martedì 25 dicembre 2012

Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.


Questo testo è stato da me recuperato dopo averlo sbadatamente eliminato dalla sua collocazione nel mese di novembre   


Le Fate del precedente post, con il delicato  riflesso dei loro fili argentei, mi hanno fascinosamente incantato ed attratto nel mondo mitico e primordiale dell’agricoltura abitato da tante altre splendide figure, protagoniste di vicende belle e tristi nello stesso tempo, come bella e triste è  spesso la vita. 
Credo che tutti conoscano il mito di Proserpina (anche se, in tempi di economicismo dilagante e di conseguente arretramento della cultura classica la quale certo non sembra possa mai arrivare ad influenzare le Borse, questo può essere solo un pio desiderio), la giovane chiamata anche Libera e grecamente Kore, la bella figlia di Cerere, la dea della natura e in particolare delle messi, prima verdeggianti e poi bionde, le quali, si sa, hanno tratto da essa il nome di cereali, vivo e vegeto ancora ai nostri tempi.
 Proserpina un giorno coglieva lieta fiori variopinti nell’amena terra di Enna in Sicilia, presso il lago di Pergo, quando improvvisamente dal suolo emerse Plutone, dio dell’Ade, che rapì, tra le grida, la fanciulla caricandola sul suo carro splendente e portandola con sé per farne la regina dell’Averno.  Grande fu lo strazio della madre Cerere che ebbe pace solo quando ottenne da Giove che la figlia permanesse un terzo dell’anno negli Inferi e gli altri due terzi li passasse sulla terra.
Linguisticamente l’appellativo di Libera è certamente problematico, a tal punto che né gli antichi né i moderni credo ne abbiano dato una interpretazione perlomeno sostenibile, a meno che non lo si intenda come legato al presunto etimo del nome del suo compagno Libero, antico dio italico dell’agricoltura, figlio di Cerere anch’esso, identificato poi con Bacco, il Dioniso dei Greci.  In questo caso l’epiteto di Libero potrebbe essere giustificato dal fatto che il vino, sua invenzione, dona all’uomo ebbrezza e libertà di comportamento, ma questa spiegazione lascia sempre un certo retrogusto di insoddisfazione, data la sua banalità.  Le tre divinità della fertilità, che in qualche modo si contrapponevano alla triade capitolina, ebbero fin dagli inizi una connotazione campagnola e plebea, e un grande tempio sull’Aventino (496 a.C.) su prescrizione dei Libri Sibillini.
 I Liberalia nell’antica Roma erano una festività che si teneva il 17 marzo in onore di Libero e Libera, in cui la cerimonia più importante era quella che segnava il passaggio, da parte dei ragazzi, dall’età della fanciullezza a quella della pubertàe della maturità, quando essi indossavano la toga virile simbolo dell’avvenuto ingresso nella società civile dei grandi.  Il fatto di essere pubere o impubere era talmente importante per l’adolescente che il pater familias, almeno nei tempi più antichi, procedeva ad una diretta inspectio corporis ‘esame fisico’ per accertarsi della presenza nel suo corpo dei segni esteriori della maturità.  Ora, a me pare di scorgere un sottile ma tenace filo di collegamento tra il nome di Libero e quello latino di libero(s) ‘figli’, in quanto questa divinità era protettrice non solo dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento (frutti e animali) ma anche di quelli umani, come i figli appunto.  Pertanto sono incline a cercare per il lat. libero(s) un etimo senz’altro diverso da quello solito, dato per scontato sia dagli antichi che dai moderni: i libero(s) ‘figli’ costituirebbero, a detta degli studiosi, la parte “libera” della famiglia che si contrapponeva ai servi ‘schiavi’.  A voler essere pignoli, però, anche i genitori dei figli “liberi” erano parte libera della famiglia ma senza avere quella denominazione. A nessuno è venuto mai in mente, poi, la considerazione (visto che le parole raramente nascono per indicare i concetti di cui si caricano solo nella loro lunga storia, come ho ribadito più e più volte) che probabilmente i figli degli schiavi non poterono continuare a fregiarsi (da quando?) dello stesso nome di libero(s), che precedentemente forse avevano anche loro, solo a partire da una certa data in poi (da quando?) nella lunga storia di un popolo e della sua lingua: se fosse rimasto infatti quel nome anche per loro, si sarebbe verificata una brutale contraddizione in termini, data l’esistenza in latino (da quando?) dell’aggettivo parallelo libero(s)‘liberi’ a cui inevitabilmente sarebbe stata connessa la parola: ma essi erano di fatto schiavi perché figli di schiavi!
 Ora, se gli antichi non avevano gli strumenti per sventare le insidie e le trappole messe in opera, per così dire, dalla Lingua stessa, per i moderni non è bello schermirsi dietro la medesima attenuante.  In effetti in questo caso la parola dovette subire il solito processo di specializzazione che restringeva il suo significato, precedentemente più ampio, ai soli figli degli uomini liberi.  La parola poteva, infatti, anche provenire da epoche primitive in cui non esisteva ancora l’istituto della schiavitù, o poteva essere un prestito antico da una comunità limitrofa a quella latina in cui non esisteva, magari, l’aggettivo latino liberu(m) ’libero’ con cui essa fu costretta a fare i conti solo dopo l’ingresso nella nuova comunità di parlanti, per continuare a vivere  senza creare contraddizioni. Il suo uso storicamente attestato, infatti, che includeva anche i ‘piccoli degli animali’, è già un forte indizio in tal senso. E dobbiamo sempre ricordarci che ogni lingua non è mai il risultato di un’operazione svoltasi in uno stesso luogo e in uno stesso torno di tempo: anzi, usando un’espressione non tecnica ma che rende bene l’idea, si può senz’altro asserire che non c’è istituzione umana più bastarda di quella rappresentata dalla Lingua che, fin dalle origini, fu il punto d’incontro di rivoli innumerevoli provenienti da ogni direzione, checchè ci possa suggerire il cieco orgoglio umano che tende sempre a innalzare muri divisori tra gruppo e gruppo, popolo e popolo, razza e razza. Ma vogliamo renderci conto una volta per tutte che persino con gli scimpanzè condividiamo il 99% del patrimonio genetico[1], e che è finito il tempo in cui i preti di campagna, e non solo, allibivano inorriditi alla sola idea della possibilità della derivazione dell’uomo da un antenato comune con le scimmie?
 Ora, quello che secondo me dà il colpo di grazia alla vecchia etimologia di libero(s)sono alcune voci dei dialetti abruzzesi come il cerchiese lìvërë dë tumènda , con la variante làvërë, [2]‘batuffolo di stoppa (tumènda)’, trasaccano jìvië [3] ‘stoppa filata e raffinata, pronta per la tessitura’, da *livëlë con palatalizzazione della laterale –l-, come attestano i vari abr. lìvelelévulelèvïe [4], varianti della forma cerchiese per alternanzar/l,  dai significati uguali o simili ai precedenti. A questi va aggiunto, secondo me, il sardo logud. lèppere che significa ‘lepre’ ma anche ‘pube’ ( lat. pubem ‘peli’) la cui radice rispunta, a mio avviso, nel campidanese lepp-erangiòlu ’ragnatela’[5]. Quello che a me sembra una naturale ma linguisticamente importante, oltre che stupenda, conseguenza è presto detta.  Il dio italico Liber ’Libero’, infatti, non può che essere l’ipostatizzazione del concetto di “filo, stelo, erba, grano, crescita, ecc.”  espresso da questa radice, e di quant’altro possa rientrare in esso, compresi i cuccioli degli animali e degli uomini (liberos): in altri post ho puntato l’attenzione proprio sul ricorrente rapporto, nelle lingue, tra il concetto  di ‘pollone, piantina’ e quello di ‘cucciolo, figlio’. Lo stesso fatto che Libero e Libera erano considerati figli di Cerere sta ad indicare, a mio avviso, che questi nomi avevano tra i significati originari anche quelli di ‘figlio’ e ‘figlia’. Un’altra bellissima conseguenza scaturisce dalle considerazioni precedenti: i termini dialettali laòre, laùre, lavùre, labòreliòriecc. ‘cereali, grano, frumento, ecc.’, diffusi soprattutto in Sardegna ma anche in alcune zone del Meridione d’Italia, sono la fotocopia dei cerchiesi làvërë e livërë ‘batuffolo (di stoppa)’ in quanto ‘insieme di fili’.  Tutti i linguisti, compreso il grande G. Rohlfs, non hanno potuto fare altro che rimandare, per queste voci, al lat. labore(m) ‘lavoro’, termine con cui certamente è avvenuto l’incrocio, che ha causato lo spostamento  in avanti del loro accento tonico ed aggiunto all’antico e prioritario significato di ‘stelo, peluria (del grano appena spuntato), filo, erba, cereali, messi’ quelli di ‘aratura, seminagione, ecc.’ attualmente compresenti in genere con l’altro[6]. La forma originaria della voce laòre non doveva essere diversa da quella del lat. lauru(m)‘alloro’ che è pur sempre una “pianta”, concetto in cui rientra quello di “escrescenza, vegetazione, erba”. L’espressione latina vite(m) labr-usca(m), lambr-usca(m)‘lambrusca’ (rum. leur-usca) o simili (non possiamo credere che ci sia arrivato tutto il patrimonio lessicale del passato!) può spiegare il passaggio del dio Libero, da protettore generico  di ogni forma di vegetazione e di vita, a dio specifico della vite e del vino.  Anche per il toponimo storico-geografico di Terra di Lavoro, una parte della Campania felix, così chiamata per l’abbondanza dei prodotti agricoli, bisogna pensare ad un’etimologia consona al suo simbolo costituito da cornucopie stracolme di frutti dei campi.  In antico era nota come Leboriae[7], parola molto vicina a quella di Libero, dio della fecondità.  Ma non bisogna scartare nemmeno l’ipotesi che all’origine il nome si riferisse alla caratteristica geomorfica del terreno pianeggiante e che pertanto esso potesse richiamare il gr.leur-ós ‘ampio, disteso, libero’.  Aggiungerei a queste parole il siciliano laur-india ‘granturco’[8] e il sardo gallurese lara di ragnu ‘ragnatela’  il cui primo termine lara significa, sempre in gallurese, ‘velo trasparente’ e deve provenire da una forma *laura o *labra  strettamente legata alle forme citate laòre, laùre, ecc. per ‘cereali’, al cerchiese lavërë ‘batuffolo di stoppa’ e quindi ai significati di ‘steli, fili, insieme di fili, tessuto’.  In effetti anche gallurese laru vale ‘lauro, alloro’.
