venerdì 1 giugno 2012

Corollario dell'articolo sui nomi dei venti con belle sorprese




Uno dei diversi nomi del Maestrale analizzati nell’articolo precedente mi offre l’occasione di mettere lingua nel problema dell’etimo dell’aggettivo dialettale mancùsu ‘mancino’ significante anche, nell’area lucano-calabrese, ‘esposto a tramontana, non assolato’. Il linguista M. Cortelazzo non ha dubbi sulla faccenda e sentenzia che il secondo significato si è sviluppato dal primo attraverso il senso di ‘mancanza di sole’(1) oppure sostiene, lì dove esiste contemporaneamente nel dialetto anche la voce destro e simili per ‘solatio, soleggiato’, che le due parole indicano, come vuole il significato letterale, semplicemente la posizione a sinistra (a manca) o quella a destra rispetto al sole (2) (se si guarda naturalmente ad Oriente) ma con i conseguenti valori aggiunti di ‘settentrione’ e ‘meridione’, rispettivamente. Ma in questo modo ancora una volta non si fa altro, come mostrerò più sotto, che seguire docilmente gli ingannevoli suggerimenti superficiali delle parole, che sviano dalla verità più profonda. Sinceramente la mia mente si rifiuta di accettare un’origine simile per questi normali vocaboli: la figura di un uomo, il quale si rivolga ad Oriente per trovare le parole adatte ai concetti di ‘ombroso, freddo, esposto a tramontana’ da un lato e di ‘solatio, caldo, esposto a mezzogiorno’ dall’altro (concetti tra i più usuali della lingua), sarebbe a mio parere ridicola se non la proponessero linguisti anche di valore. In effetti la motivazione di questo atto non riuscirebbe mai a scrollarsi di dosso il forte sospetto di non avere altro fondamento se non quello di far quadrare i conti agli etimologi, data anche la gratuità della scelta del punto cardinale di riferimento. Ricordiamoci inoltre, come ho invitato a fare più volte, che le parole in genere non sono nate ieri, belle e fresche di conio per esprimere i loro squadrati significati attuali, dei quali finiscono invece per caricarsi, spesso fortuitamente, solo nel corso delle loro vicende millenarie. Nella traduzione italiana di T. De Mauro del Corso di linguistica generale, Laterza 1976, il grande F. de Saussure così si esprime (pag.104): « […] Contrariamente all’idea falsa che noi volentieri ce ne facciamo, la lingua non è un meccanismo creato e ordinato in vista dei concetti che deve esprimere. Al contrario, vediamo che lo stato risultante dai cambiamenti non era destinato a notare le significazioni di cui si carica […]». Il Saussure in questo passo si riferisce ad alcuni specifici fenomeni grammaticali ma nel contempo sottolinea giustamente che la maggior parte dei filosofi della lingua ignora la cosa anche se «niente è più importante dal punto di vista filosofico».

Il nome del Maestrale cui accennavo è il provenzale Mango-fango che, col primo membro, richiama il sardo campidanese bentu Mannu , lett. ‘vento Grande’ dal lat. magnu(m) ‘grande’. Nel dialetto di Gallicchio-Pz (3) si incontra la voce manghë ‘luogo esposto a bacìo, poco soleggiato’ e la locuzione avverbiale a mangìnë ‘esposto a tramontana’. Che queste forme provengano da un originario magn-, uguale al tema di lat. magnu(m), me lo fa supporre indirettamente l’altra voce del gallicchiese mànghënë ‘gramola’ che però in senso figurato vale ‘persona alta e robusta’. Questo significato, non potendo trarsi da quello di ‘gramola’, credo che nasconda dietro di sé proprio il lat. magnum ‘grande’ che si è probabilmente incrociato col lat. manganu(m), gr. maggan-on ‘mangano’, una macchina per pressare panni, diversa comunque dalla gramola che maciulla la canapa. Ma probabilmente qui entra in gioco anche il gr. dor. machaná ( ion. mechané) ‘macchina, strumento, mezzo’. Assodata quindi la reale possibilità che la voce manghë ‘esposto a tramontana’ possa rinviare ad una radice magn- con consonanti invertite nel nesso –ngh-, è naturale connetterla, insieme alle altre parole simili, al nome campidanese Mannu per il vento di Maestrale di cui ho trattato nell’articolo precedente, un vento di nord-ovest che comunque può fungere benissimo da termine generico per Nord. Evidentemente nella preistoria questo nome doveva essere abbastanza diffuso almeno nel Mediterraneo occidentale.

