sabato 25 giugno 2011

Salvadanaio delle parole




Le parole, se si è in grado di rispettarle e di osservarle senza pregiudizi e senza fretta, rivelano spesso grandi pacifiche verità .
Mettiamo insieme queste due voci del dialetto abruzzese (1) e guardiamole:


1) Rinàle 'orinale'
2) Rinaròle 'salvadanaio'


Che ci sia una forte somiglianza formale è evidente, specie se si considera che in rinaròle si è consumata una probabile dissimilazione tra le due /l/ delle due sillabe finali di un originario *rinalòle. Poi notiamo che i due significati hanno molto in comune, anche se la cosa può passare inavvertita o suonare irrilevante: si tratta di due recipienti, due cavità. Se siamo convinti di ciò, allora possiamo fare con calma un altro passo che sarà quello decisivo, e cioè notare che l'etimo che comunemente e concordemente si dà per rinàle o orinale, non è così sicuro come sembra. L' urina, insomma, non può essere la causa della sua origine se nel rinaròle 'salvadanaio', che pure è composto con quasi le stesse sillabe dell'altro termine, non si ha l'abitudine di versare e conservare urina, pur essendo sostanzialmente un 'vaso'. Allora ecco che scocca nel nostro cervello la scintilla della possibilità che l'uno e l'altro termine traggano i loro natali dalla radice di lat. urna(m) 'urna', ad esempio, attraverso una forma *urnale(m) simile a quella di urinale(m) posta all'origine di it. orinale. Ci convinciamo, poi, che non può essere diversamente soprattutto se diamo il giusto rilievo al principio altre volte da me dichiarato e verificato, secondo cui la Lingua non ama indicare gli oggetti in base alle loro funzioni o caratteristiche particolari, come è abituata a pensare una mente del XXI secolo portata ad apprezzare le cose in quanto dotate di tutti i sofisticati optionals messi a disposizione dalla società industriale avanzata, ma solo in base alla loro nuda essenza, in questo caso quella di un 'recipiente'.


Il principio può sembrare in contrasto con quello saussuriano più volte ricordato, secondo cui è vano pensare che le parole siano nate in vista dei concetti da esprimere, ma non lo è, perchè quello saussuriano è applicabile ai significati di superficie non a quello più profondo.


Prendiamo altre due parole abruzzesi (1) come:


1) Ranga-sècche 'magro'


2)Rregnichìte, detto di persona 'molto magra', pettegola e poco socievole.


Stante il fatto più e più volte sottolineato della composizione tautologica, che doveva essere una caratteristica comune delle lingue preistoriche, è da dedurne che il significato della componente ranga- è uguale a quello di -sècche 'secco, magro'. Infatti esso è esplicitamente riconfermato nella voce rregnichìte 'molto magro' -è presente anche una variante metatetica gnirrichìte (2)-, la quale, ripulita dalle escrescenze sviluppatesi intorno al radicale (raddoppiamento espressivo della -r- iniziale, doppio suffisso -ich-ite, di cui l'ultimo sembra formare il p. p. di un verbo *rregnich-ìre) mette in chiara evidenza una radice regn-, metatesi di reng-, variante indiscutibile del precedente ranga- 'magro'. Gli altri significati di 'pettegolo, poco socievole' debbono essere valori aggiunti naturalmente addossati alle persone macilente, in una società in cui l'essere 'magri' coincideva con l'idea di povertà e bisogno, se non addirittura di malattia. Ma non è tutto. Il termine in questione rispunta nel genovese(2) réncio, emiliano reng', reing', ecc. col significato di 'stecchito', che è un modo diverso per sottolineare l'eccessiva magrezza di qualcuno. L'etimo che se ne dà (dal lat. rigidus) , nel libro citato, è assolutamente inaccettabile, visto che nelle nostre parlate non avremmo mai storpiato in questo modo il supposto originario lat. rigidu(m) 'rigido'. A me pare proponibile una radice corrispondente al ted. rank ' svelto, snello'. Una cosa è certa: la radice è talmente incarnita nei nostri dialetti da poter raggiungere facilmente strati preistorici. Forse il fascino dei suoni metallici e scattanti del tedesco mi inganna. Ma più ci si lascia prendere dalla voglia di parlare e teorizzare e meno si rimane attaccati all'essenziale della Lingua che disdegna le parole sicure dei saccenti di tutte le risme, amando piuttosto -non si crederebbe!- il silenzio delle balze deserte irte di cardi irrigiditi, che sopportano a malapena, di tanto in tanto, un nudo refolo monotone et sauvage.


L'abruzzese rehe (1) 'vicolo' è un altro termine che aggiusta diverse cosette. Non se ne può più di sentir dire da dotti e meno dotti in Abruzzo che l'altro termine dialettale molto diffuso rua, ruella, ecc. 'strada, stradina, vicolo' proviene dal fr. rue 'strada': è colpa della cultura linguistica piuttosto anemica, fin nei nostri Licei un tempo per lo meno luoghi sacri e silenziosi di menti pensanti e appassionate, ora invasi perennemente dall'onda montante di una massa studentesca a dir poco rumorosa e indolente, che detta sue leggi, che non vuole alzare il muso al di sopra del francese (una volta) e ora di uno sbiadito inglesuccio, se è vero che anche le persone dotte ora ignorano che spagnolo, provenzale e portoghese non disdegnano la rua 'via'. I linguisti, che per lo meno così sprovveduti non sono, usano però riportare queste voci ad un basso lat. ruga(m) 'ruga' , diventata forse 'solco', e quindi 'via'. Ma quando la finiremo, Dio buono!, di correre basiti dietro questo o quel fantasma ammiccante nella notte scura che ci fa vedere lucciole per lanterne distogliendoci dalla retta strada? Sarebbe ora di ritornare padroni delle redini del nostro destino e di guidare a miglior corso le nostre menti imbambolate! Questo rehe 'vicolo' opportunamente ci induce a tornare con i piedi per terra e a gettare finalmente lo sguardo sulla radice di lat. reg-ere 'guidare, dirigere', la quale può certamente raddrizzare le distorte vie etimologiche se il suo valore essenziale è quello di 'movimento (in linea retta)': e che cosa è mai una 'strada' se non un movimento fattosi realtà concreta? Le varianti latine di reg-ere, e cioè rog-are 'chiedere (indirizzarsi a)', e-rog-are 'concedere, distribuire(acqua)', ir-rog-are 'proporre, concedere' ecc. ci assicurano che le varie rue 'strade' delle lingue romanze attingono a buon diritto da esse o da varianti, pur essendosi inserite comodamente nel solco di ruga. Interessante l'ingl. rogue 'canaglia' ma arcaicamente anche 'vagabondo'.