 La lingua sarda non è in fondo così lontana dai nostri dialetti come l’apparenza indurrebbe a credere.  Ricordo che quando sentivo i Sardi parlare nel loro idioma del Sarrabus, a Villaputzu-Ca dove molto tempo fa ho insegnato per un paio d’anni, oltre a restarne affascinato, data la mia naturale attrazione per ogni loquela, mi sembrava nel contempo di essere caduto nel bel mezzo di un popolo barbaro, dagli accenti molto lontani dai miei.  Poi, pian piano mi resi conto che in effetti molte loro parole non mi erano così estranee perché di ascendenza latina o greca.  Il sardo logud. e nuor. livrìa ‘ragazzaglia, bambinaglia’ conferma il significato di ‘bambino, ragazzo, rampollo’ della radice.
E’ quasi incredibile ma, a mio parere, i fatti stanno lì a dimostrare che i termini con cui veniva indicata la toga virile stessa alludono tutti al concetto di ‘peluria’ (quella del pube e della prima barba) al di là dei significati di superficie.  La toga libera, infatti, che inviterebbe a trovare un etimo ruotante intorno al concetto di “libertà” [9], non può invece che riferirsi, per quello che abbiamo detto più sopra sul dio Libero, all’età della pubescenza, cioè dell’apparizione dei primi peli nel ragazzo.  La toga pura non è la toga priva degli ornamenti della pretesta (la toga che portavano i fanciulli ornata da un bordo rosso) ma di nuovo una toga alludente alla pubescenza se si tiene presente l’ingl. fur ‘peluria, pelliccia’ e l’aiellese, cerchiese pirë ‘pelo’ che, è vero, potrebbe rientrare nel gioco dell’alternanza r/l, alternanza che però va spessissimo risolta, a mio avviso, nel senso di una diversità originaria delle due forme[10].  Ancora più incredibile, ma per me veritiera (dati questi precedenti), la considerazione che la stessa denominazione di toga virile  non debba trarre origine dal suo indicare  l’ingresso dei ragazzi nel mondo degli adulti (da lat. virum ’uomo fatto’) ma sempre dal fatto più concreto e diretto che essi entrano nella pubertà: cfr. ingl. wire ‘filo metallico’, specializzazione di un significato più generico come mostra il termine plumb wire ‘filo a piombo’ e il composto wire-haired  ‘a pelo ruvido’ detto del fox terrier, in cui si ha comunque già una specializzazione del significato, forse dovuta all’influsso di quello di wire ‘filo metallico’.  L’it.birillo deve avere un qualche rapporto con la radice in questione, come certamente le varianti abr. pire piolo, grosso bastone’, pir-òle[11] ‘cavicchietto per tendere le corde del violino’, it.pir-one ‘cavicchio, perno’, friul.pìre[12]‘farro piccolo’, sloveno pira, pir [13]‘farro piccolo’, gr. pyr-ós ‘grano, fru-mento’[14].  Del resto anche il signif. di lat. viru(m) ‘uomo forte, uomo fatto, adulto’ poco risponderebbe alla realtà di adolescenti, anche se non più imberbi, tra i 14 e i 18 anni che prendevano la toga virile, benchè in effetti con questa cerimonia entrassero nella categoria degli uomini.
Libera, l’altro nome di Proserpina o Kore, per la quale ultima rimando al post Le Procaristeriedell’ottobre 2009,   era dunque uno dei diversi nomi che dovevano indicare la divinità femminile del rigoglio della Natura a primavera come ad esempio la stessa Cerere.  L’etimo di Proserpina mi sembra scontato se il lat. pro-serp-ere indica anche lo ‘spuntare, germogliare’ dei vegetali, oltre allo ‘strisciare avanzando’.  Quello di Cer-ere, allotropo di Kore, di cui parlo sempre nel post citato, è da ricondurre a forme simili al gr. kór-os, con varianti, che significa oltre a ‘fanciullo’ anche ‘rampollo, stelo, giunco’ secondo la ratiodi cui abbiamo parlato.   Nei dialetti centro meridionali la carus-ella (cfr. lat. Ceres‘Cerere’) è un tipo di grano con scarse ariste, il che ci potrebbe fuorviare nella individuazione del suo giusto etimo, a causa dell’incrocio col dialettale carus-are ‘rapare a zero, tosare (le pecore)’.  Ma l’it. carosella ‘finocchiella’ ci riporta sulla retta strada e ci dice che questi significati sono solo una specializzazione di quello più generico a monte che li comprende tutti, specializzazione che confonde le nostre menti, se non sono diventate immuni a simili inganni di prospettiva.  Le voci dialettali centromeridionali come trasaccano carusë[15] ‘ragazzo con la testa rasata’ ma anche ‘cavalluccio, somarello matto’ , abr. carósë [16]‘tosatura di capelli’ ma anche ‘puledra’, siciliano carusu ‘ragazzo, fanciullo’, voci che in diversi dialetti ritengono, appunto, anche il sign. di ‘puledro’, non possono essere associate al diffusisssimo verbo carus-are di cui ho parlato sopra.  Si tratta della solita sovrapposizione di termini che non può assolutamente guastare il meraviglioso armonico rapporto tra il concetto di ‘filo, grano’ e quelli di ‘puledro, cucciolo di animale’ e di ‘cucciolo umano, figlio, ragazzo’ espressi tutti dalla stessa radice car-us-.  Anche i termini come it. cors-iere (cavallo da corsa e da combattimento), ingl. horse ‘cavallo’, a. frisone hars’cavallo’,  ted. Ross ‘destriero’ e persino l’aggettivo dell’espressione cane corso[17] appartengono a questa famiglia, diversamente da come pensano tutti i linguisti che ne additano soddisfatti come etimo, per il sign. di ‘cavallo’, la radice del verbo lat.curr-ere ‘correre’.  Insopportabile! perché non si accorgono di essere caduti nella trappola della individuazione di un etimo in base alla sua indicazione di funzioni del referente  più o meno marginali.
Liberalia, in base a quanto siamo venuti osservando, si rivelano quindi come una delle tante feste della Primavera che con nomi diversi erano celebrate presso tutti i popoli antichi, presso ogni grande o piccola comunità agreste; feste che dovevano rinsaldare il vincolo tra tutti i viventi, vegetali, animali e uomini, anch’essi parte del gran concerto della Natura, e che qui, nei Liberalia, con le cerimonie centrali che sottolineavano con gioia la realtà dei ragazzi divenuti puberi[18], si sentivano partecipi della stessa sorte dei teneri fili del grano in erba che  assicurava loro la sopravvivenza per il presente, attraverso il successivo raccolto delle messi, mentre la persistenza del loro nome nel futuro veniva garantita dai propri rampolli divenuti, con la raggiunta pubertà, uomini a tutti gli effetti.
Beate le antiche età, soprattutto quelle più remote! in cui gli uomini avvertivano profondamente  (perché era la lingua stessa che usavano e che non aveva ancora completamente coperto i significati originari delle parole a dichiararlo) di essere integrati in una vasta rete di rapporti che teneva insieme divinità, uomini, animali, vegetazione fino all’ultimo filo d’erba, e anche territorio, conosciuto a menadito e sotto la protezione delle divinità locali, piccole e grandi, che popolavano i monti, le valli e le fonti, rete che permetteva loro di superare le difficoltà della vita, che pure erano tante, con uno stato d’animo forse più pacato e virilmente fiducioso, perché le loro radici erano saldamente immerse nel grembo della Terra Madre che respirava all’unisono con i loro cuori. Ebbene la Lingua, come abbiamo visto, ha registrato e trasmesso stupendamente fino a noi questa ancestrale e armoniosa visione animistica della realtà.  Di animismo in generale avevamo già letto e sentito parlare da parte degli studiosi, ma davvero straordinario e sorprendente è riscontrarlo di mito in mito, di parola in parola, magari  in quelle dei nostri dialetti.
La mia fanciullezza e adolescenza si è svolta tutta entro un quadro del genere: contadini al lavoro nei campi, molti animali nelle stalle o sparsi nella campagna e nei pascoli, stradine e sentieri dove, mentre seguivo la mia asina Carmela che procedeva lenta, ritornando al paese che si stagliava severo in lontananza come in una tela di un macchiaiolo dell’Ottocento, sotto il peso di qualche sacco di patate o quello di un certo numero di manóppjë di grano o di tórzë[19] di frasche, improvvisamente poteva spuntare strisciando, facendomi lì per lì rabbrividire, un lungo pasturavàcchë dalla pelle striata, o frullare via dalle siepi una frattaròla o una cràstëla, tra lo stormire ora piano e appena avvertibile, ora più franco e sonoro, delle foglie dei pioppi, degli olmi, dei cerri sulle cui cime andava spesso a posarsi il volo bianco e nero di una ciciaccòva[20]. Le antiche divinità agresti erano, è vero, scomparse da gran tempo, non c’era più nemmeno un’ombra di possibilità di scorgere, oltre il recinto d’un orto, la rude immagine lignea di Priàpo lascivo o quella più gentile di Pomona dalle forme abbondanti: esse avevano lasciato il posto a qualche malandato e improbabile spaventapasseri, a streghe e stregoni, ad esseri non meglio identificati che, soprattutto di notte e in punti determinati, potevano far sentire la loro presenza, più spesso paurosa e malefica che benefica. 
Ora, con la modernità  che ha portato con sé una rivoluzione epocale a cui può stare a fronte solo l’invenzione dell’agricoltura (guarda caso!) avvenuta dieci-quindicimila anni fa nella Mezzaluna Fertile del vicino Oriente che però non scombussolò totalmente il rapporto uomo-natura rispetto alla precedente società di cacciatori e raccoglitori, circolano vetture per le strade ma quasi più nessuno circola nelle campagne abbandonate e nemmeno in paese, divenuto sempre più vuoto di uomini ed animali, soprattutto nei lunghi mesi invernali.  L’ultimo straziante raglio dell’ultimo asino, l’ho udito un paio d’anni fa.  Ha vinto la modernità rombante, incontenibile, chiassosa, metropolitana che sa di fabbriche, macchine, velocità, telefonini, tutte cose che possono essere buone, per carità, e spesso lo sono, ma che forse in cambio chiedono troppo, il respiro e l’anima dell’uomo, una volta laceratasi quella rete che lo teneva in stretta simbiosi con la Natura dal ritmo lento, ampio, serenatore e solenne.
Con il cuore gonfio di questi umori un po’ nostalgici, ma soprattutto dolenti, insofferenti e ribelli, scrissi già molti anni or sono questa poesia dedicata allo sfortunato poeta russo Esenin e a tutti quelli cui come a lui “morire non è nuovo sotto il sole, ma più nuovo non è nemmeno vivere”.