Una volta convinti che il termine manco, mancino in questi casi non può essere inteso alla lettera, risulterà altrettanto insostenibile il significato letterale del termine parallelo destro per designare un luogo assolato. Fior di linguisti sono caduti nella trappola perché a mio avviso non avevano materialmente un'altra strada da seguire e anche perché la mente umana è fatta apposta per individuare rapporti, agganci, relazioni tra i fenomeni da analizzare per darsene una ragione, e, dinanzi alla coppia di termini mancino/destro, che serve in questi casi a designare la contrapposizione di soleggiato/non soleggiato, quale mente, sia pure fine, esperta ed eccelsa, avrebbe saputo resistere, in mancanza d’altro, ad una soluzione provvidenziale e a portata di mano del problema, la quale esigeva solo la gratuita forzatura di dover rivolgere lo sguardo ad Oriente? La realtà è che noi esseri umani siamo fatti per credere: l’emisfero sinistro del nostro cervello ha il compito di mettere ordine e dare un senso al flusso delle informazioni che ad esso arriva, e quindi un sano scetticismo dovrebbe sempre guidarci prima di prendere posizioni poco meditate . Ma se dimentichiamo o addirittura ignoriamo che nel caso della lingua esistono, per quanto riguarda i significati delle parole, strati incredibilmente profondi che possono smentire quelli che appaiono in superficie, non ci sarà scetticismo o prudenza che tenga perché allora sarebbe necessario cambiare radicalmente metodo di lavoro. Altrimenti, come avviene nell’etimologia popolare, si scambieranno per intenzionali e voluti quei rapporti che invece sono dovuti alla contingenza fortuita. La stessa intenzionalità, che sarebbe rivelatrice di una mano divina, credono di vedere nei fenomeni evolutivi (che invece sono in gran parte frutto del caso) coloro i quali non sanno rinunciare alla visione teleologica e supinamente religiosa della realtà. Essi non pensano nemmeno per un momento alla possibilità che proprio l’eventuale Dio ignoto abbia voluto nascondere una troppo evidente sua presenza nel mondo per non compromettere fatalmente l’autonomia, la dignità e la facoltà di scelta di una mente umana che fosse la più libera possibile in un contesto in cui, comunque, essa, l’autonomia dell’uomo, non potrà mai essere assoluta a causa dell’onniscienza di Dio che tutto vede prima che la contingenza nel mondo si squaderni. La voce destro, dal lat. dex-tru(m) ’destro’, nel senso di ‘solatio, assolato’ ha molte corrispondenze in campo indoeuropeo come alban. djek ‘bruciare’, got. dags ‘giorno’, ted. Tag ‘giorno’, ingl. day ‘giorno’, a. prussiano dagis ‘estate’, sscr. daha ‘calore’, irl. daig ‘fuoco’, hindi daha ‘cremazione’, sindhi da(h)o ‘sole, forte luce’. Il gr. téph-ra ‘cenere calda’ credo sia da comparare con lat. tep-ere ‘essere tiepido’, a. ind. tapas ‘calore’, a. pers. taf-nu ‘ardore, calore’. Il modo di dire Alzarsi all’alba dei tafani ‘Alzarsi molto tardi, quando il sole è alto sull’orizzonte’ richiama secondo me, coi termini alba e tafani, tutta la ‘luce’ e il ‘calore’ del sole meridiano. 