Ma chi salverà il salva-danaio? questo bel prodotto nuovo di zecca dotato efficientemente degli attributi giusti per agganciare una clientela sempre più esigente, anche se ora, data l'avversa congiuntura, con scarsi denari da salvare? Che ci sia aria di truffa lo si annusa dal fatto che uno strumento che dovrebbe aiutare la gente a risparmiare denaro in realtà può solo rinviare di qualche tempo un'altra spesa per munirci di altro oggetto divenuto indispensabile nella moderna corsa alla conquista della felicità. Ed è gia grande avventura se non dobbiamo ridurre in mille pezzi il nostro bel salvadanaio per riappropriarci delle nostre monetine tintinnanti. Un guadagno comunque lo possiamo mettere al nostro attivo, capendo che quella di salvare è semmai una capacità dell'uomo, non dell'oggetto cui pertanto faremmo bene a togliere questa etichetta, se la cosa non fosse di per sè risibile, dato che la Lingua non ci darebbe ascolto e seguirebbe sue strade, indifferente alla validità di questo ragionamento.


Forti di questa riflessione ci accingiamo ora a dare uno sguardo il più possibile neutrale all'oggetto linguistico. Esso è composto di due parti saldate insieme alla perfezione, tanto da ingannare gli esperti più esperti circa la loro natura. Ma non noi, che abbiamo fatto dello scetticismo razionale la nostra arma segreta, miracolosa in un mondo di truffatori incalliti e di abili venditori di fumo; e così, arricciando il naso, volgiamo l'occhio clinico all'elemento salva-, un ibrido, per quanto riguarda il significato, tra quello di 'sano' e quello di 'al sicuro, protetto': senza dubbio, come accade quasi sempre in questi casi, vi si è consumato un incrocio con un'idea di 'avvolgimento, copertura' che aleggia nello sfondo ambiguo. Non si può in effetti accettare l'idea che l'ingl. salver 'vassoio', derivato attraverso il fr. salve, dallo sp. salva col significato di 'campione di cibo per scoprire il veleno, piccolo vassoio) esprima nel fondo un'idea di salvezza e che pertanto debba pagare un tributo di somma riconoscenza al verbo sp. salvar 'salvare'! Sappiamo che in certe epoche come nello splendido Rinascimento italiano e tra certa gente era molto apprezzata l'opera di chi riusciva ad evitare che un certo bocconcino prelibato finisse nello stomaco del principe o del sovrano con l'intenzione di spedirli direttamente all'altro mondo, ma ormai trascinati dai nostri principi linguistici, assodati peraltro da una continua verifica, non ci beviamo, senza nemmeno un preventivo e salutare assaggio, l'idea che sia giusto accoppiare, senza interventi soprannaturali, la salvezza col vassoio. Quest'ultimo fa parte della categoria dei vasi o delle cavità che, al massimo, ci forniscono un'idea di 'avvolgimento, copertura'. Già! l'ingl. arcaico to salve, significava proprio coprire, nascondere ma anche, purtroppo, ungere, facendoci così credere che tutto sia cominciato dall'idea di 'unguento' (cfr. ted. Salbe 'unguento') e non da quella di 'stendere sopra, coprire'. E la cosa continua -la Lingua ha il ritmo lento dei pluricentenari biblici, ma che dico!, dello Spirito dei popoli che aleggia per decine di migliaia di anni al di sopra di quei singoli e strani aggregati di carbonio e acqua chiamati uomini che strisciano per alcun tempo sulla terra e poi scompaiono- anche nel gr. olpe (da *solpe) 'ampolla d'olio' ma anche solo 'brocca': a questo punto sfodero però i miei bravi principi, conquistati con sudore e tenacia, e con un colpo ben assestato rompo il malefico incanto: la lingua nomina le cose per quello che sono, non per le funzioni che esse sono di epoca in epoca, di lingua in lingua, chiamate a svolgere. In questo caso l'idea del 'recipiente' la spunta su quella dell' 'olio', il quale interviene solo ad intorbidare le acque.