                                             A Sergio Esenin


                         O Sergio Esenin, qualcuno si sfama
                         col tuo pane impastato di rancore
                         e dei versi le rosse bacche serba
                         dentro un bianco cofano di cristallo;
                         e spremerà la loro asprigna polpa
                         per un decotto soltanto a lui noto
                         che caccerà dall’anima il catarro
                         accumulato da un selvaggio vento
                         che lacera la vita come panno.

                         O Sergio Esenin, tu non fosti l’ultimo
                         poeta contadino!  Se mi versi
                         nel bicchiere un po’ di vino, che scaldi
                         il petto come sole meridiano,
                         sentirai un rozzo canto campagnolo 
                         odoroso di menta e di reseda
                         celebrare la tua celeste Russia
                         di betulle, di aceri e di capanne
                         che so d’amare quanto la mia terra.

                          Insieme noi a raccolta chiameremo
                          le poche mucche al pascolo nei prati
                          che subito al richiamo accorreranno
                          e nelle nostre mani carezzanti
                          la bava, tra i muggiti, coleranno
                          del dolore: chiederanno giustizia
                          per l’aratro schernito dal trattore,
                          per i piccoli sottratti alle poppe
                          dalla mano impietosa del mercante.

                          Insieme noi a raccolta chiameremo
                          ancora i radi branchi di cavalli
                          nascosti nelle valli in mezzo ai monti
                          che lugubre un rimbombo ululeranno
                          di tamburi ossessionanti, battuti
                          dai batacchi di piedi tempestanti:
                          dalle loro acquose pupille nere
                          berremo tutta la disperazione
                          di quella razza fiera in estinzione.

                           Insieme noi a raccolta chiameremo
                           ancora i pochi greggi latitanti
                           e dalle loro bocche ascolteremo
                           la triste nenia che li tiene in vita;
                           usciranno anche i porci dalle stalle
                           scardinando la porta che li chiude;
                           i somari, annusata la rivolta,
                           coi denti spezzeranno la cavezza
                           e il giorno tremerà del loro grido!

                           Insieme tutti quanti marceremo
                           lungo le larghe strade nazionali,
                           saremo cento, mille e più di mille
                           nessuno ormai fermare ci potrà;
                           gli artigli adunchi di feroci galli
                           a chi s’oppone caveranno gli occhi,
                           tra la maciulla delle nostre zampe
                           stritoleremo la città di ferro
                           nemica della nostra umanità.

                           O Sergio Esenin, più non moriremo!


Sono certo che tra il discreto numero di persone che leggono questi miei post, c’è qualche linguista di professione. Mi farebbe molto piacere sentirne il parere,  di qualunque tenore esso fosse, specie su quest’ultimo post, ma non credo che ciò succederà mai.  In Italia purtroppo per essere non dico riconosciuto e apprezzato (se del caso), ma semplicemente per essere ascoltato (e credo di averne acquisito almeno il diritto, con la mia dedizione senza limiti alle parole, che dura da diversi decenni e che, a mio parere, ha ottenuto risultati non trascurabili) bisogna che qualcuno ti appiccichi una coccarda sul cappello e ti includa in questa o quella consorteria accademica di cui dovrai adottare i vezzi, i pregiudizi, i tecnicismi e persino un certo modo di scrivere, altrimenti  nessuno ti degnerà di uno sguardo.  E pensare che ringrazierei molto anche chi avesse un’idea opposta alla mia e stroncasse, con argomenti credibili, i miei articoli. Too bad!!!
                                             






[1] L’80% lo condividiamo con un verme di 1 mm, il Caenorhabditis elegans, e il 50% con la comune banana. Il che significa che la Vita è paragonabile ad una sorta di piramide il cui apice è rappresentato dall’uomo. La metafora, però, è in certo senso fuorviante perché induce a pensare che la Vita sia stata un processo lineare che ha condotto direttamente all’uomo, quando invece si è avuta una evoluzione estremamente incerta, casuale, imprevedibile. Naturalmente non voglio assolutamente liquidare, con due parole, la questione della spiritualità dell’uomo che richiede ben altre riflessioni e considerazioni che potrebbero, almeno in linea teorica, anche aprire la porta a dimensioni diverse da quelle del cosiddetto riduzionismo biologico.
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[2] Cfr. F. Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, Museo civico di Cerchio-Aq, anno VII 2004, Quaderno 57, sub voce.  

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P,  Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, s.v.

[4] Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio 2004, s.v.  Alla base di questi termini deve porsi qualche variante con labiale sonora della voce cerchiese lippë‘filo, pelo’, trasaccano lippë ‘filo d’erba o qualsiasi coltura dallo stelo esile’, trasaccano leppa ‘filo minuto d’erba o di paglia;  stecchi che restano attaccati alla fibra della canapa, dopo la gramolatura’ oltre che ‘striscia di carta o di stoffa; stringa’; fr. livrée ‘pelame, piumaggio, lanugine (di certi animali)’ oltre che ‘livrea’: quest’ultimo significato deve essere specializzazione di uno precedente di ‘pellicia, mantello, toga, abito’, con movimento inverso rispetto a quello sotteso al suo etimo corrente che parte dal supposto significato originario di ‘(divisa) consegnata (alla servitù)’, dal p.pass. del verbo livrer ‘consegnare’. Le parole sono sempre in cerca di specializzazioni e, appena possono, cambiano significato.  Segue ancora tras. leppë ‘bordo, piega degli abiti, orlo’, in altri termini una specializzazione del prec. leppa, varianti di tras. lappë ‘piega che forma il bordo degli abiti, orlo’. E’ inevitabile il confronto con l’ingl. lap ‘falda, lembo ripieghevole’, ingl. lip ‘labbro, orlo, bordo’, ted. Lappen ‘pannicello, cencio, straccio’. Queste parole dialettali mi sembrano di stampo germanico con il gioco dell’apofonia tipico di quelle lingue.  Ma anche qui, più che di apofonia, io parlerei di varianti originarie esistenti prima indipendentemente, e poi avvicinatesi a dar vita a quei rapporti che solo in apparenza sembrano generati dall’apofonia, cioè dalla presunta trasformazione del suono della vocale radicale. Naturalmente non si può credere che le voci trasaccane siano state portate da qualche ondata di invasori germanici nel medioevo. Esse vivevano sul nostro suolo marsicano da tempi remotissimi come dimostrano i significati interdipendenti di ‘filo d’erba o paglia, stringa, striscia di carta o di stoffa’ di tras. leppa,  dei quali quello di ‘striscia’ si è già avviato a diventare ‘falda, bordo, piega’. Anche l’it. lippa, gioco i cui strumenti essenziali sono due bastoni, uno più piccolo e appuntito alle due estremità, non può che essere un derivato di questa radice col valore generico di ‘stelo’ e quindi di ‘bastone, mazza’.