Che la mia idea sul significato originario di destro ‘solatio’ sia quella giusta è confermato da due composti greci, e cioè dexió-seiros ‘forte, impetuoso, ardimentoso’ e dexí-pyros ‘che riceve (dexí-) il fuoco (-pyros)’. Il primo era usato in riferimento al cavallo di destra (dexió-) della pariglia che doveva essere il più forte dovendo sostenere maggiore fatica girando attorno alla meta nell’ippodromo. Secondo altri si trattava di un terzo cavallo aggiunto a destra della pariglia (o della quadriga) mediante una fune (cfr. gr. seirá ‘corda, fune’), da cui l’elemento –seiros del composto. Ma quale ircocervo di nome è mai questo! Un cavallo forte e generoso verrebbe gratificato di un termine corrispondente pressappoco ad un italiano destro-cordato? Ma siamo completamente in possesso delle nostre facoltà intellettive? Purtroppo questi contorcimenti mentali non sono eliminabili fintanto che si rimane ancorati agli schemi della vecchia linguistica. Io vedo, invece, nel termine, il solito composto tautologico i cui due elementi ripetono lo stesso concetto di ‘focoso, ardimentoso’ essendo il primo legato, a mio avviso, alla radice dhex- prima citata (i linguisti pongono una dentale sonora aspirata all’inizio del vocabolo, per quanto i casi da me sopra citati presentino la semplice sonora) col significato di ‘fuoco, sole, giorno’ e il secondo essendo in rapporto, non col citato termine per ‘fune, corda’, ma con un’altra radice simile, quella di gr. seíri-os ‘ardente, bruciante’, usata talora anche per indicare il sole (cfr. sscr. surya ’sole’), da cui deriva il nome di Sirio, astro della costellazione del Cane Maggiore. Il composto, oltretutto, veniva usato anche in riferimento ad Ares, l’impetuoso dio della guerra. A mio avviso sarebbe stato quasi impossibile che un composto che fosse nato con le due componenti, una per ‘destro’ e l’altra per ‘fune’, ancora ben comprensibili da qualsiasi parlante greco, potesse essere usato anche per indicare l’impetuosità e l’ardore di Ares, solo in virtù dell’improbabile e poco efficace accostamento del carattere del dio a quello di un cavallo indicato, per di più, in quel modo surreale: sarebbe più probabile il contrario o piuttosto ritenere che il significato originario del composto, indipendentemente dai suoi referenti, valesse solo ‘focoso, ardente, ardimentoso’ e simili. Successivamente esso, in virtù del significato di ‘destro’ che i Greci credevano di vedere nel primo dei componenti, dovette restringere l’uso all’ambito della pariglia di cavalli nelle corse. Succede che il solito diabolico gioco degli incroci contribuisce a plasmare i significati e confonde inevitabilmente le idee a chi non è dotato degli strumenti adatti alla bisogna. C’è anche da sottolineare che la radice dheks ‘fuoco’ di cui sopra, una volta indossata la veste della parola simile per ‘destra’, cioè gr. deksi-ós, ne ha subito formalmente il destino senza seguire quindi l’evoluzione che per la dentale sonora aspirata iniziale i linguisti individuano, relativamente al greco, nella dentale sorda aspirata –th- e, per il latino, nella spirante sorda –f-. Una chiara eco della antichità remotissima dell’abbinamento con Marte di questo termine gr. deksi-ós, deksí-ter-os ‘destro’(lat. dex-trum ‘destro’) si riscontra nell’antichissima usanza romana di sacrificare a Marte il cavallo di destra del trio vittorioso nella corsa, nell’ambito della festa dell’ October Equus ‘Cavallo d’ottobre’ dedicata al dio, che si svolgeva alle idi del mese. Questo fatto, non notato —che io sappia— dai linguisti, ci mostra che l’abbinamento con Ares del cavallo di destra in Grecia non era dovuto a metafora (come i vocabolari generalmente spiegano) per via di qualche somiglianza tra Ares e il cavallo di destra nelle normali corse, ma a un motivo religioso affondante nella preistoria, che trovava comunque la sua ragione ultima sempre nell’incrocio di due termini, di cui uno significava ‘destro’ mentre l’altro doveva indicare il dio stesso e la sua impetuosità o focosità. C’è da ricordare che inizialmente Marte era dio della natura che si risvegliava a primavera (con tutto il suo vigore), cioè a Marzo, mese a lui dedicato. Ma era anche divinità del tuono, della folgore, ecc.: una divinità complessa, insomma, come del resto le altre, che furono investite dalla girandola vorticosa dei significati delle parole ad esse relative, traghettate di epoca in epoca, a cominciare dalla remota preistoria. E così le antichissime tradizioni legate ad una festa finiscono col diventare un deposito ricchissimo di significati profondi delle parole, un meraviglioso tesoro linguistico di valore inestimabile.