A questo punto non possiamo non accennare, per la contiguità dei significati, al serbo-croato e sloveno zaljev, zaliv (con la -z- pronunciata come -s- sonora) 'golfo, insenatura, vallone', i quali si affiancano ai numerosi toponimi e madonne che portano il nome di Porto Salvo in Italia (Sicilia: Palermo, Cefalù, S. Teresa di Riva-Me, Barcellona Pozzo di Gotto-Me; Calabria: Melito di Porto Salvo, Porto Salvo-Vv; Campania: Amalfi, Sorrento; Lazio: Gaeta, Terracina; Toscana: Porto di Marina di Salivoli-Li; ecc.). Da non dimenticare, naturalmente, la radice germanica di termini come sala, sal-one che rimandano ad una nozione di 'camera, casa'. Ma anche l'ingl. safe 'cassaforte' può rivendicare, sempre in base al sopra ricordato principio, un'origine separata dall'aggettivo safe 'sicuro, al sicuro, salvo' (che potrebbe essere arrivato successivamente nella lingua inglese) benchè la parentela sia stretta, e avvicinarsi così ai suoi lontani precursori più simili a normali casse e pignatte e vasi dove i nostri lontani antenati ponevano i loro sudati beni e le loro derrate. Lo spagnolo salv-ado 'crusca' rientra ugualmente nel novero dei significati che 'avvolgono, ricoprono, incrostano' come anche l'it. salpa 'similpelle' usata nella rilegatura dei libri. Non sarà un caso se in zoologia si incontra il genere Salpa (il cui nome rimanda al gr. salpe 'tipo di pesce') del phylum dei Tunicati, così chiamati perchè rivestiti da una tunica coriacea o un guscio gelatinoso trasparente in genere di forma cilindrica. Non sarà nemmeno un caso se un altro nome del genere Salpa è Tàlia, dal latino scientifico Thalia, a sua volta dal gr. Thalìa, nome di una delle Muse, le quali ci entrerebbero come i cavoli a merenda. Molto probabilmente coloro i quali misero questo nome partirono da qualche denominazione volgare dell'animaletto o del guscio assonante con quello della Musa, e il gioco fu inevitabile. In sardo, ad esempio, la crusca porta il nome di thalàu/thàlau /thelàu/thélau/talau/telau e nel campidanese tela significa 'cateratta dell'occhio, tartaro, gromma' . Anche il gr. salp-inks 'tubo, tromba' poteva essere usato (Aristotele) ad indicare il pesce suddetto. E così si può spiegare anche la strana espressione registrata da Domenico Bielli nel suo Vocabolario abruzzese che suona salvareggina nella frase Pare na salva-reggine 'persona assai magra, tutt'ossa'. Il primo elemento salva- potrebbe richiamare la durezza del guscio di questi animaletti o del 'guscio' tout court, mentre il 2° elemento rimanda alle voci ranga-secche, rregnichite sopra analizzate.


Una volta assodato quanto sopra per il primo elemento del composto, è giocoforza, a causa del principio tautologico, che anche il secondo, -danaio (da danaro, denaro), trovi la sua origine lungi dalla tintinnante moneta, al riparo dei molti pericoli della vita che, come abbiamo visto sopra, non si svolge proprio in uno dei luoghi più sicuri dell'universo: e che cosa può esservi di più sicuro di una tana? o, se vogliamo usare l'inglese, di una den 'tana, covo' che possono essere poste all'origine di -danaio, -denaro? Le radici vanno a braccetto, a mio avviso, con lat. tina(m) 'bottiglia', it. tino, it. tinello, ingl. tunn-el 'galleria', fr. tonneau 'botte' e, probabilmente, con ingl. tank 'sebatoio, cisterna, vasca' , dan. dunk 'bidone', sardo tanca 'terreno chiuso da siepi o muriccioli', catalano tanca 'parete, barriera che chiude orti, campi, ecc.'. Nella mia tana di Aielli io dormo ora tranquillamente, altri non avranno forse nè la voglia (data la mia insignificanza) nè il coraggio di venirmi a disturbare.


A questo punto anche il gommone salva-gente pencola pericolosamente, in mare, minacciando di por termine alla sua esistenza e a quella delle persone che porta, urlando magari eroicamente muoia Sansone con tutti i Filistei ! Ma, come l'Ulisse di Omero (Od. 5, 334 segg.) che, in una zattera in balia della tempesta, vide spuntare, sfiorando le onde leggera come un gabbiano, la bella Ino Leucotea, la dea dalle bianche braccia, che gli porgeva una sacra fascia, velo, benda di salvataggio (già allora si usavano provvidenziali life-belt, come dice il nome, 'fascia, cintura salvavita'!), la gente nel salvagente si salva, perchè, come per miracolo, si sente sollevare e si accorge che il salvagente avvolge tutte le persone in un sicuro abbraccio come di una cinta, dial. cénta (Aielli), cènte (vocab. abr. del Bielli) similissima a gente con cui il termine antico, per l'incuria degli uomini, venne confuso. E credo che non serva a molto la tarda sua prima attestazione, il 1866: è impossibile pensare che prima di quella data le persone finite in mare venissero impietosamente abbandonate o che fossero salvate solo da forzuti marinai senza nemmeno l'ausilio di qualche fascia o qualche fune per issarle a bordo. A conferma della mia supposizione, il gallurese salva-ghjenti 'salvagente' rifiuta di essere posto a stretto contatto con gallurese genti 'gente': esso protesta con tutte le sue forze la mantenuta fedeltà alla pronuncia velare di lat. gente(m) 'gente', tradita invece dal semplice gallurese genti 'gente'. E così la sua esistenza almeno dall'epoca latina è al di fuori di ogni dubbio! E' presumibile, quindi, che anche lo sp. salva-vidas 'salvagente' debba il secondo costituente non al lat. vita(m) 'vita' ma al lat. vitta(m) 'benda, fascia' dalla radice del verbo vi-ere 'piegare, legare, intrecciare'.


