sabato 15 ottobre 2011

La verità fa paura


Articolo inviato a RIOn.

Alla luce di mie recentisssime acquisizioni lessicali che concernono il valore che la radice di "piano" assume in alcuni dialetti, mi domando se non sia il caso di tornare a riflettere con rinnovato interesse su quanto sostenevo nel par. 4 della mia Postilla pubblicata da codesta rivista —RIOn, XII (2006), 1, p. 346—.


In effetti la mia convinzione, ivi espressa, che dietro l’oronimo di Piano Grande nel Gran Sasso d’Italia si celasse il significato di ‘monte, costa, ecc.’ sia per il sostantivo (Piano) che per l’aggettivo (Grande) viene sorprendentemente e inequivocabilmente confermata, per quanto riguarda il sostantivo, da espressioni del dialetto di Spinazzola-Ba quali chjaen a mònd ‘strada in salita’ e chjaen a bašc ‘strada in discesa’ . Mi pare evidente che la voce chjaen ‘piano’, in queste locuzioni, non possa significare quello che essa sbandiera in superficie, ma debba valere nel profondo qualcosa come ‘movimento, cammino, percorso’ e quindi ‘strada, via’, significato che viene poi a specializzarsi in quello di ‘salita’ o ‘strada in salita’ con l’aggiunta dell’espressione a mònd (a monte, in su), e in quello di ‘discesa’ o ‘strada in discesa’ con l’aggiunta dell’espressione a bašc (a basso, in giù) che forse potrebbe meglio scriversi a bascë. La questione non è di scarsa rilevanza, giacchè la sua giusta soluzione porta, a mio avviso, ad una visione dei fatti linguistici, in specie semantici, molto diversa da quella o quelle tuttora in auge. Essa coinvolge anche i verbi ‘nchianà, acchianà diffusi in molte parlate del centro-meridione d’Italia col significato di ‘salire’. Anche a Spinazzola è presente la voce ‘nghjanè cristallizzata nel significato di ‘salire’.


Carla Marcato, che fa parte del comitato scientifico della Rivista, sostiene che il significato di ‘salire’ in questi verbi proviene da uno più proprio che sarebbe quello di ‘arrivare al piano’(1). L’esimia linguista avrà tenuto questa linea di ragionamento: dopo una salita si arriva sempre ad un tratto pianeggiante. Ma mi permetto di far notare che questa è un’azione del tutto marginale e diversa da quella del puro ‘salire’, azione quest’ultima con la quale l’umanità ha dovuto confrontarsi da sempre sin dalle più remote origini, da quando si arrampicava ancora sugli alberi della foresta o della savana, e mi sembrerebbe strano supporre che essa poi non abbia trovato, in questo caso, un verbo più acconcio e diretto per esprimerla, ricorrendo per giunta al duplice concetto di ‘arrivare’ (non contenuto nella radice) e di ‘piano’, pur trattandosi di un movimento fondamentale nello spazio in cui l’uomo vive e opera. Inoltre, anche dopo una discesa si arriva ad un tratto pianeggiante, e quindi la radice avrebbe potuto esprimere anche lo ‘scendere’, cosa che effettivamente fa, ma in base a ben altro meccanismo: gli è che il suo significato fondamentale è quello di ‘movimento’, il quale può svolgersi sia in salita che in discesa, spingendo così di volta in volta il termine a specializzarsi in un senso o nell’altro, in quello di ‘salita, monte’ oppure di ‘discesa, valle’. Il lat. scand-ere ‘salire’ passa ad indicare il movimento inverso dello ‘scendere’ nel verbo de-scend-ere. Ma c’è di più: io penso che anche l’idea di ‘piano’ espressa dal lat. planu(m) sia un derivato del significato fondamentale della radice: un ‘piano’ non è altro che un’ estensione e cioè un ideale movimento del terreno in senso orizzontale.


Alla stessa idea di ‘movimento, passaggio’ rimandano naturalmente i passi montani come Portella del Pian-etto (prov. Di Palermo), Portella Piano Verde (prov. Di Messina) e Puerto Llano (=Passo Piano) in Ispagna.
Finalmente i vari oronimi (insieme ai relativi nomi di valle) espressi da questa radice plan- hanno avuto giustizia, specie se confrontati con la voce serbo-croata plan-ina ‘montagna’, anche se un po’ dispiaciuti per la perdita della loro aria di mistero. Il tribunale della Ragione, prove alla mano, ne conferma l’origine che supponevo.