(Oggi, 19 agosto 2012, mi sento in dovere di aggiungere che le  fantasiose spiegazioni del termine it. destriero, incentrate sul significato di 'destra',  vanno miserevolmente a farsi friggere.  Inoltre mi balugina l'idea che dietro la radice dek- se ne possa nascondere anche un'altra remota per 'cavallo').

L’altro composto dexí-pyros (4) riferito a thymélē ‘ara, altare’ non può che suscitare un sorriso di compatimento se inteso come lo si intende, cioè ‘che riceve (gr. dékh-o-mai ‘ricevo’, radice simile a quella per ‘fuoco’ e a quella per ‘destro’) il fuoco’, definizione banale quant’altra mai, dato che l’ara è il luogo deputato all’accensione del fuoco. Le cose saranno andate, invece, in quest’altro modo: inizialmente il composto doveva indicare semplicemente l’ara e poi si sarà trasformato in suo epiteto esornativo, usato in poesia. In greco, infatti, anche il semplice pyrá indica la ‘pira, l’altare’ e il ‘fuoco ardente sull’altare’. Le idee di ‘fuoco, focolare, altare’ sono così legate al concetto basilare di ‘fuoco’ che anche il suddetto termine thym-élē ne condivide la sostanza. La radice, infatti, è quella del verbo thý-o, il quale, oltre a ‘metto in rapido movimento, infurio’ significa anche ‘brucio incenso o vittime per sacrifici, sacrifico, ecc.’. In questi significati, a mio parere, si consuma la convergenza delle due radici dell’a. indiano dhu ‘scuotere qua e là, scrollare’ e a. ind. du ‘ardere, bruciare’ nonostante la separazione tra di esse sembri continuare anche nel nel greco (cfr. gr.dái-o ‘ardo’). La realtà è che le due radici possono considerarsi semplici varianti dato che i due significati specifici fanno capo a quello unitario di ‘rapido movimento’ che può assumere i valori più diversi come nel ted. Dunst ‘vapore, esalazione, fumo, nebbia’, ingl. dust polvere’, nello stesso greco thymós ’animo, impetuosità, vita, ardore, collera, ecc.’, a. slavo dumu ‘fumo’. Per me la radice si incontra di nuovo nel primo elemento del composto ingl. twi-light ‘crepuscolo’, elemento che aveva lo stesso significato del secondo –light ‘luce’. E non mi si venga a proporre l’etimo che dà retta al significato superficiale di twi- ‘due, doppio’ con la scusa che i crepuscoli capitano due volte in un giorno, la mattina e la sera! Rifiuterei sdegnosamente la proposta! Essa presupporrebbe una inaccettabile origine del termine che sarebbe stato, così, escogitato a tavolino, con tanto di riflessione sulla duplicità del fenomeno! Ancora artificiosa, sebbene molto meno, è l’interpretazione di twi- come half- ‘metà, mezzo’ col senso generale di ‘mezza luce’ dell’espressione. Tutto si risolve con semplicità estrema se si riflette sul sscr. samdhya oppure sandhya ‘crepuscolo’ il quale, letteralmente e superficialmente, vale ‘commettitura, congiungimento’ (da sam- ‘con, insieme’ e radice dha- ‘mettere’) e viene spiegato, quindi, cerebralmente come ‘momento di passaggio fra la luce e le tenebre’ o viceversa, come se le parole di una lingua fossero il parto di un comitato di saggi che meditano sui concetti che esse debbono esprimere. Senonchè il termine, nel significato di ‘crepuscolo’, va inteso come composto il cui secondo membro –dhya (5) richiama il twi- di ingl. twi-light ‘crepuscolo’ e inoltre, col suo probabilissimo significato di ‘luce’, cancella ogni distinzione tra una radice aspirata col valore di ‘scuotere, scrollare’ e una non aspirata col valore di ‘bruciare, ardere’ nel sanscrito, di cui si è parlato sopra (anche se il termine potrebbe aver assunto l’aspirazione per etimologia popolare). Il primo membro sam- richiama ingl. summer ‘estate’, a.irl. sam ‘estate’, avestico ham ‘estate’, gr. êmar ‘giorno’, dor. âmar ‘giorno’ da *sâmar, arabo-persiano sam ‘fuoco’, accad. Šamaš ‘dio del sole’, ebr. šemeš ‘sole’(6) .