Una volta arrivata al suo porto Salvo la nostra nave ripartirà, salpando l'ancora per altre avventure. Ah! Dimenticavo proprio il misterioso verbo salp-are che non può che indicare -che sbadato!- l' avvolgersi intorno all'argano delle funi che tirano su l'ancora, avvolgimento che ripete, senza che ce ne avvediamo, quello del salva-gente intorno al corpo del naufrago. Eh, cari amici, nel mondo tutto si tiene! E la Lingua di sicuro ci dà una lezione di geniale sobrietà, in insanabile contrasto con la moderna mania dell'abbondanza, dello spreco e della mancanza di rispetto per le cose (lasciando da parte quello per le persone!). Oh, mio padre che invitava con piglio severo me ragazzino sbadato a porre sul tavolo nel verso giusto la pagnotta! Altri tempi, che sembrano lontani anni-luce!






Note


(1) Cfr. sito internet: Treppecore, vocabolario della lingua abruzzese, http://www.abruzzo.fm/archivio/treppecore/treppecore.html .


(2) Cfr. M. Cortelazzo/C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998, s. v.









































sabato 18 giugno 2011

Il curioso della "naticchia " e del "nottolino"



Credo sia a quasi tutti nota (almeno a quelli che si interessano, sia pure per diletto — che in fondo è il modo migliore per farlo!— , di questioni etimologiche) la derivazione della dialettale naticchia, cioè di un termine corrispondente all’it. sali-scendi. Ogni linguista che si rispetti sfodera la sua latina anaticula(m) ‘anatrella’ per via della presunta o vera somiglianza del ‘chiavistello’ al domestico animaluccio anfibio o al suo becco: una volta stabilita questa corrispondenza, la parola sarebbe stata poi estesa al sali-scendi anche se non se ne vede bene la ragione, dato che l’uno è alquanto lungo anziché no e serve a chiudere in genere porte passando attraverso anelli infissi alle stesse, mentre l’altro è ridotto spesso a un segmentino di legno o di metallo, ruotante intorno ad un perno e poggiante, all’altro estremo, su un gancio, e serviva a chiudere soprattutto gli scuretti delle finestre più o meno rustiche di una volta. Ma ammetto che la distinzione non ha valore alcuno di convincimento e che essa pecca della stessa restrizione di idee che generalmente rimprovero ai linguisti. Nessuno, però, che io sappia, ha avuto qualche secondo a disposizione per riflettere sul fatto che i due termini, almeno in apparenza, potrebbero tradire, se messi alle strette, un’origine diversa da quella che si suppone per naticchia, ma tuttavia sorprendentemente uguale per ambedue. In effetti naticchia sembra essere, più probabilmente, un diminutivo *nati-cula(m) di lat. nat-e(m) ‘natica’, non di lat. anate(m) ‘anitra’, mentre nottolino, se appena se ne toglie la crosticina dovuta al suo quasi inevitabile incrocio con lat. nocte(m) ‘notte’, è costretto a richiamare il corradicale termine greco nôt-on ‘dorso, tergo, spalle’, che può essere considerato, come i linguisti affermano, variante di lat. nat-e(m) ‘natica’. Ora, il concetto di ‘dorso, natica’ è compatibile con quello di ‘protuberanza’ (in effetti nottola vale anche ‘pomo di legno tornito con funzione di sostegno o di ornamento’ (1), e quindi avrebbe potuto indicare anche un’escrescenza, paletto, stecco, stecchino, significati che farebbero proprio alla bisogna per denotare la spranghetta di legno o metallo della naticchia o nottolino o saliscendi, con una esibizione di precisione, quest’ultimo, che ne coglierebbe il movimento all’ingiù di aggancio (-scendi) e all’insù di sganciamento (sali-) dal nasello di cui ho detto. E’curioso, ma questa definizione sarebbe andata a pennello anche per il pomo d’Adamo aduso, soprattutto quando è ben in evidenza, a spostarsi su e giù seguendo il movimento di una bocca che deglutisce, significato (questo di pomo d’Adamo) che però spunta, sia pure come obsoleto, tra quelli del termine nottolino, e non tra quelli di sali-scendi. Che peccato! potrebbe a questo punto esclamare chi è abituato a seguire questi ragionamenti quando si tratta di stanare qualche etimo, ma noi, cui la Lingua ha insegnato perlomeno ad essere un poco guardinghi e a non porgere facile orecchio ai significati di superficie che indicano vistosamente la funzione cui sarebbe deputato un referente o il suo modo di comportarsi, volgiamo indifferenti gli occhi altrove e troviamo giusto e naturale che una radice, il cui significato di fondo richiama la ‘protuberanza’, si presti a significare anche il pomo d’Adamo, il quale, nonostante la sua aura di antica nobiltà religiosa, è pur sempre un nome che indica, appunto, la piccola protuberanza nel collo degli uomini che, a mio particolare avviso, potrebbe trovare la ragione della sua specificazione anche nel semplice nome del Monte Adam-ello nel Trentino, o in quello di Monte Adamo a Castelplanio-An., ad esempio, senza dover ricorrere al povero Adamo della Bibbia che si fece abbindolare, come sempre, dalla più maliziosa e vorace Eva. E’ curioso, ma l’oscillazione tra la radice nat- e not- la si ritrova anche nel binomio natola(2) ‘incavo dello scalmo in cui si appoggia il remo’ e nottola(3) ‘tipo di scalmo che ha lo scopo di evitare lo sfregamento del remo contro il fianco di un’imbarcazione’: a me pare che si tratti, sostanzialmente, di un unico referente, lo scalmo, indicato da due varianti della stessa radice e caratterizzato, ai suoi primordi, da una caviglia di legno, cioè qualcosa di molto simile ad una spranga su cui poggiare e legare i remi.

