesimi significati, sono varianti che si confrontano non con lat. tortum ‘torto’, ma sempre con la radice trud- di lat. trud-ere ‘spingere con forza’ e all’a. norreno throti ‘rigonfiamento’ già incontrati.  Meraviglioso mi pare l’abr. ‘nturtàrsë ‘ubriacarsi’ (cfr. il Bielli già citato), significato insito in questa radice esprimente sotanzialmente una forza che gonfia o penetra o anche eccita e inebria chi ha ingerito del vino, come viene confermato anche dall’espressione abr. S’à pijatë nu tórdë ‘si è ubriacato’ (letter. ‘si è preso un tordo’) la quale, inoltre, tarpa le ali ai linguisti che certamente considereranno nturtarsë ‘ubriacarsi’ una metafora tratta dall’altro signif. di ‘gonfiarsi d’acqua’.  Ad Aielli un tempo si diceva ‘n-turd-ac-àssë ‘ubriacarsi’ dove la radice mostra un ampliamento in –ac-. Ecco spiegato perché i seguaci di Dioniso in Grecia si munivano di thýrs-os ‘tirso’ nelle manifestazioni orgiastiche in onore del dio inventore della vite: la radice del termine, nella più remota antichità, si era evidentemente incontrata con la stessa radice delle precedenti espressioni abruzzesi legate all’idea di “ebbrezza”, oltre che a quella di “vite” e di “fallo”, simbolo di forza e fecondità, il quale in Grecia veniva portato in solenne processione, come è noto, nelle cosiddette falloforie in onore di Dioniso[20]. Anche il sardo logudorese un-turz-ire[21] ‘sentirsi male (dopo aver mangiato troppo?)’ deve essere spiegato con la radice in questione, checchè ne pensi Max Wagner[22], seguito da Massimo Pittau e altri che non trovano di meglio che legare comodamente il verbo al sardo unturzu (anche untuzu, untusu, inturzu, intruxu, ecc.) ‘avvoltoio, grifo’ (il quale pare vomiti il cibo di troppo ingurgitato, ma forse non perché si senta male: bisognerebbe chiederglielo!), come se le parole, che solitamente hanno un’origine che sprofonda nella notte dei tempi e una vocazione cosmopolita, nascessero e morissero nell’hortus conclusus di una regione ristretta!  Questi ragguardevolissimi linguisti dovrebbero, in effetti, spiegarmi perché anche in diverse parti del centro-meridione d’Italia (dove non si vede volare in cielo nessun rapace targato unturzu o inturzu) ‘n-turz significa anche ‘avere difficoltà di digestione (dopo aver mangiato troppo, evidentemente!)’[23] oltre che ‘andare di traverso, formarsi un groppo in gola’ ecc. Di certo la voce unturzu ‘avvoltoio’ si è incrociata col  verbo unturz-ire, ma da qui a legare lo strano verbo (strano, se non si conoscono le relative voci abruzzesi e campane) al rapace dagli occhi grifagni ce ne vuole, specialmente per me che, come ho mostrato più sopra ed altrove, sono certo della fallacia degli etimi di natura metaforica a tutto vantaggio di quelli diretti,  da cercare all’interno delle stesse parole, senza istituire similitudini di sorta.  La vicenda di questo ‘nturzare/unturzire mi pare inoltre confermare la naturale necessità di presupporre un latino anteriore a quello di Roma e del Lazio, che avrà plasmato e si sarà incrociato praticamente da sempre con le varie lingue di una vasta area mediterranea chiamata italide dall’Alinei e che va dall’Europa occidentale alla sponda orientale dell’Adriatico (Dalmazia).  Lo stesso Massimo Pittau, seguendo il REW,[24] commette un grave errore a mio parere quando collega la voce sarda (Orune) trutzu[25] ‘grosso’ al lat. tursus per thyrsus, sia pure in termini di probabilità. Non si è accorto che questo trutzu se ne sta nascosto anche sotto la superficie del verbo un-turz-ire di cui sopra, incrociatosi con unturzu ’avvoltoio’ che si prende il primo piano abbagliando gli studiosi: in effetti il concetto di “grosso” dell’aggettivo è quasi identico a quello di “gonfio, abbuffato, rimpinzato” (di qui potrebbe essere nato il significato generico di ‘provare un senso di oppressione, di imbarazzo, di malessere’ o di ‘sentirsi male’) che se ne sta però indisturbato dietro le quinte, come ho sopra spiegato e che secondo me risale alla forma trus- del lat. trud-ere (supino trusum) ‘spingere’.  