[5]  Ricorrono, sempre in campidanese, le forme lappa de arrangiolu (lat. araneolum ‘ragnetto’) ‘ragnatela’ o semplicemente lappa ‘ragnatela’. Mi pare incontestabile che queste radici sono le stesse di quelle abruzzesi elencate nella nota precedente nel loro valore essenziale di ‘stelo, filo’.  Per campid. lepp-erangiòlu si può legittimamente supporre una forma lepper-angiòlu, proveniente per semplificazione (aplologia) da un precedente *lepper-arangiòlu

[6]Adesso, col senno di poi, constatiamo che i Sardi, con l’arrivo dei Romani, mai dismisero l’uso di questi antichissimi nomi di cereali (laòre, liòri) con l’intenzione di sostituirlo con un termine latino, labore(m) ‘lavoro’, che con essi aveva solo un piuttosto vago rapporto.

[7] Plinio, Nat. Hist., XVIII, 11.

[8] Cfr. M.Cortelazzo-C.Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998. Le varianti ivi riportate laurìnnia, raudìnnia, raudìndia, piuttosto che confermare l’ipotesi da nessuno messa in discussione che l’etimo di queste voci sarebbe ‘grano d’India’, mi spingono a pensare che doveva esistere, precedentemnte, una forma *laurinja, normale svolgimento di laurino, forma aggettivale riferita non ad un tipo di grano ma ad un arbusto detto erba laurina.  Ora è molto facile che un possibile tipo lessicale *laurinja, laurinnja riferito al ‘grano’, sotto la spinta dell’esigenza di dare un nome a nuove granaglie provenienti dall’estero, desse vita, per etimologia popolare, ad una forma come la citata laur-india, specializzazione per ‘granturco’. Lo stesso fenomeno potrebbe essersi verificato per il termine dindo ‘tacchino’ e simili, animale importato dal Nord-America.  Il fatto è che il termine sembra derivare dall’espressione gallo d’India, già usata però per indicare la ‘gallina faraona’, nota ab antiquo.  E’ presumibile, quindi, che si siano avute, a partire dalla voce gallina, forme come *gallinja, *gallinnja, *gallindia propedeutiche all’interpretazione gallo d’India, che ha dato vita alle abbreviazioni dialettali dindo, dindio, ecc. Nel dialetto di Gallicchio-Pz (cfr. relativo sito web) la voce fichëlìnë ‘fico d’India’, che formalmente è solo un doppio diminutivo di fico (cfr. dimin. lat. ficulam ‘piccolo fico’), si è trasformata in un aperto ‘fico d’India’, appunto: la trasformazione di significato non è stata qui sufficiente a modificare il diminutivo di partenza fichëlinë in fichëlìnjë e poi fichëlindië per adattarlo al nuovo significato.

[9]  Ovidio stesso (Fasti, III, 771 ss.) si chiede perché la toga libera si riceveva il 17 marzo, giorno sacro a Libero. Le sue varie risposte non potevano non ruotare intorno ai valori saputi di lat. liberu(m) ‘libero’.  Ma anche gli studiosi moderni, dopo alcuni secoli di studi linguistici, a quelle domande non sanno dare una risposta fondamentalmente diversa da quelle di Ovidio, anzi taluni sono rassegnati alla impossibilità di trovare una spiegazione valida al problema, come D. Sabbatucci il quale sostiene: «Naturalmente sono domande destinate a restare senza risposta, o si risponde ad esse con vaghe congetture» (cfr. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, p. 104).  Tutto ciò significa, a mio avviso, che la linguistica non ha sostanzialmente ancora fornito all’uomo moderno gli strumenti adatti a penetrare almeno un po’ più a fondo nella verità degli antichi usi, miti e divinità. Il problema dei problemi è rappresentato, come ho detto più volte, dalla estrema elasticità del significato di una parola, caratteristica che se da un lato permette di collegare tra loro svariate categorie di termini, dall’altro finisce con lo scombussolare gli schemi e i metodi tradizionali degli studiosi, che per questo, credo, mussant.  Prima di scoprire le due parole del lessico cerchiese legate al lat. libero(s) ‘figli’ io già supponevo che l’etimo della parola latina dovesse essere legato al concetto di ‘rampollo, pollone, stelo’ e non a quello di ‘libertà’ ma non avevo ancora uno straccio di radice che me lo confermasse.   Ciò significa che il mio metodo, sia detto senza alcuna iattanza, deve essere quello giusto.  Un’altra verità, che mi si rivela ogni giorno più solida, è che le parole, liberate da tutte le incrostazioni accumulatesi nei secoli e millenni, puntano dritte alla natura fondamentale del referente, e che quindi è senz’altro fuorviante lasciarsi accarezzare da altri concetti che hanno rapporti casuali e superficiali con essa, anche quando il loro significato sembra del tutto appropriato al referente, pur senza coglierne l’essenza.

[10]  Negli stessi paesi di Aielli, Cerchio e altrove ricorre la forma firë per ‘filo’ che, ribadisco, mi sembra un errore considerare derivata da lat. filu(m) ‘filo’. Essa mi sembra più simile ad ingl. fur ‘peluria, pelliccia’, lat. fer-ula(m) ‘bacchetta, ramoscello, germoglio di vite’, ingl. fir ‘abete’, lat. piru(m)’pero’, lat. far ‘farro, spelta, grano’ di cui si parlerà più sotto nell’articolo, francoprovenzale far-bela, fer-bela‘frangia, falpalà’, ingl. fur-bellow ‘falpalà’, lat. far-faru(m), far-feru(m) ‘farfaro’ (con radice raddoppiata), un tipo d’erba, fr. foarre, fouarre ‘paglia difru-mento’.  Il fru- di lat. fru-mentu(m)  trova  riscontro, a mio parere, nell’umbro fri delle Tavole Iguvine inteso come ‘le messi’.  Non credo che esso sia un accorciativo di lat. fruges ‘prodotti, cereali’: semmai è quest’ultimo ampliamento dell’altro. E non credo che c’entri, almeno direttamente, il verbo lat. frui‘godere, fruire’, come si sostiene. Il suffisso –mentu(m), comune a tante parole, qui, in funzione tautologica, credo corrisponda per il significato al lat. mentu(m) ‘mento’, lat. ment-ula(m)’pene’, lat. menta(m) ‘menta’ col valore di fondo di ‘escrescenza, protuberanza’.

[11] Cfr. D. Bielli, cit.,s.v.

[12]  Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, cit., s.v.

[13] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato,  I Dialetti Italiani, cit.,  s. v. pìre. La Marcato riporta anche le forme friulane pire-fàrepire-spèlte per la stessa pianta in cui lei suppone  che le voci fare e spelte, che significano ‘farro’, servano a rinverdire il signif. di pire divenuto oscuro.  Ma a me pare che si tratti semplicemente di due splendidi esempi di composti tautologici.  I linguisti li hanno poco studiati.  Anche il diminutivo latino fur-unculu(m) ‘getto della vite; foruncolo’ è ora che la smetta di nascondersi sotto la veste del ladruncolo (lat. fur-em ‘ladro’) che ruberebbe la linfa alle piante, e si rassegni a far parte di queste radici per ‘filo, pollone, germoglio, tralcio’ che facilmente diventano ‘escrescenze cutanee’ più o meno purulente nelle varianti dialettali marsicane pura, purélla, përélla, purijjë.  Il lat. ferv-unculu(m), forma parallela di fur-unculu(m), è più vicina all’idea base dei due termini, con il suo richiamo al verbo ferv-ere ‘fervere, bollire, ardere’.

[14]Fanno parte della serie anche le voci, registrate dal Bielli, come vurë che, oltre a ‘borea’, significa ‘vigore, forza della terra’ (con allusione alla forza della vegetazione), vurrë ‘vivace’, termine che presuppone una variante *virrë ‘vivace’ se questo stesso è attestato nel Bielli col significato di ‘bizze, capricci dei bambini’.  Sono certo che frugando tra i lessici dei dialetti si potrebbe incontrare un *biro, *viro col significato di ‘bambino, ragazzo’, termine che entrerebbe in contrasto, per la nostra mentalità, col lat. viru(m) ‘uomo fatto, eroe’, benchè la radice sia, a mio avviso, la stessa: si tratta sempre della stessa ‘forza’ della natura che, di parlata in parlata, si concretizza nell’uno o nell’altro modo. L’italiano borra  proviene da un tardo lat. bura(m), burra(m) ‘stoppa, imbottitura’, variante dell’altra radice con labiale sorda.  Il Pianigiani, nel suo dizionario presente in rete, attesta che il termine borra era usato anche col valore di ‘forza fisica e psicologica’,  confermando quindi il significato di ‘vivace’ delle voci abruzzesi sopra citate.   Solo che lui trae questo significato da un supposto uso metaforico del termine.  La realtà è che la radice aveva in sé ab origine il significato di ‘forza’, in questo caso della Natura, che faceva spuntare erbe, piante e tutto il resto.

[15]  Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2003, sub voce.

[16]  Cfr. D. Bielli, cit., s.v.

[17]  La radice prima di questi termini per ‘cavallo’ è rappresentata, a mio parere, dalla voce khar ‘asino’ dei dialetti iranici del Pamir, e sono convinto che le espressioni arri qua, arri là, rivolte nel mio paese ai soli somari come incitamento a procedere in una direzione o nell’altra, nasconda sotto la voce arri  un precedente *harri proveniente dal suddetto khar ‘asino’.  Ma dovrebbe esserci dietro anche una radice per 'andare, procedere'.