E’ un vero miracolo se i linguisti non hanno preso ad avvicinare il nottolino, detto anche nottola, all’uccello notturno chiamato nottola, nome che indica la ‘civetta’ o il ‘pipistrello’. In fondo si tratta sempre di volatili come l’anitra (anche se quest’ultima non passa le giornate volando come il pipistrello le notti ), ma l’aspetto un po’ ripugnante del pipistrello o la nomea popolare della civetta avranno scoraggiato ogni tentativo da parte di chiccessia di iniziare una simile operazione. Mi sbaglio: il DELI(4) lo fa, con l’annotazione che già in latino usava riferirsi all’oggetto con nomi di animali (si rimanda alla supposta anaticulam ‘anatrella’?).

Il significato di sali-scendi, dicevamo, è troppo descrittivo, razionale, per poter essere considerato con qualche probabilità quello originario: in effetti la componente -scendi (da lat. scand-, che all’interno di parola muta in –scend-) mi pare troppo pericolosamente vicina a lat. scand-ula(m) ‘assicella’ perché la radice di questa non debba essere presa per buona ad indicare proprio il ‘nottolino’; la componente sali-, d’altronde, potrebbe tautologicamente rinviare all’ it. sala ‘erba palustre’ o anche al lat. sal-ice(m) ‘salice’ in quanto ‘piante’, abruzzese sajjòcche 'randello con capocchia' da *sall-òcche, ma non è sgradito l’intervento diretto di it. sala ‘ asse delle ruote’, fatto derivare da un lat. tardo *axalem (lat. axe(m) ‘asse’) non so con quanta verità. Il saliscendi certamente non rinuncia a sfruttare tutte le sue possibilità espressive, offertegli dai verbi con cui si incontra in latino e in italiano: esso indica infatti anche una ‘successione di tratti in salita e in discesa’ nonché il ‘viavai lungo una scalinata’. Ma la radice scand- in latino fa intravedere altre sue possibilità quando passa a significare la suddivisione del verso nelle sue parti (cfr. lat. scand-ere ‘scandire’), sicchè un’idea di ‘taglio’, la quale è una specializzazione della ‘spinta’ iniziale che sta dietro il suo ‘salire’ o ‘scendere’ (movimento), mi sembra che si installi al suo interno, idea che riappare nel ted. Schanze ‘ trincea’ e nel primo membro di it. scanna-fosso ‘fosso di scolo’ sottoposto ad assimilazione progressiva, da *scanda-. Ne avevo dato una spiegazione leggermente diversa nell’articolo sulle parole di Scanno-Aq. ma fondamentalmente in linea con l’attuale interpretazione. Il ted. Schanz-pfahl ‘palizzata’ (letter. ‘palo da trincea’ è uno di quei composti che, partito come tautologico (cfr. lat. scand-ulam ‘assicella’ sopra ricordata), si è ritrovato ad essere uno dei tanti composti germanici in cui il primo membro specifica il secondo, in questo caso –pfahl ‘palo’. Non credo affatto che questi composti di natura squisitamente cerebrale e descrittiva siano potuti nascere a tavolino, per quanto essi a volte abbiano una forza di seduzione e convincimento senza pari: bisognerebbe tenere sempre presente , però, il pensiero di Saussure (che ho spesso rammentato e di cui egli stesso ignorò la vastissima portata — o, meglio, della cui portata si rese conto ma senza poi estenderla ad abbracciare i significati in modo così radicale—, che ho fatto mio e che vado verificando quasi ad ogni passo) secondo cui dovremmo toglierci dalla testa che la lingua sia un meccanismo creato e ordinato in vista dei concetti che deve esprimere: essa tende sempre a sfruttare una situazione precedente, che era caratterizzata spessissimo, come in questo caso, da materiale di riporto, spesso tautologico. Da prendere in osservazione anche l’it. scand-aglio , in cui si consuma l’incrocio tra l’idea di misura, scala e quella di cavità, profondità, e l’it. scansìa ‘scaffale’.