Giusto è invece il collegamento col lat. tursus attuato anche dal Pittau per gli altri significati di sardo trutzu, e cioè ‘torsolo del cavolo, lattuga, ecc.’ e ‘fusto della ferula’.  La voce sarda tris-ioni ‘cima tenera delle piante', anch’essa giustamente collegata dal Pittau  con una forma ampliata del lat. tursus, si allinea con le varie componenti iniziali di triso-marino, tres-marino, ecc. sopra elencate.  Mi accorgo adesso che, per somma ironia della sorte, il Pittau sfiora l’etimo giusto per questi termini, sotto la voce intrùxiri, intruxìri ‘riempire, convincere, plagiare’ fatta da lui risalire, nel suo Nuovo Vocabolario, all’onnipresente intruxu ‘avvoltoio, grifone’ oppure al lat. in + trusus , partic. di trud-ere ‘spingere’, il quale è a mio parere l’etimo giusto da lui introdotto quasi a malincuore, per poter spiegare agevolmente, credo, i due signif. di ‘convincere’ e ‘plagiare’. Ma sotto la voce intruxai ‘mangiare fino a sazietà’ egli tira di nuovo dritto e rinvia il verbo al solito intruxu ‘avvoltoio’ che non è mai sazio… di prendere per il naso i linguisti. Voraci credo fossero tutti gli animali predatori che non ogni giorno potevano mangiare regolarmente, come volpi, martore, faine, altri rapaci, ecc. Il grifone si cibava prevalentemente di grandi carogne, le quali, quando si trovavano, gli venivano certamente contese da altri animali, compreso talvolta l’uomo, già prima che la carne cominciasse a putrefarsi. La sua fama di voracità insaziabile era stata a mio parere alimentata presso la gente soprattutto dal verbo unturzire ’sentirsi male’  e da sostantivi come untuzera[26] ‘abbuffata, voracità’ la cui radice andava a combaciare con forme del suo nome. Per il verbo intrussire (rifl.) ‘irrobustirsi’ (Orgosolo) egli rinvia, sia pure dubitativamente, al precedente intruxiri supponendo forse che il riempirsi o rimpinzarsi (di carne) da parte dell’uccello abbia prodotto il significato di ‘irrobustirsi’: ma c’è per questo una via più diretta che è quella indicata dal sardo truxu sopra citato, col significato di ‘grosso’, nonché i vari truss-udu ‘robusto, tarchiato’(Orgosolo), in-tross-iri ‘divenir tozzo, intozzare’[27], in-trusci-are ‘inturgidire, gonfiarsi’[28]. I verbi sardi introtzare, introtzire ‘rincalzare le coperte del letto’ vanno ricondotti, più che all’it. ant. torciare ‘torcere, piegare’ come vuole il Pittau, al significato di ‘introdurre a forza, inzeppare (tra il materasso e la rete, in questo caso)’ che questa radice trus, tros, spesso mostra di avere: si vadano a rivedere i vari significati che nel dialetto di Trasacco-Aq il verbo ‘ntërzà assume, oppure si rifletta sul sardo introtzu ‘sazio’[29], gemello con metatesi di trasaccano ‘nturzë ‘pieno zeppo’ sopra citato.  Buon ultimo arriva l’abr. ‘ntruzzà ‘far nodo, non andar giù (di cibo)’[30]: cfr. sardo trotzu ’groppo, grosso nodo, ammasso’. Mamma mia, che profluvio di varianti! E ciascuna di esse ne approfitta per accreditare un significato un po’ diverso da quello comune sotteso a tutte, facendo credere anche a linguisti di valore che la propria origine vada tenuta distinta da quella delle altre.  Questo succede perché secondo me una delle convinzioni più radicate nella mente dell’uomo, e generatasi anche inconsapevolmente dai significati dello strato superficiale di ogni lingua, è che l’uomo, creando il linguaggio, abbia trovato per ogni concetto o referente una radice diversa con un significato diverso fin dalle origini.  Errore fatale per ciò che concerne il significato profondo di ogni termine, il quale, se lo si esamina procedendo a ritroso, tende invece ad annullare sempre più le differenze intercorrenti tra sé e gli altri!
  Vorrei da ultimo far notare che in latino esisteva per rosmarino anche la locuzione ros maris ‘rugiada del mare’[31] o anche il semplice ros (Virgilio, Plinio). Il quale ultimo dovrebbe deporre a favore della inessenzialità del presunto aggettivo marinus nella designazione del referente.