[18]  La festa consisteva anche in una processione alla cui testa svettava una pertica con sulla sommità un vistoso fallo, simbolo di fertilità e fecondità presso molte delle antiche civiltà mediterranee.  Ma è da aspettarsi che i concetti stessi di “pertica” e “fallo” fossero in stretto rapporto con quello di “germoglio, pelo, filo, stelo, cereale, figlio” o di “turgore” della primavera, che è la stessa cosa.  Finita la processione, una virtuosa e rispettata matrona poneva una corona sul fallo.  A me pare molto credibile che le odierne Madonne della Libera diffuse un po’ in tutta l’Italia centromeridionale continuino la tradizione antichissima legata alla dea pagana Libera. Naturalmente tutti gli aspetti sessuali e sensuali di quella festa non potevano che scomparire nella nuova temperie spirituale, a volte fortemente sessuofobica, del Cristianesimo.  Ma l’immagine della Madonna della Libera, come appare in un antico quadro conservato nel santuario di Rodi Garganico, mi sembra che abbia mantenuto qualche tratto inconfondibile che la lega al passato: essa non solo presenta la Madonna col bambino Gesù, come la maggior parte delle Madonne della Libera (sottolineando così la sua funzione di procreatrice), ma raffigura il bambino mentre gioca con una colomba trattenuta da un filo.  Ritorna il concetto di “filo” che è alla base delle latine Liberalia.  Anche le due croci impresse una sul collo e l’altra sul palmo della mano destra dovrebbero rimandare al gr. króke ‘filo, trama’. La crocetta è un’ottima erba da foraggio. Si incontra anche l’abruzzese cròcchiele ’parte di un gomitolo, che si stacca dall’intero in forma di matassina; gretola della rocca’ (vocab. del Bielli) derivante da un precedente *croc-ula.  La colomba peraltro era uccello sacro a Venere, dea dell’amore e della fecondità: naturalmente questo simbolo si incrocia qui con quello di origine biblica che rappresentava la pace, la serenità, la bontà, il bene. La stessa dea Libera, secondo quanto leggo in un sito internet, era considerata vergine e generò un bambino, che divenne suo paredro. Sta di fatto comunque che sotto il titolo di Madonna della Libera la Chiesa Cattolica venera la Madonna in quanto madre di Gesù.

[19]  Le torzë sono i fasci di frasche legati da una ritortola,  i manóppjë sono i covoni.

[20] In italiano la ciciaccòva corrisponde alla gazza; il pasturavacchë è il serpente cervone, la frattarola è ilforasiepe, la crastëla corrisponde all’averla? Numerose sono le varianti abruzzesi di ciciaccòva quali cicciacòlla(Avezzano), cicciaccòra (Cerchio), ciacciacólë e il semplice colë (vocab. del Bielli).




I seguenti commenti, anch'essi recuperati, vanno letti in successione a partire dall'ultimo in fondo.




Una "critica…sull'impostazione generale" , come indicata da Angus Walters, non ė il caso di farla. Piuttosto, io farei riferimento ad uno sbalzo paradigmatico linguistico-culturale da farsi nell'ambito della teoria della lingua per poter dialogare con la stesura linguistica del Maccallini. Ma io temo che la sua visione non oltrepassi i limiti cronologici dell'inimitabile autore, anche se scripta manent. su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
Anonimo
il giorno 11/12/12
Caro Angus, io sarei molto grato all'Anonimo se volesse in qualche modo, anche via email, svelarmi la sua identità, ma sono convinto che egli abbia un valido, anche se effettivamente molto strano, motivo per non farlo. Pietro Maccallini su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
in risposta a Caro amico Pietro, anch'io, sotto l'anonimato, un paio di volte ho commentato brevemente il tuo blog. Ma ora mi accorgo che non sono l'unico a farlo; e vorrei sapere se il Signor Anonimo che scrive ora e' un linguista di professione, perche' io, non meno di te, sono curioso di sapere se questo Anonimo ha qualche critica da fare sull'impostazione generale della tua teoria della lingua. Io, come sai, non sono un "professionista" in linguistica; ma i miei studi universitari mi hanno inoltrato abbastanza bene negli oscuri meandri della linguistica moderna. In tal modo, si potrebbe condurre una discussione a tre. Angus Walters, da Angus Walters.
il giorno 08/12/12
Caro amico Pietro, anch'io, sotto l'anonimato, un paio di volte ho commentato brevemente il tuo blog. Ma ora mi accorgo che non sono l'unico a farlo; e vorrei sapere se il Signor Anonimo che scrive ora e' un linguista di professione, perche' io, non meno di te, sono curioso di sapere se questo Anonimo ha qualche critica da fare sull'impostazione generale della tua teoria della lingua. Io, come sai, non sono un "professionista" in linguistica; ma i miei studi universitari mi hanno inoltrato abbastanza bene negli oscuri meandri della linguistica moderna. In tal modo, si potrebbe condurre una discussione a tre. Angus Walters su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.1 risposte.
il giorno 08/12/12
Gentilissimo Signor Anonimo, innanzi tutto La ringrazio per il Suo apprezzamento della poesia dedicata ad Esenin e del mio lavoro di etimologo. Se Lei non ha rivelato la Sua identità, avrà i suoi buoni motivi anche se un po' però me ne dispiace. Quanto al consiglio di dedicarmi alla poesia non è detto che non lo seguirò, anche perchè penso di aver ormai esaurito il compito di corroborare l'idea che sin dall'inizio mi ero via via formato sulla Lingua: un solo concetto, quello genericissimo di "vita, forza, spinta' è all'origine del vasto oceano rappresentato dalle parole di tutte le lingue dell'uomo. Un'idea che, a mio avviso, è destinata a sconvolgere o raddrizzare gli attuali approcci a diverse discipline, da quella antropologica a quella delle neuroscienze cognitive. Questo mi ha spinto ad essere tenace come un mulo nei miei studi, nonostante la sotanziale indifferenza dei linguisti. Cordiali saluti Pietro Maccallini su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
il giorno 04/12/12
Caro Maccaliini, come ampiamente evidenziato da Suo inno al noto poeta russo qui incluso, Lei non ė solamente un bravissimo etimologo, ma anche un poeta di grande potenziale. Dopo aver seguito e gustato il contenuto del Suo blog, io Le consiglio di dedicarsi alla poesia, piuttosto che alla linguistica, alla quale pochissimi sono gli interessati oggigiorno.   su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.

lunedì 3 dicembre 2012

. La Madonna della Libera di Pratola Peligna. Un esempio da manuale per il passaggio dal paganesimo al cristianesimo


   

La festa ricorre la prima domenica di maggio, quando le giornate cominciano ad essere più confortevoli e dolci in Abruzzo, e i vari paesi aggrappati ai colli e ai monti o adagiati ai bordi delle pianure o delle valli intermedie iniziano a celebrare con rinnovato fervore le feste dedicate a questo o quel Santo, a questa o quella Madonna, le quali spessissimo arrivano, cariche di tradizione, dalla lontana preistoria, come vedremo, perpetuando riti, nomi, divinità attraverso una lunga teoria di millenni.  Grande era in passato, e dura tuttora, l’afflusso dei pellegrini a Pratola da varie parti della regione, compresa la Marsica, per onorare, nel giorno della sua festa grande, questa bella Madonna cui le nuove coppie si rivolgevano devotamente per assicurarsi una sana e felice prole.

Narra la tradizione che agli inizi del 1500 un tal Fortunato, malato di peste, aveva lasciato Pratola in preda al morbo e si era rifugiato in una chiesetta diroccata del borgo Torre dipendente da Pratola, ai piedi del monte Cerrano.  Il poveruomo si era lì addormentato col pensiero che, se doveva morire, sarebbe stato in qualche modo confortante che ciò avvenisse in un luogo sacro.  Ma durante la notte fece un sogno risolutore: gli apparve una donna bellissima che gli diceva di svegliarsi perché la pestilenza era finita e la salvezza era così assicurata a lui e alla popolazione tutta.  Appena si svegliò notò tra le pietre e il terriccio un occhio che lo fissava, allora si avvicinò, smosse il terriccio e si accorse che vi era sepolto un quadro che raffigurava la bellissima donna che gli aveva parlato nel sogno.  Gridò al miracolo, accorsero i suoi compaesani e il quadro venne portato in paese.  Tralascio altri particolari del racconto che non mi sembrano essenziali per il ragionamento che voglio desumerne.  Lasciandomi guidare dall’idea che, secondo me, questa Madonna della Libera, e molto probabilmente anche le altre diffuse nel centromeridione d’Italia, debbano continuare il culto pagano di Libera[1], dea agreste della fecondità, cerco di estrarre dal testo del racconto elementi che confermino tale supposizione.  Ed effettivamente, a pensarci bene, il nucleo di questa narrazione appare come una bella metafora del ciclo di morte e rinascita (o risveglio) del chicco di grano che viene interrato in autunno, attraversa l’inverno, e si consuma e distrugge per sostenere in vita il piccolo germoglio che da esso si sviluppa con i primi tepori primaverili.  Semanticamente peste(m) in latino vale anche ‘morte’, la morte che minacciava Pratola e il nostro Fortunato, la morte della Natura tutta, nel lungo periodo invernale, pronta però a risorgere con rinnovato slancio a primavera.  Si badi bene che la metafora cui ho accennato non è il prodotto volontario di una mente che a tavolino voglia descrivere, con immagini e nomi di fantasia, il ciclo del grano suddetto, ma in gran parte la conseguenza involontaria del sovrapporsi di strati linguistici successivi nel corso dei millenni.  Non ha nessun valore, in questo quadro che si va delineando, la data degli inizi del 1500 fornitaci dalla tradizione come origine della festività: probabilmente essa, come solitamente avviene, fa riferimento alla data di celebrazione più antica che si conosca attraverso qualche documento parrocchiale.
   