Non rallegriamoci troppo facilmente, però, perché la Lingua potrebbe darcela a bere ancora una volta con la nottola quando indica i due volatili notturni, la civetta o il pipistrello (già questa oscillazione è sospetta!). Le insidie della lingua, come quelle della vita, sono molto più numerose e subdole di quanto pensiamo. Già!, bisogna stare con le orecchie dritte, guardarsi dai nomi che non indicano direttamente i referenti ma, come in questo caso, solo la parte del giorno, la notte, in cui questi volatili sono attivi. Si tratta, in effetti, di una variante di quei casi in cui, invece, viene indicata la funzione dei referenti. La lingua non ama girare attorno ai concetti da esprimere, anche se può apparire il contrario. Mettiamocelo bene in testa una buona volta, e allora potremo evitare, se Dio vuole, di dar di cozzo e romperci le corna contro gli ostacoli, come chi è cieco o vede male per qualche infermità degli occhi. Altrimenti finiremo anche con l’arrogarci il diritto di poter arzigogolare, ad esempio, che il nottolino è così chiamato perché chiude gli scuri o scuretti i quali, come dice il loro nome, portano l’ oscurità o la ‘notte’ nella stanza. Ma, ahimè, questo ragionamento non farebbe molta strada perché saremmo costretti a riconoscere che l’etimo del nome scuro (lat. ob-scur-um ‘oscuro’) ci porta in area germanica a contatto nientemeno che con le scarpe (cfr. ted. Schuh ‘scarpa’, ingl. shoe ‘scarpa’, ingl. sky ‘cielo’, in quanto ‘volta’, ‘cupola’ del cielo che, benchè luminoso come è spesso nella nostra bella Italia, avvolge comunque e copre idealmente tutto il bello e il brutto della Terra) le quali, più che l’oscurità, offrono un riparo, una copertura ai nostri poveri piedi, di giorno più che di notte quando in genere dormiamo e ne facciamo volentieri a meno, facendoci così balenare nella mente che il significato originario della radice o, meglio, quello immediatamente precedente ad ob-scuru(m) ‘oscuro’, indica più semplicemente un coperchio, un qualcosa che nasconda e ripari, uno scuro, appunto, che preferiremmo ci separasse soltanto da sguardi indiscreti e non portasse l' oscurità all'interno ! Ancora una volta la verità etimologica la troviamo in seno alla natura del referente che in questo caso è primariamente quella di ‘coprire’, secondariamente quella di ‘oscurare’. Ma se vogliamo essere ancora più radicali siamo costretti ad ammettere che uno scuro, prima di essere piegato a svolgere la sua funzione di ‘copertura’, era generalmente una tavola, come nell’abruzzese scurréttë (5) ‘asse sottile e lunga’, con raddoppiamento della consonante pretonica. Se, come cuccioli desiderosi di esplorare il mondo, troppo prematuramente e audacemente ci allontaniamo dalla sicurezza della tana costruitaci dai genitori e dalla bontà del seno materno che ci dona latte genuino, lasciandoci allettare dai mille, vistosi e accattivanti richiami che provengono dall’esterno, pagheremo a nostre salatissime spese il pur legittimo desiderio di conoscere. Perché la Natura all'esterno non ha riguardo alcuno per noi se siamo indifesi, e, se vogliamo sopravvivere e avere successo con le nostre forze nella spietata lotta per l'esistenza che vi si svolge, dobbiamo commisurare i passi alla nostra acquisita capacità di difesa dagli attacchi nemici (soprattutto quelli imprevisti, che sono, in genere, i più micidiali), capacità che si potenzia di molto se riusciamo ad individuare i punti deboli dei nostri avversari.

Dicevo più sopra che già l’oscillazione di significato dell’italiano nottola ‘civetta, pipistrello, succiacapre, miliobate —un pesce’ (da lat. noctuam ‘nottola, civetta’), depone a favore di un significato originario che valesse per ogni animale, come del resto attesta l’ormai nota intercambiabilità dei termini per i piccoli animali di cui ho parlato in altro articolo; naturalmente l’incrocio con il lat. nocte(m) ‘notte’ ha contribuito a non far allontanare l’originaria nottola dai limiti temporali in cui questi uccelli sono attivi. Ma è da scommetterci che la vera radice si nasconde sotto quella di ingl. neat ‘bove, mucca, vitello, toro’; a.a.t. nōz ‘capo di bestiame’; dial. nicchia ‘mucca’ (a Villapiana-Cs) da un lat. *nitela(m), *nitula(m); lat. nitela(m) ‘scoiattolo’; lat. nitedula(m) ‘topo campagnolo’; sardo logud. boes de notte (buoi di notte) ‘esseri fantastici a forma di bue che annunciano la morte imminente’ in cui si nota l’incrocio anche con la radice di lat. noc-ere ‘nuocere’, lat. nec-are ‘uccidere’, gr. nék-ys ‘morto’; gr. nōt-éus ‘bestia da soma’ incrociatosi con gr. nôt-on ‘dorso’ già citato, il quale meriterebbe altre osservazioni che rimando ad altra occasione; ingl. colloquiale neddy ’somaro, cavallo’, naturalmente non in quanto abbrevazione di Edmund, Edgar, Edward i quali certamente si chiederanno stupiti, e un po’ risentiti, perché mai i loro diminutivi abbiano potuto fare quella fine come i linguisti sosterranno. A me sembra chiaro che, tra le moltissime possibilità di specializzazione che ogni termine per 'animale' ha, come il precedente, saranno scelte dalla lingua con maggiore probabilità quelle che sono suggerite in qualche modo dalla parola con cui si incrocia: proprio per questo, insomma, tutti gli uccelli indicati da nott-ola hanno abitudini notturne, tranne il pesce miliobate, credo. Comunque non è esclusa la possibilità che la radice di lat. nocte(m) si prestasse ad indicare, come tutte le altre, anche ‘animali, uccelli’: in questo caso resterebbe la stessa preferenza della lingua ad indicare, con quella radice, gli animali attivi durante la notte.

Concludendo, mi pare utilissimo fare questa riflessione: se in una materia così minuta e poco coinvolgente, come quella dei nomi relativi al “saliscendi”, sono così numerosi i trabocchetti e gli incontri sulla strada dell’etimologia, che cosa non bisogna essere pronti ad attendersi quando si tratta di spiegare parole e brani densissimi di tradizione orale e che hanno animato per millenni il sentimento religioso dell’umanità attirando continuamente l’attenzione su se stessi, come quelli dell’Antico Testamento?



Note

(1) Cfr. T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Paravia, Milano 2000.
(2) Cfr. T. De Mauro, cit.
(3) Cfr. T. De Mauro, cit.
(4) Cfr. M. Cortelazzo/P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Mondolibri S.p.A., Milano 2005.
(5) Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.

mercoledì 1 giugno 2011

Paralipomeni dell'articolo sulla Pasqua con lunga coda a sorpresa su "bascula", "bilancia" e altre simili bazzecole

In questi giorni ho continuato a riflettere sulla possibilità di interpretare qualche piccolo brano del racconto biblico sul passaggio del Mar Rosso nel modo che ho mostrato, cioè indovinando le risonanze semantiche di una radice che, in quanto tenuta in vita per millenni nel racconto della tradizione, ha potuto aggregare intorno a sé molte parole attratte dall’affinità dei significanti. E così, con l’aiuto dei dialetti, si possono fare scoperte mozzafiato riguardanti non solo l’idea di passaggio ma anche altri campi semantici, nei quali si entra con la furia di certi acquazzoni estivi che, tramutatisi improvvisamente in grandine, si abbattono impietosi sugli orti e i coltivi dei linguisti.