Le stesse considerazioni valgono per le voci chaep a mònd ‘strada in salita’ e chaep a bašc ‘strada in discesa’, sempre del dialetto di Spinazzola-Ba in cui chaep significa ‘capo,testa’. Anche qui, dietro questo chaep, si nasconde un significato di ‘via, passaggio, movimento’ come supponevo in altra Postilla —RIOn, XIII (2007), 2, p. 767-8 — in cui commentavo un saggio di Remo Bracchi e, nello specifico, l’odonimo tröi de li cav-àla ‘sentiero delle cavalle’.


Anche in dialetti abruzzesi si incontrano le voci cap-abbàllë ‘discesa’ e cap-ammóntë ‘erta, salita’ usate anche avverbialmente nei significati rispettivi di ‘giù, abbasso, sotto’ e di ‘su, in su’ . Nel mio paese di Aielli ne è vivo (si fa per dire) solo l’impiego avverbiale.




Questo articoletto, inviato elettronicamente alla Rivista oltre tre settimane fa, costituisce una prova sovrana della bontà della mia visione linguistica la quale offre anche la chiave per entrare con molta facilità nei nomi e toponimi delle lingue più diverse del mondo e per capire come si è formato questo strumento della parola che tanta parte ha nel nostro essere uomini. Una prova sovrana, non solo per quello che vi si dice, sostenuto da riscontri inoppugnabili, ma indirettamente anche per la mancanza, da parte della rivista RIOn, di qualsiasi cenno dell’avvenuta ricezione dell’articolo, nonostante un mio successivo invio dello stesso, come avveniva invece sollecitamente negli altri numerosi casi in cui inviavo un mio commento ai saggi ivi pubblicati dai linguisti. La Rivista naturalmente ha tutti i diritti di pubblicare quello che vuole e quello che ritiene più opportuno e utile ad un franco scambio di idee per la soluzione dei problemi, ma mi pare alquanto singolare questa disparità di trattamento nei confronti dei miei commenti che, quando esprimevano solitamente idee radicalmente diverse da quelle dei linguisti, ma senza lo straccio di una prova diretta e inconfutabile, venivano accolti senza difficoltà, direi quasi sollecitati, mentre ora che esibiscono prove inoppugnabili (sarei molto grato a chi mi dimostrasse che mi sbaglio!) di quanto vado sostenendo da anni, vengono completamente ignorati e così si impedisce loro di vedere la luce del sole in un posto riservato evidentemente ai Signori linguisti ed ora credo definitivamente precluso ad un paria come me.
Senza voler scadere in inutile polemica, giudichino i miei pochi lettori da che parte stia la verità e se è giusto e buono che essa rimanga nascosta (ancora per millenni?) all’umanità tutta. Io non mi sento offeso, perché non è un mio diritto scrivere in una rivista che ha il suo direttore, il suo comitato scientifico e il suo editore che sanno la linea da seguire per la vitalità e gli interessi di essa, ma amareggiato certamente sì nel constatare (a meno che non si tratti di un mio madornale abbaglio) che l'irriguardoso demone del potere si insinua anche in campi che ingenuamente ritenevo immuni da certe cattive abitudini che sicuramente non onorano chi le pratica.


Pietro Maccallini


Mi corre l'obbligo di comunicare che il direttore della Rivista ha risposto il giorno 18/10/'11, scusandosi del ritardo e impegnandosi a pubblicare l'articoletto. Pertanto dichiaro nulle le osservazioni fatte nel precedente corsivo.

Finora, ad oltre un anno di distanza dalla data di invio dell'articoletto, non ho avuto il piacere di leggerlo sulla Rivista: spero,  ma sempre più vanamente, che esso apparirà in uno dei due numeri dell'anno 2013.  Vanità delle promesse umane!



Note:




2-Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998, s.v. chiana, p. 135-6.


3-Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, A.Polla Editore, Cerchio-Aq 2004, ristampa della ediz. Di Casalbordino-Ch 1930.

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