Già il nome del borgo Torre, nella cui chiesetta va in un certo senso a seppellirsi il nostro Fortunato come un chicco di grano sotto le zolle, credo fosse vocabolo per ‘terra’ in qualche idioma antico del luogo di cui si parla: basta tener presente il lat. ex-torre(m) ‘esule, profugo’, lett. ‘fuori della terra’ e il lat. terri-toriu(m), composto a mio avviso tautologico il cui secondo membro –toriu(m) ripete il significato del primo, e si allinea formalmente con i termini come dormitoriu(m)’dormitorio’, praetoriu(m) ‘pretorio’, portatoriu(m) ’che serve a portare’, ecc.  La cosa curiosa, poi, è rappresentata dal fatto che questo borgo si trova alle falde del Monte Cerr-ano la cui radice è la stessa della divinità agreste Cer-ere (da cui il nome cereali[2]), nota nei dialetti italici  nella forma Cerria[3], tra le diverse altre.   Questi indizi a me sembrano rivelare il luogo d’origine del culto della Madonna della Libera, sebbene la radice all’inizio potesse indicare proprio l’altura che con quel nome era fatta apposta per attrarvi il culto di Cerere.  I toponimi, resistenti e pazienti come querce, stanno lì a calamitare tutto quanto nel territorio si succede attraverso i secoli e millenni, in fatto di lingua e di religione.  L’occhio che di tra il terriccio fissa Fortunato non è altro che la gemma della piantina del grano che spunta tra le zolle del seminato.  Non mi pare ci possa essere interpretazione più accettabile, corroborata anche dal significato di lat. oculu(m) ‘occhio, gemma’ e di it. occhio che in botanica, ma pure nel linguaggio comune oltre che in buona parte delle lingue europee, vale appunto anche ‘gemma, germoglio’. Naturalmente ad essere coperto dalla terra non era il quadro della Madonna della Libera ma Libera stessa, cioè la ‘gemma’, il ‘germoglio, rampollo’ che essa non solo rappresentava, ma indicava direttamente con alcuni dei significati antichi del suo nome, come ho mostrato nell’articolo citato nella nota 1.  Il nome aveva in effetti anche il valore di ‘figlio’, il che spiega perché le nuove coppie si rivolgono ancora oggi alla Madonna della Libera per chiederle una prole che assicuri la continuità della stirpe.

E siamo giunti, così, al nostro Fortunato. Questo nome in nessun modo deve essere inteso come parto della fantasia di qualcuno ma nemmeno può esso essere un prodotto del caso, un nome gettato lì senza una qualche motivazione.  Ho più volte sottolineato che questi tipi di termini sono reliquie venerande di antichissimi parlari che arrivano a noi da epoche lontanissime, in questo caso anche dal Neolitico o addirittura dal Paleolitico attraverso il culto della Gran Madre Terra. Si potrebbe sostenere, piuttosto banalmente, che il nome dell’uomo alluda alla fortuna di aver ritrovato sotto uno strato di terra l’immagine della Madonna, ma si cozzerebbe contro l’osservazione che comunque Fortunato un nome doveva pur averlo, prima che si verificasse il miracolo.  Allora, siccome non possiamo credere in nessun modo alla sua gratuità, dobbiamo aguzzare l’ingegno per tentare di scovarne l’origine.  Non sempre in questi casi si è arrisi dalla fortuna ma questa volta credo di averla avuta piena, con un margine piuttosto ampio di credibilità.

Ho provato a dividere Fortunato in Fortu-nato  ottenendo un secondo membro di un composto abbastanza accettabile nell’ambito di una Natura che si risveglia e dà vita ai nati di ogni regno vivente, dai vegetali agli animali e all’uomo: allora mi è stato abbastanza facile scovare in Fortu- un’altra radice tautologica rispetto a quella di –nato altrettanto credibile, pensando a forme come ted. Ge-burt ‘nascita, stirpe’ o ingl. birth ’nascita, parto’ ma arcaicamente ‘feto, bambino, progenie’, forme che rispettano le regole stabilite dai linguisti (legge di Grimm) in base alle quali alla labiale sonora germanica deve rispondere in latino  la fricativa sorda –f-  (ma vedremo anche in questo caso come esse siano parziali e in fondo poco veritiere). L’equivalenza ted. –burt = latino-italico *fortu- ‘nato, bimbo, rampollo’ è allora fuori discussione in base a queste regole. In altri termini il nome personale Fortunato, derivante da lat. fortuna(m) ‘fortuna, sfortuna, caso’, qui coprirebbe un composto tautologico italico o protolatino col valore di ‘nascita’ in ambo i membri e quasi sicuramente di ‘erba, pianta, rampollo, pollone, feto, bimbo, cucciolo, ecc.’ con ampio spettro di significati interconnessi.  Del resto anche il lat.  fors fort-is ‘caso, sorte, fortuna’, e il lat. fort-una(m) ‘fortuna buona o cattiva, caso’ condividono la radice con la parola in questione che è poi anche quella del verbo anomalo lat. ferre ‘portare’, ingl. bear ‘portare, sopportare, produrre, partorire’: la fortuna si configura dunque come ‘quello che essa porta’ agli uomini allo stesso modo in cui un rampollo o feto o cucciolo o bimbo è ciò che la Natura o la Vita portano in termini di prodotti vegetali, animali o umani.  Questo ragionamento ha trovato una bella conferma, diciamo così, a posteriori nella voce abruzzese FËRT-unë ‘ragazza’, scoperta successivamente nel Vocabolario Abruzzese di D.Bielli da me spesso citato.  La voce ha anche il significato di ‘dèmone’, che rimanda a quello primordiale di ‘spirito, anima, essere vivente’, nonché l’altro di ‘malanno’ che è proprio del lat. fort-una(m) ‘buona o cattiva sorte, sventura’ più sopra analizzato.  Per la verità si potrebbe intendere il personale Fortunato in questo contesto come part. passato di un verbo come lat. fortun-are 'rendere prospero' ma col significato leggermente diverso di 'far nascere, far crescere': le cose non ambierebbero. 