Mi ha ispirato in questo caso l’italiano arcaico e dialettale peschio che ha diversi significati: ‘paletto, chiavistello, serratura, toppa (1) della serratura (a Luco dei Marsi-Aq), rupe, sasso’. Nel significato di ‘altura, colle, monte’ ricorre in molti toponimi, soprattutto abruzzesi, come Pescocostanzo, Pescocanale, Pescosansonesco, Pescasseroli, ecc. Nel dialetto di Castellaffiume il termine significa esattamente ’luogo alto e ripido’ (2), cioè una sorta di dirupo, di parete scoscesa, quasi verticale. Linguisticamente il termine peschio presuppone un latino parlato pesc-ulu(m), pesclu(m), variante di pessulu(m) ‘chiavistello’, il quale, solo perché appartenente al latino classico, non può essere considerato come origine dell’altro: potrebbe essere il contrario, o si tratta piuttosto solo di varianti coesistenti da lungo ordine di anni. Si incontra anche la variante pestulu(m) da cui la forma senese pestio ‘chiavistello’, spagn. pestillo ‘chiavistello’.

Il significato di ‘buco’ inerente a quello di ‘toppa della serratura’ si ritrova a mio parere anche nell’altro termine abruzzese, simile al precedente, pisc-óla, pësc-óla, pisc-ólla, ecc. ‘pozzanghera’, in cui deve essersi verificato un incrocio con un termine per ‘acqua’, ma anche in toponimi come la grotta Pesco del Diavolo a levante di Leuca (Salento) dove la specificazione ripete tautologicamente il primo significato: esistono vari Passi (o ‘ponti’) del Diavolo in cui il diavolo non c’entra nulla se non perché il termine ha la stessa radice di gr. dia-bállō ‘io attraverso, passo (faccio passare) oltre’ usata però nel senso figurato di ‘calunniare’. Un altro bel toponimo è quello delle gole selvagge del Pesco Rosso nel Molise le cui pareti sono ‘rosse’: qui evidentemente si incontrano i due significati di ‘buco, passaggio’ e di ‘luogo alto e ripido (parete)’, presente quest'ultimo nel dialetto di Castellafiume-Aq. A questo punto non ci resta che richiamare alla mente l’ebraico pesach ‘passaggio’, trasformarlo legittimamente in un pesch-, parallelo a pascha' Pasqua', sfruttando l’estrema mobilità, nelle lingue semitiche, delle vocali all’interno della parola, e come d’incanto ci ritroveremo a contatto col precedente termine pesco, che certamente ci tornerà utile a spiegare le due “pareti (muri) di acqua” che secondo il racconto dell’Esodo si innalzavano a destra e a sinistra degli Ebrei in marcia attarverso il Mar Rosso. Nel dialetto del mio paese si usava l’espressione pijjà nu péscë ‘prendere un pesce’ per ‘bagnarsi fino alle ossa’, quando uno non aveva potuto ripararsi all’arrivo della pioggia o di un acquazzone: il pesce qui coinvolto dovrebbe essere stato quindi termine per ‘acqua, pioggia’ che si ritrova in idronimi come fiume Pesc-ara, torrente Pesch-iera, ecc., ed è forse variante di irlandese uisce ‘acqua’.


Il significato di ‘paletto, chiavistello, catenaccio’ relativo a peschio collega a mio parere questo termine col trasaccano pasqu-alótte (3): « “Pasqualotto”; è così chiamato il supporto della tavola da stiro con il quale si stirano le maniche delle camicie infilandovele dentro. Ha la stessa conformazione della tavola grande alla quale è applicato, ma molto più piccolo». Con queste parole definisce l’oggetto Quirino Lucarelli, facendo capire che si tratta di un’asse di legno, molto simile ad un paletto squadrato, ad una spranga. Mi tornano allora in mente le parole con cui Alfredo Cattabiani, parlando del passaggio del Mar Rosso, indica il fatto che «Yaweh era saltato oltre le case o le tende degli Israeliti, i cui stipiti e architravi o paletti (il corsivo è mio) erano stati segnati dal sangue del primo nato del gregge»(4) . Immagino che le parole ebraiche di questo episodio dell’Esodo, esprimenti il concetto di ‘stipite’ ed ‘architrave’, possano contenere anche altri significati come ‘palo, trave’. Avviene lo stesso per l’it. stipite, dal lat. stipite(m) ‘albero, tronco, palo, bastone’. Balza allora evidente agli occhi la somiglianza tra la radice di pasqu-alóttë ‘paletto’ e quella di Pasqua, attraverso però il significato del sopra descritto peschio ‘paletto’, il quale si configura come una variante del termine trasaccano, e spiega così anche l’origine dell’episodio biblico suddetto: la radice della parola Pasqua si era incrociata, in tempi lontanissimi, con altra simile che però significava ‘paletto’. Il Lucarelli, nella spiegazione del termine, fa capire che propende, come fanno spesso anche i linguisti in questi casi, per una etimologia che chiami in causa il nome personale Pasquale, usato scherzosamente ad indicare l’oggetto. Lungi da me un atteggiamento simile, che chiude a doppia mandata il problema, mettendoci definitivamente un macigno sopra. La lingua è più severa ed essenziale di quello che sembra, essa indica quasi sempre direttamente l’oggetto da esprimere senza ricorrere ad espedienti metaforici o metonimici, senza fronzoli più o meno ornamentali. Basta scavare sotto la superficie per trovare l’osso duro.