Da La ginestra, o fiore del deserto                                                   E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce
                                                                                                                                      (Giovanni III,19)
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte                  
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor né fiore
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. […]
(G. Leopardi) 




[2] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998.

[3] Per le precedenti voci abruzzesi cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[4] Cfr. I dial. it., cit.  e il DELI (Dizionario etimologico della lingua italiana) di M. Cortelazzo-P. Zolli, Ed. Zanichelli Bologna 2005.
[5] Cfr. G. Devoto,  Dizionario etimologico, Felice Le Monnier, Firenze 1968.

[6] Cfr. nel mio blog il Toponimo Roma del giugno 2009.

[7] Cfr. M. Alinei, Origini delle lingue d’Europa, vol. I, il Mulino, Bologna 1996, p. 207 segg.; vol. II, p. 951 segg.

[8] Cfr. gr. os-mé ‘odore, fiuto’.

[9] Cfr. I dialetti it., cit. La radice potrebbe invece essere la stessa di lat. col-umna ‘colonna’, lat. ex-cell-ere ‘innalzarsi, sovrastare, eccellere’, lat. coll-em ‘colle’, ingl. hill ‘colle’.

[10] Cfr. G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006.

[11] Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2007.

[12] Cfr. U.Buzzelli- G.Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,  Avezzano 2002.  Il dialetto avezzanese si situa in una zona di demarcazione tra il dialetto marsicano-abruzzese propriamente detto e di tipo meridionale ad est e quello sabino-aquilano appartenente ai dialetti cosiddetti mediani, grosso modo ad ovest. La differenza più notevole tra di essi sta nel fatto che nel primo le vocali atone, soprattutto finali, tendono a scadere nella vocale indistinta ë-  mentre nell’altro si mantengono.

[13] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2002, sotto le rispettive voci.

[14] Cfr. G. Devoto, cit.

[15] Cfr. I dialetti it., cit.

[16]  A Rocca di Botte-Aq turzu vale ’fusto di alcune piante senza foglie’. Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?” , Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr. 1995


  18.  Il lat. trans-tru(m) ‘traversa, banco dei rematori’ più che da lat. trans, con cui si è incrociato, mi sembra partire da questo tars-, tras- col sign. di ‘fusto, tonco, trave’. I lat. ras-tru(m) ’rastrello’ e ros-trum ‘becco, muso, sperone’ che i linguisti si affrettano a collegare rispettivamente ai verbi lat. rad-ere ‘radere’ e rod-ere ‘rodere’, con cui si sono certamente incrociati, a mio parere possono venire direttamente dal *(t)ras-trum  che ha generato anche il trans-trum ‘traversa’ precedente e  da *(t)ros-trum, col signif. base di ‘punta’ : cfr. i rebbi del rastrello, nonché il suo lungo manico che si riaggancia all’idea di ‘fusto, palo’.

[19]  Nel dialetto di Nettuno-Rm  nturso vale ‘testardo, caparbio’, evidentemente attraverso la trafila di inzeppato> tenace > testardo. Cfr. sito www.nettunocittà.it/OPERE/una regina seduta sul mare/vocabolario nettunese.htm

[20]  La locuzione friulana pià la truse ‘prendere la sbornia’ contiene la voce truse ‘botta in testa’ considerata un deverbativo da friul. trusà ‘cozzare, dar di capo’ fatto derivare giustamente da un lat. parlato *trusare ‘urtare’(lat. trud-ere ‘spingere’) sicchè la locuzione verrebbe a significare propriamente ‘prendere una botta in testa’: qui i linguisti si fermano, paghi di questa spiegazione.  La voce è la stessa dell’abr. truzzà ‘urtare, cozzare’ secondo la trafila *trusà >turzà>truzzà. Senonchè  noi ormai sappiamo che questo significato deve cedere il passo a quello più diretto di ‘prendere  l’eccitazione (derivante dal vino)’ cioè semplicemente ‘ubriacarsi’.  Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998, s. v. trüsà.

[21] Cfr. I dialetti italiani, cit.

[22] Grande studioso tedesco del secolo scorso (1880-1962) noto soprattutto per il suo Dizionario Etimologico Sardo (DES).

[24]  REW è la sigla di Romisches etymologisches Wörterbuch  di W. Meyer-Lübke, Heidelberg 1935.  Solo ad un livello molto più profondo il significato di ‘spingere’ proprio di questi verbi potrebbe essere riannodato con quello profondo di lat. thyrsus ‘tirso, gambo’ che, come tutti i termini per ‘arbusto, rampollo, albero, ecc.’, attinge secondo me al significato di ‘spinta, escrescenza’ e simili. Ma questa è tutta un’altra storia, poco credibile per chi non ha la mia stessa visione linguistica. 