Altra figura caratteristica della festa di Pratola è quella della Mastra, la guida delle cercatrici che durante tutto l’anno raccolgono, anche da paesi vicini o lontani, le offerte della gente per la Madonna della Libera.  La domenica mattina della festa il Presidente, accompagnato dai membri del comitato e dalla banda, si reca alla casa della Mastra per prelevarla e condurla al Santuario, cingendola con una fascia azzurra, simbolo della sua ambitissima, anche se onerosa, carica.  Ora, non può essere un caso se il nome di questa figura coincide con il gr. mastér o mastrós, nomi maschili col significato di ‘ricercatore, indagatore’. Il femminile è másteira che corrisponde alla nostra Mastra, incrociatasi a sua volta con it. mastro, il quale deriva però dal lat. magistru(m) ‘capo, guida, maestro’. La funzione essenziale della Mastra[4], che è quella di cercatrice sia pure coadiuvata da collaboratrici, impedisce di ascrivere al latino l’origine del suo nome, il quale a mio avviso vola dritto  verso la protostoria o preistoria (come l’altro nome di Fortunato), quando le comunità dovevano essere molto piccole e le cercatrici, nell’ambito dello stesso nucleo abitato, potevano ridursi anche ad una sola, la Mastra appunto.  La fascia azzurra che essa indossa deve essere simbolo di un fiore come quello dello zafferano, noto nell’antichità col nome generico di lat. crocu(m), dal gr. krókos, ancora oggi coltivato nella non lontana Piana di Navelli, fiore che quando è ancora in boccia è composto da cinque lunghe e sottili foglie (circa 30/35 cm.) di colore verde-azzurro, che quando si aprono pienamente assumono un colore turchino o violetto.  Questa mia considerazione la desumo da quanto ho scritto alla nota 17 dell’articolo Cerere, Libero, Libera… che richiama il gr. króke ‘filo, trama’ con riferimento al crescere del grano ancora in erba o anche, in questo caso, ai filamenti sottilli degli stami del fiore.  Non è di poco peso, per avvalorare questa tesi, il fatto che la Parrocchia della Madonna della Libera, con attigua chiesa, diversa da quella del Santuario poco lontano, si trova in Vico Santa Croce, nome che deve essere un antico epiteto, forse più antico del titolo Libera, di questa divinità della fertilità della terra e della natura, piuttosto che richiamare la croce cristiana. La Madonna stessa della Libera è spessissimo rappresentata, in altre zone d’Italia, con questo segno sul palmo della mano e sul collo.  Kóre, l’altro nome greco di Proserpina/Libera, raccoglieva anche crochi, oltre a viole, gigli, giacinti e narcisi, presso il lago di Pergusa: ora che ci penso, il termine gr. krókos ‘croco, zafferano’ potrebbe essere variante metatetica di un ampliamento in –k di gr. kór-os ‘fanciullo, figlio, gambo, stelo’, cioè di *kór-kos, se si pensa all’ebr. karkom ‘zafferano’ a cui il greco krókos ‘zafferano’  rimanda.
Abbiamo trascurato Fortu-nato che ha altre cose interessantissime da dirci. Intanto ci fornisce un etimo sostenibile per i dialettali abruz. bard-àscë, bird-èulë ‘bambino, ragazzo’ (cfr. ingl. birth ‘nascita, obs. bimbo ’), romagnolo burd-èl ‘bambino, ragazzo, figlio’, emiliano bord-lèin ‘piccolo fanciullo grassoccio’[5], senese bord-ello ‘giovanetto’[6], it. bord-one 'bastone, penne appena spuntate', it. bard-otto che significa anche 'garzone' in Toscana, lat. burdon-e(m) 'mulo'.  Ma tutte queste parole presentano la labiale sonora iniziale che, secondo la linguistica ufficiale, dovrebbe essere un tratto esclusivo delle lingue germaniche in opposizione a corrispondenti parole latine con la fricativa –f- iniziale.  Allora due sono le possibilità: o queste regole non ce la raccontano giusta o queste mie constatazioni sono fasulle.  Qualcuno abbia la cortesia di dimostrarmi, con argomenti più convincenti dei miei, che sono vittima di un madornale abbaglio.  La radice assume il valore di ‘barba, fili, ecc.’, affine a quello di ‘stelo, pollone, rampollo’, nel trasaccano bard-èlla [7]‘ciuffo di lana’ lasciato talora sul dorso della pecora giovane dal tosatore per proteggerne le reni dal freddo.  Ma… perdinci!, questo termine è pari pari il ted. Bart ‘barba’, ingl. beard ‘barba’ (cfr. la variante lat. barba) e non possiamo pensare che esso ci venga dal medioevo delle invasioni barbariche dato anche lo scarto di significato tra ‘ciuffo di lana’ e ‘barba’! anch’esso punta dritto alla preistoria!  Altre forme dialettali collegabili con le precedenti, per via della frequente oscillazione tra -b- e -v- (betacismo), sono gli abruz. varz-ìttë, vard-arèllë, vard-arìllë, varz-ìjjë ‘bambino, ragazzo’[8]. Anche il ted. wurz-el ‘radice’ si allinea con esse, essendo imparentato con ingl. arcaico wort ‘pianta, erba’, ingl. wart ‘verruca, escrescenza’, a. ingl. wyrt ‘erba, pianta, radice’, ecc. Il pl. obs. worts significa ‘cavoli’: ecco perché si sente talora scherzosamente dire dai genitori ai figli piccoli che i bambini nascono sotto i cavoli: uno stesso termine  in verità nel lontano passato poteva indicarli entrambi, i cavoli e i bambini e, quindi, non si tratta effettivamente di una scherzosa e fantasiosa invenzione, come si crede! Noi, avendo una mente analiticamente orientata, abbiamo perso la capacità estremamente sintetica degli antichissimi nostri antenati, e per questo troviamo strane e scherzose certe parole ed espressioni che scaturirono dalle loro menti primordiali sinteticamente orientate.  Abbiamo potuto constatare in altre occasioni come le presunte scherzosità, onomatopeicità e cose del genere siano spessissimo in realtà il refugium peccatorum degli studiosi a corto di metodo adeguato e di radici normali per la definizione di un etimo. Il cavolo verza o semplicemente la verza conferma il binomio cavolo/bimbo, allineandosi il nome con la serie sopraelencata di abr. varz-ìttë ‘bambino, ragazzo’, a mio parere.

Ritornando al nostro Fortu-nato dobbiamo ancora notare che il primo membro del composto richiama anche il lat. arc. forde-u(m), variante di lat. horde-u(m) ‘orzo’, nel suo valore originario di ‘stelo, erba, pianta, germe, nato, feto, bimbo,ecc.’ secondo i principi consolidati della mia linguistica.  Ma la cosa più interessante è il fatto che esso rimanda anche alle Fordi-cidia, feste romane in onore della dea Tellus ‘Terra’, che ci riconduce quindi alla preistorica Gran Madre della fecondità[9].  A lei si sacrificava il 15 aprile una vacca pregna (lat. forda ‘-vacca- pregna’) dinanzi ad ognuna delle trenta curie in cui era divisa la città di Roma.  Le sacerdotesse Vestali ne estraevano dal grembo il feto e lo sacrificavano alla dea. Così, stante quello che ho detto precedentemente su Kóre, kóros (con le varianti Kúre, kûros), termini legati alla radice di Cer-ere (cereali) e di lat. cre-scere ‘crescere, svilupparsi’, a me sembra che l’etimo del lat. curia(m), considerato ancora molto incerto, debba appartenere a questa famiglia il cui significato di fondo è quello di ‘nascita, crescita, generazione’ e quindi di ‘stirpe, popolo, nazione’, significato che coincide con uno di quelli sottesi a Fortu-. Le curie erano appunto suddivisioni delle antiche tre tribù fatte risalire a Romolo.  Ora, per la legge tautologica da me stabilita, mi pare che originariamente il secondo membro del composto non appartenesse alla famiglia di lat. caed-ere ‘tagliare, uccidere’ ma dovesse essere apparentato con il tosc. citto ‘bambino, ragazzino’ e le numerose varianti diffuse in Abruzzo e Molise come cit-ëlë, cit-ëre riportate solitamente dai linguisti ad un’origine fonosimbolica e al linguaggio infantile, ma così non è. A me pare anche che la voce sia da confrontare con ingl. kid ‘figlio, bambino, ragazzo, capretto, cerbiatto’, ingl. be-get ‘generare’, ingl. arc. get ‘stirpe, generazione, bambino’ e in zoologia ‘piccolo, nato (di animale)’, serbo-croato čedo ‘bambino, bambina’, dial. obs. zito ‘fanciullo, ragazzo, uomo non sposato’[10].  Del resto anche in sardo si incontra il log. chiu ‘germe, germoglio’ che molto probabilmente deriva da una forma *chidu, con lenizione totale della dentale –d-.  Infatti si ha il sass. chedda ‘germe, semente’ ma anche ‘settimana’: esso deve essersi quindi incrociato con log. e nuor. chita ‘settimana’ e deve essere apparentato con log. chitta ‘razza’. 

Il rito dello Strascìnë compiuto a Pratola dalla compagnia proveniente da Gioia dei Marsi e che consiste nel procedere inginocchioni o strisciando con mani e piedi fino all’altare maggiore, se non facendo anche strisciare sul pavimento la lingua come avveniva in passato, ricorre stranamente anche nella cosiddetta Festa dello Strascino relativa ad un’altra Madonna della Libera, quella di Moiano-Bn  in Campania.   Il fatto che il nome della festa sembra derivare addirittura da questa usanza secondaria dell’evento, per quanto caratteristica, è dovuto a mio parere ad un errore  causato da normale sovrapposizione di termini che ha distorto il significato originario dell’espressione.  L’it. s-trascinare, infatti, (con s- intensivo-durativa)  pare derivare da un lat. volg. *trag-in-are incrociatosi col prefisso tras- (lat. trans ‘attraverso, oltre’), che ha dato origine alla forma trascinare. L’elemento trag- corrisponde alla radice del lat. trah-ere ‘trarre, trascinare, ecc.’.  Ma anche qui, con un po’ di riflessione,  ci si ritrova con stupore dinanzi ad un’altra radice col valore di ‘grano’ coperta dalla precedente.  Infatti trág-os in greco significa, oltre che ‘capro’, anche ‘grano simile alla spelta; pubertà ―età caratterizzata dallo spuntare dei peli del pube―; piccola sporgenza rettangolare dell’orecchio proprio allo sbocco del condotto unditivo esterno; peli che fuoriescono dalla parte interna del trago’[11]. I concetti di “protuberanza”  e di “pelo” sono interdipendenti. Il verbo gr. trag-ãn significa ‘ricoprirsi di foglie lussureggianti (detto della vite)’. In logudorese tragh-ittu significa ‘grano tenero’.  Probabilmente anche il sardo tricu, trigu ‘grano’ non è forma sincopata del sardo tridicu, tridigu ‘grano’ < lat. triticu(m) ’grano’ ma variante del precedente tragh-ittu, e imparentata piuttosto col gr. thríks, gen. trikh-ós ‘capello, pelo’.  L’aggettivo logud. trigu-linu ‘dal pelame a strisce’ mi pare derivare da un sostantivo *trigu o *trigulu o anche *trigu-linu ‘pelame, peluria’ incrociatosi con la radice del termine linea.  Consistente pertanto mi sembra, per questo culto della Madonna della Libera di Pratola, una base greca come mostrano appunto alcune parole ad esso relative.
Tirando le somme si può ben dire che Fortunato è un termine antichissimo che aveva varie valenze: germe, germoglio, figlio, bambino, natura, essere vivente. Il personale lat. Fortunatu(m) 'Fortunato' poteva essere legato, all’origine, non alla voce Fortuna(m)  come nome augurale o anche gratulatorio se inteso come ‘nato (-natum) per nostra fortuna (fortu-)’ ma al significato di ‘essere vivente, bambino, uomo’, e poteva costituire inoltre uno dei vari nomi della divinità della Natura feconda corrispondente alla Gran Madre Terra.  Si riconferma anche in questo caso il principio che le usanze, le feste, i costumi, i riti, sono spessissimo dettati all’uomo primitivo dai vari significati che le parole stesse assumevano di epoca in epoca e di regione in regione, parole che allora avevano certamente un peso religioso e divino che oggi più non hanno.  Ancora in Omero le “parole” (gr. épea) sono accompagnate solitamente dal part. pres. pteróenta ‘volanti’, più precisamente ‘dotate di ali’, come fossero creature viventi che attraversano volando l’aria.