Un’ultima osservazione. L’espressione dialettale a ddèstrë a ssólë, citata sotto il lemma mangósa della nota 2, non significa naturalmente ‘a destra del sole’ come è suggerito dal linguista estensore del lemma, ma costituisce una tautologia in cui a ssólë ripete il significato di a ddèstrë ‘al sole, solatio’. Le ripetizioni tautologiche, specie nel parlato, sono molto più frequenti di quanto possa sembrare: si pensi alla usualissima espressione poi dopo impiegata comunemente al posto del semplice poi oppure dopo.

Il principio della tautologia è di notevolissima importanza non solo perché esso va a toccare un’infinità di composti in greco, nelle lingue germaniche, in quelle dell’antico indiano e in altre ancora, ma offre la possibilità di individuare, in ciascuna di esse, una enorme varietà di radici rimaste sepolte finora sotto il velo dei significati superficiali.

(Scopro solo oggi 26 settembre 2012 che anche in sanscrito l'espressione daksinapatha significa 'la regione del sud -l'attuale Deccan', ma il significato letterale dovrebbe essere 'regione a destra (daksina-)'. Altra voce per 'sud' era dàkhanos. Anche in pracrito si ha dahina- 'sud'): cfr. Franco Crevatin, Etimologia come processo d'indagine culturale, Napoli 2002 p.158, sito web relativo)





                                            Iovi Optimo Maximo 
                                                         atque
                                               Alipedi Mercurio
                                              Philologiae Sponso
                                                    gratias ago



(1) Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998, sub voce mancùsu.

(2) Cfr. Dialetti Italiani, cit., sub voce mangósa.

(3) Cfr. sito web http://www.dizionariogallic.altervista.org/index.htm .

(4) Cfr. Euripide, Supplici, 65.

(5) Questo termine deve senz’altro corrispondere al primo membro del composto greco thyē-phágos riferito al fuoco del sacrificio (cfr. Eschilo, Agamennone, 597). Anche in questo caso, come in quello di dexí-pyros sopra analizzato, si tratta a mio avviso di un composto tautologico per ‘fuoco, fiamma, ara’ divenuto una sorta di epiteto esornativo. Il secondo membro –phág-os combacia, secondo canoniche corrispondenze consonantiche, con la radice verbale ingl. di bake ‘cuocere, seccare’, gr. phóg ‘abbrustolisco’ e probabilmente di lat. face(m) ‘face, fiaccola, luce’. Assolutamente fuori strada è l’interpretazione corrente di ‘(fiamma) che consuma (-phágos) i profumi, le offerte (thyē-)’. Anche la voce dialettale vachi (parmigiano), vacche ‘incotti’, diffusa qua e là in tutta Italia, appartiene a questa radice: si tratta di macchie rossastre nelle cosce delle donne esposte un tempo ripetutamente al calore del camino. I molti altri nomi per gli ‘incotti’ basati su motivi zoomorfi e su altro che ricorrono nei dialetti non debbono trarre in inganno: anch’essi vanno spiegati individuando sotto traccia la rispettiva radice per ‘fuoco, caldo, scottatura’ e simili.

(6) Credo, pertanto, che anche lo stesso Zeús Sēm-aleús ‘che dà i presagi’, dal gr. sẽma ‘segno, augurio, presagio’ non sia in realtà altro che una tautologia in cui si ripete il concetto di ‘luce’ espressa già dalla radice di Zeus, che è quella di lat. die(m) ‘giorno’. L’elemento –aleús va a combaciare con gr. aléa ‘calore’.



Informazione

Informo i miei gentili lettori che la pubblicazione dell'articolo corrispondente al post intitolato La verità fa paura dell'ottobre 2011 non è ancora avvenuta, a due numeri della rivista semestrale RIOn ormai pubblicati.  Spero che il Direttore lo faccia in uno dei prossimi numeri come mi aveva promesso, seppure prospettandomi qualche difficoltà.  Vi terrò puntualmente informati.  Grazie della vostra attenzione

Pietro Maccallini