[25] Cfr. M. Pittau, Nuovo Vocabolario  della Lingua Sarda, Domus de Janas editore, Selargius-Ca  2013.

[27]  Il DES (Dizionario Etimologico Sardo) di Wagner riporta dubitativamente il verbo, per me in modo inspiegabile, all’it. ant. Intozzire.

[28]  Il significato di ‘inturgidire’ richiama quello di nturso ‘testardo, caparbio’ del dialetto di Nettuno-Rm, attraverso il significato intermedio di ‘rigido, duro, tenace’.

[30] Cfr. D. Bielli, cit.

[31]  La piantina odorosa volgarmente nota come timo greco ha il nome scientifico di Teucrium marum. Il suo nome italiano maro, che corrisponde a questo marum, viene dal gr. mâr-on, il quale potrebbe benissimo essere alla base del secondo nome di lat. ros maris ‘rugiada del mare’, per etimologia popolare.  La somiglianza di queste piantine è certa, come del resto si ricava dal termine gr. thýrsi-on ‘timo’ che ha la stessa radice di gr. thýrs-os ‘tirso’.  Dico questo per rassicurare il nostro bisogno di razionalità, anche se in effetti la razionalità con cui l’uomo delle origini poneva i nomi alle cose era molto meno circoscritta della nostra e travalicava abbondantemente le somiglianze dei referenti del regno vegetale, i quali erano sentiti inizialmente tutti simili, in quanto piante, grosse o piccole, odorose o meno che fossero. Infatti la voce thýrsi-on indicava anche la cuscuta, pianta parassita costituita da un intrigo di filamenti.
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venerdì 22 novembre 2013

"Povero in canna", espressione idiomatica che dà filo da torcere ai linguisti



           

    Dando una veloce scorsa alle proposte di interpretazione[1]  della nota espressione italiana si ha l’impressione  che, nonostante la preparazione degli studiosi che se ne sono occupati,  non si faccia altro che ciurlare nel manico  arrancando alla ricerca di una più o meno passabile soluzione del problema, quando non si incappa in vere e proprie amenità come quella di chi propone un riferimento alla famosa battaglia di Canne (216 a. C.).

Io sono convinto che, finchè si resterà sul piano sincronico su cui è adagiata l’espressione che sembra provenire al massimo dallo strato linguistico del latino, non si caverà un ragno dal buco, perché ben sovente le parole affondano le radici in strati remoti e remotissimi ben anteriori a quelli storicamente noti, per i quali naturalmente non esiste una documentazione  se non quella che possiamo ricavare dalle voci stesse che con la loro testa svettano nelle varie lingue e dialetti della superficie e con le loro radici, appunto, possono raggiungere strati linguistici lontanissimi da noi.   Se ci si ferma al concetto di “povero” e a quello di “canna” è vano, a mio parere, tentare una soluzione che sia molto diversa da quelle finora proposte.  Di esse la più razionalmente sostenibile mi sembra quella che fa riferimento ad un brano del Vangelo di Matteo (XXVII, 28-30) in cui, parlandosi di Gesù deriso nel pretorio dai soldati del governatore Pilato, si precisa: «Lo spogliarono e gli misero addosso un manto scarlatto; poi, intrecciata una corona di spine, gliela misero in capo, gli misero una canna nella destra e, piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano… gli toglievano la canna e gliela battevano sulla testa».  Ora, il fatto che questi soldati romani, tra i quali molti dovevano essere di origine italica[2], mettessero una canna nella mano del povero Cristo ridotto ad un corpo sanguinante può anche aver generato, come pensano alcuni, nella mente delle folle rievocanti la Passione di Cristo nel medioevo, l’immagine comune del povero in canna come simbolo di estrema  disgrazia e povertà.  Ma, secondo me, è più accettabile e verosimile la considerazione che quei soldati munirono Gesù di una canna perché forse nei dialetti italici che essi usavano era già nota quella espressione evocante estrema sventura e abiezione.  Epperò queste considerazioni lasciano sempre un residuo di perplessità, dato che se ne possono fare altre ugualmente accettabili, come quella, ad esempio, secondo cui la canna, in quanto simbolicamente simile ad uno scettro di comando, sarebbe il completamento, insieme alla corona di spine, della volontà sarcastica dei soldati di trasformare Gesù di Nazaret, autoproclamatosi re dei Giudei, in una caricatura risibile e spregevole della figura regale.