               Evviva la Madonna della Libera di Pratola Peligna!

Possa col suo favore una nuova epoca di fecondità nascere per la linguistica in tutto il mondo, liberatasi finalmente dalle pastoie che ne impediscono i movimenti e dalle angustie che la soffocano!









Note:

[1] Cfr. mio post Cerere, Libero, Libera[]del novembre 2012.

[2]  Sarebbe più corretto dire, a mio avviso, che i due termini derivano da una stessa radice per ‘grano, frumento’.  Perché la cosa certa è che il nome della divinità è composto da un termine che all’origine indicava il ‘grano’ e il lat. cerealia ‘cereali’ poteva essere  aggettivo  derivato da quel sostantivo, prima che esso assumesse le vesti di una divinità con determinate caratteristiche, giacchè nella fase animistica dell’umanità tutto era considerato espressione di una forza divina.  La radice simile carus-  presente nella voce dialettale centromeridionale carus-ella ‘grano con poche ariste’, che non ha mantenuto l’aura divina perché non ha avuto la ventura di incrociarsi col nome di Cerere, conferma quanto ho detto sul termine  cereali.  Per maggiore chiarezza rimando al post precedente Cerere, Libero, Libera […] del novembre 2012.

[3] Cfr. Iscrizione di San Clemente a Casauria in Aa.Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1978,  vol. VI,   p.806.  Interessante l’identità della radice del nome del Monte Cerr-ano di Pratola e quella del Monte Cerro nelle vicinanze di Agnone-Is dove venne trovata la famosa tavola osca (del III-II sec. a. C.) in bronzo in cui sono elencate diverse divinità legate alla produzione agricola, tutte sottoposte in qualche modo a Cerere, la maggiore di esse, che ha ivi un santuario.

[4] In un mito greco collegato a Demetra (la Cerere dei greci) si incontra la figura di Mestra (che può essere variante di Mastra) o Mnestra, la quale viene venduta come schiava dal padre Erisittone che, colpito da una fame insaziabile da parte della dea  Demetra per aver distrutto un bosco sacro a lei dedicato, ha bisogno di soldi per procurarsi il cibo. Secondo altra versione la fanciulla si vendeva a chiunque per procurare il necessario al padre (un riflesso, mi pare, della prostituzione sacra praticata in antico in diversi templi in genere dedicati a divinità della fertilità).  Comunque stiano le cose Mestra svolge nel mito la funzione di caterer ‘fornitore di cibo, organizzatore di pranzi, feste, ecc.’ in qualche modo corrispondente a quella che svolge la Mastra come ricercatrice di fondi per la festa a Pratola. La quale, inoltre, offre anche un rinfresco, imbandito su una tavola dinanzi casa sua, al comitato e ai vicini quando, la mattina della festa, il Presidente vi si reca accompagnato dalla banda e dal comitato stesso. Secondo me questa è una bella tradizione incredibilmente antica.

[5] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, UTET ,Torino 1998, s. v. burdèl.  L’etimo è lì ricondotto al lat. burdu(m) ‘mulo’, ma il problema fondamentale è di individuare anche l’etimo della parola latina che, a mio parere, trae linfa dal concetto generico di ‘pollone, puledro’ abbracciante qualsiasi entità vivente della natura.  Per maggiori lumi rimando al caso di caruso ‘puledro’ dell’articolo Cerere, Libero, Libera[] citato alla nota 1. A questa categoria bisogna ascrivere lo scozz. burd ‘ragazza, uccello’ (cfr. l’abr. fërt-unë ‘ragazza’ più sopra citato) come l’ingl. bird ‘uccello, obs. ‘bambino, giovanotto, ragazza’, ingl. bride ‘sposa novella’. L’it. verz-ellino, nome volgare di un uccello dei Fringillidi, reclama a gran voce l’appartenenza a questa matrice lontana ornitologica prima che avvenisse l’incrocio con l’aggettivo latino viride(m) ‘verde’, a causa del colore verde-grigio dell’uccello, che determinò così la specializzazione del suo significato generico precedente di ‘uccello’.

[6] Cfr. O. Pianigiani,  Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana versione web, s. v. bordello.  In sardo campidanese si incontra la voce brota ‘germoglio, boccio, getto, pollone, virgulto’ che deve intendersi come variante metatetica, così frequenti nel sardo, di una forma *borta.  In logudorese si ha il maschile brotu ‘germoglio’.  Sono probabilmente prestiti dallo spagnolo brotar ‘germogliare, spuntare, sgorgare’. Si noti la somiglianza, di forma e di sostanza, con ingl. brood ‘nidiata, marmocchi, brulichio, ecc.’.  Il gr. brotós ‘mortale, uomo’ doveva avere, all’inizio, il sign. di ‘rampollo, essere vivente, uomo’ ma poi si è incrociato con l’agg. gr. mortós ‘mortale’ attraverso una variante metatetica *mrotós.  Lo attesta in qualche modo l’altro termine gr. brótos ‘ sangue, sgorgo di sangue dalla ferita’, da avvicinare al precedente sp. brotar ‘germogliare, sgorgare’, che mantiene i due significati legati ad un’unica matrice.  Non è un caso, a mio parere, che questa radice combaci con quella di ingl. brother ‘fratello’, lat. fratre(m)’fratello’, serbo-croato brat ‘fratello’, gr. phráter ‘membro di uno stesso clan’: le unisce l’idea di generazione, stirpe, schiatta, famiglia.

[7] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, sub voce.  La stessa voce bardella  con lo stesso significato ricorreva anche ad Aielli, il mio paese, e probabilmente anche altrove.

[8] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004. 
   
[9] A Cerr-eto Sannita-Bn (anche qui ritorna la radice di Cer-ere, la stessa del Monte Cerro dove fu trovata la Tavola di Agnone della nota 3) la chiesa della Madonna della Libera sorge sul basamento di un tempio sannito-romano dedicato a Flora, dea della fioritura delle messi, della primavera e protettrice delle partorienti, che probabilmente qui aveva anche il titolo di Libera.  Stranamente i siti web da me consultati non accennano all’evidente rapporto tra questa Madonna della Libera e la precedente occupatrice del luogo sacro.  Gli studiosi, in effetti, mi sembra che non abbiano ancora scoperto l’origine vera, a mio parere, del culto delle Madonne della Libera perché probabilmente fuorviati dalle motivazioni che tradizionalmente e presuntivamente giustificano il titolo di Libera: l’azione liberatrice  da qualche pestilenza o assedio compiuta nel passato dalla Madonna cristiana a favore della comunità.  Nella Tavola bronzea di Agnone-Is  compare la dea col nome italico locale di Fluusai Kerriiai ‘Flora di Cerere’ che riconferma la sua stretta connessione con i cereali. La tavola presenta un testo con un numero discreto di grecismi: il che potrebbe aiutare a capire anche la ragione del sicuro grecismo della Mastra di Pratola.  Io credo che questo fatto dimostra che popolazioni greche hanno calcato il suolo italico e vi si siano stabilmente insediate già molto tempo prima degli influssi successivi diramatisi dalla Magna Grecia (dall’ VIII sec. a.C. in poi).  Alcune parole del dialetto di Scanno non si spiegano, secondo me,  pensando ad influssi indiretti.  Cfr. il mio post del marzo 2011 Parole del dialetto di Scanno. E’ bene ricordare che il lat. fordu(m)’pregno’ è accostato al gr. phorás,ádos ‘fecondo’, con la stessa radice di gr. phér-ein ‘portare’, lat. ferre ‘portare’.  Faccio notare che anche Franco Zazzara di Pescina-Aq è convinto, in base all’analisi di alcune parole, della presenza ab antiquo dei Greci nella Marsica: cfr. F. Zazzara- E. Cerasani, Marsi, Tipografica Renzo Palozzi, Marino-RM  2012, pp. 18-20.


[10] Si incontrava ad Aielli anche la voce caca-zzìttë ‘ bambino, ragazzino’ detto in senso alquanto spregiativo che ne sottolineava la ‘piccolezza o sparutezza’. Il primo membro dovrebbe corrispondere alla radice di nuor. càcch-ile ‘pollone’ da distiguere da quella di it. cacchio  ‘getto, germoglio non fruttuoso’ che è da lat. catulu(m) ‘cagnolino’, tardo latino ‘tralcio’. Si incontrano anche forme intensive come l’agg. scaca-zzìttë  detto di persona ‘piccola e sparuta’ (nel Bielli), di persona ‘piccola e minuta, ma molto attiva, reattiva e scattante’ a Trasacco. A  caca-zzìttë  si affiancano altre forme, riportate dal Bielli, come caca-nùde ‘bambino nudo’, caca-nnìtë ‘l’ultimo nato’, caca-nìzzë ‘l’ultimo nato’ con i secondi membri tutti da chiarire ma che debbono avere il significato tautologico di ‘bambino, figlio’. 

[11]  In Grecia il thárg-elos ártos era un ‘pane (artos) fatto con le primizie di frumento’ che si offriva a Demetra e Dioniso nelle Talisie, feste del raccolto.  A me sembra che thárg- o tárg- sia, in questo caso, variante metatetica di trág-os ‘sorta di spelta’.