Ora, nel dialetto di Manfredonia-Fg , ma anche in diverse altre località della Puglia, si incontra l’espressione nganna mérë ‘in riva al mare, sulla battigia’[3].  La locuzione prepositiva nganna < *in  canna , a volte raddoppiata, significa anche ‘al limite, all’ultimo istante’  oltre che, come abbiamo visto, ‘vicino, presso, a ridosso, al bordo, vicinissimo’ con applicazione sia al tempo che allo spazio, come avviene normalmente in molte lingue per i complementi di tempo assimilati a quelli di spazio.  Di conseguenza, proprio il concetto di “limite, punto estremo, orlo, termine, bordo” si colloca alla perfezione accanto alla parola povero  dell’espressione idiomatica in questione, significando questa esattamente ‘poverissimo’ e cioè ‘povero al massimo grado’ o  ‘povero al limite estremo’.    Così quello che sembrava un mistero impenetrabile, tanto che ha spinto gli esegeti a formulare le ipotesi più varie scomodando battaglie e fatti storici importanti,  finisce col rivelare alla fine la sua banale normalità.  In questi casi spessissimo la soluzione si trova, infatti, non allontanadosi dalla espressione nella sua nudità e concretezza, ma scavando sotto la superficie delle sue parole e cercando di raggiungerne lo strato più profondo.  E’ quindi solo questione di metodo se io, innamorato delle parole (benchè nella vita ne sia piuttosto parco), ho trovato quella che a me pare la verità mentre i linguisti che spesso hanno anche una cultura e preparazione teorica superiore alla mia (lo dico senza piaggeria e senza nessuna intenzione denigratoria) arrancano con difficoltà alla sua ricerca.  Le parole sottotraccia, come le ho chiamate in altro articolo[4], sono quelle che ingannano di più gli studiosi, perché esse se ne stanno ben nascoste dietro la sfavillante livrea che sfoggiano in superficie, il cui stemma rimanda però a tutt’altra famiglia rispetto a quella cui esse in realtà appartengono.  Gli incroci di termini, poi, sono sempre lì pronti ad agitare e confondere le acque, e, se non si è forniti di questi semplici strumenti chiarificatori, si rischia di annegare senza speranza di salvarsi.  

Ora, diradatasi la fitta nebbia che avvolgeva il significato di ngànna ‘assai, molto’ oppure ‘presso, vicino, al bordo’ possiamo cercare di darne un etimo acconcio.  Ci può guidare ancora il concetto di “limite, orlo, bordo” in questa operazione che, a mio avviso, ci porta dritti dritti verso l’avverbio e preposizione it. accanto < a canto che significa proprio ‘a fianco, a lato’ e che evoca quindi l’idea di “margine, bordo, vicinanza”.   Solo che in questo caso l’avverbio ha il prefisso in  al posto di a < ad, prefisso che avrà prodotto prima una forma dialettale *ngàndë ‘accanto’ che poi sarà stata attratta, per analogia o etimologia popolare, dall’espressione più nota e molto più diffusa in Italia, più chiara al parlante anche nell’etimo, ngànna ‘in canna’ cioè ‘in gola’ che può significare, più genericamente, anche ‘nel (sul) collo’ nel senso, quindi, di ‘addosso, presso, vicino’.  L’it. canto ‘lato, fianco’  richiama il lat. canth-u(m) ‘cerchione di ruota’ dal gr. kanth-ós ‘cerchione di ruota, angolo dell’occhio’ ed ha molti riscontri nelle lingue celto-germaniche.  

Come ultima realistica ipotesi penserei che in canna potrebbe essere un latino volgare *in cannam e significare semplicemente ‘fino al collo’, variante di usque in cannam ‘fino al collo’.  Si pensi all’espressione italiana essere nei guai fino al collo.  L’espressione povero fino al collo, sebbene oggi non usata, ha tutti i crismi per esserlo stata in un remoto passato.


«…Or puoi, figliol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa;
            ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una».
            «Maestro mio», diss’io, «or mi di’ anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
            E quelli a me:«Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche… »
(Dante, Inf. VII, 61-72)
           



[1] Cfr. C. Lapucci, Modi di dire della lingua italiana, Edizione CDE spa, Milano 1986.

[2]  Secondo la tradizione popolare i soldati che inchiodarono Cristo alla croce provenivano dall’odierno paese di Collarmele nella Marsica (anticamente Cerfennia)  chiamati spregevolmente nchiova-Cristë, cioè ‘inchioda-Cristo’.

[4] Cfr.  l’articolo del luglio 2013 del mio blog: Incredibile ma vero: nelle lingue le parole sottotraccia non sono una rarità!