Nel libro citato del Lucarelli si incontra la strana voce piscë che, oltre ad indicare l’ urina, come avverbio significa ‘in bilico’ (detto, ad esempio, di moneta che, cadendo, rimane dritta nel gioco di testa o croce) e che fa il paio con le due altre espressioni trasaccane pëscujjènnë ‘indugiando, in modo indeciso, dubbiosamente’ forma di gerundio avverbiale tratta dal verbo pëscuijjà ‘guazzare, battere i piedi in una pozzanghera come di solito fa un bambino’, denominale da pëscóla ‘pozzanghera’ di cui abbiamo già parlato. Simile è l’avverbio pëscujjùnë ‘in modo imbrattato, in modo indeciso, dubbioso’. E’ chiaro che il significato di ‘pozzanghera’ non può aver dato origine a quello così diverso di ‘dubitare, dubbio, incertezza’. Allora, secondo me, bisogna guardare alle forme bìscolo (veneto, lombardo), bìscul, vìscol, bàscule (friulano) ‘altalena, dondolo’(5) le quali differiscono dalle precedenti essenzialmente per la labiale sonora iniziale b-.


Ma la cosa più interessante è notare che la forma friulana bàscule richiama la bascula ‘bilancia (per grossi carichi)’ fatta derivare dal francese bascule, il cui etimo proverrebbe secondo i linguisti da fr. bas ‘basso’ e cul ‘culo’, perché nel gioco dell’altalena il sedere andrebbe alternativamente a battere al suolo. Tanto è vero che il termine viene fatto discendere da bacule, deverbativo di baculer (sec. XV) ‘punire facendo battere (fr. battre) le natiche (fr. cul) contro il suolo’ in cui si sarebbe poi inserito bas ‘basso’. La definizione l’ho tratta dal dizionario Webster, s.v. bascule. A dire il vero a me questa spiegazione è sembrata un po’ artificiosa: il verbo baculer ’battere il sedere’ potrebbe essere venuto direttamente dal lat. baculum ‘bastone’; in effetti il corrispondente verbo italiano bacchiare, oltre al significato di ‘percuotere i rami di un albero con una pertica per farne cadere i frutti’, ha anche quello conseguenziale di ‘far cadere i frutti per terra’. Sul verbo si è poi esercitata l’etimologia popolare ricavandone i significati di cui sopra. Infatti a me pare che sotto il fr. bascule ‘altalena, bilancia a bilico’ bisogna scorgere lo stesso fr. bâcle ‘spranga, sbarra, stanga (per chiusura di porta)’ la cui –â- con l’accento circonflesso garantisce che precedentemente la parola era *bascle, molto simile alla radice di trasaccano pasqu-al-óttë ‘paletto’, variante di lat. pesclu(m) ‘peschio’. Nella parola bascule è stata proprio l’etimologia popolare ad evitare la scomparsa della –s-. Che cosa ci entrerebbero, però, tutti questi pali, sbarre, spranghe con la bascula ‘bilancia, altalena’? Ma è semplice! Spesso la bilancia viene indicata proprio dal suo giogo (in bilico) su un fulcro o perno: cfr. lat. iugum ‘giogo, bilancia’, gr. zyg-ón ‘giogo, bilancia’, gr. stathmós ‘pilastro, stipite, bilancia’, gr. zygó-stathmos ‘bilancia’(composto tautologico). Il lat. trutina ‘ago della bilancia, bilancia’ di ascendenza greca prende il nome dall’ ago che segna il peso e che comunque è sempre una ‘punta, puntello, asticella’. Purtroppo la forma mentis che ci ritroviamo ora, e che ci induce spesso in errore quando si tratta di individuare un etimo, è quella di chi è abituato, dalle parole da tanto tempo specializzatesi, a rintracciare un significato che sia altrettanto specializzato, preciso, esatto, andando praticamente contro la naturale corrente della Lingua che si è mossa dal generico per arrivare allo specifico (la vicenda di fr. bas-cule ‘altalena’ insegni!). Soffermandoci ancora su bascula, notiamo che già Ottorino Pianigiani (1845-1926), famoso magistrato linguista, nel suo dizionario etimologico, presente in rete, metteva in guardia contro l’etimo che derivava la parola dal francese, data la presenza dei friulani bascli, bascul ‘altalena’. Evidentemente i linguisti provano, tanto per scherzare, sentimenti filogallici o hanno calcolato che le voci friulane sono posteriori alla data della prima attestazione del termine bascula in italiano (1890), cosa difficilissima da provare.

Una volta assodato quanto sopra si fa strada nella mia mente il sospetto che anche l’it. bilancia non la racconti molto giusta quanto al suo etimo, accettato credo da tutti i linguisti. Essa deriverebbe dal tardo lat. *bi-lancia(m), strumento formato o munito di due (lat. bis) piatti (lat. lance(m)’piatto’) come a volte sono le bilance. Ma io ho l’impressione che anche in questo caso, come in quello di bi-dente (cfr. l’artic. L’italiano “bidente”… dell’aprile 2010), il termine bi-lancia non sia stato coniato improvvisamente dal nulla, data la sua natura descrittiva più che direttamente indicativa, senza l’appoggio di una base più semplice e sia invece la reinterpretazione di un precedente termine che va segmentato in bil-ancia, il cui primo membro coincide con quello, ad esempio, di bili-dente ‘bidente’ (a Pescina-Aq): l’elemento bili- ha lo stesso valore di ‘dente’ del secondo membro, e quindi poteva significare anche ‘punta, perno, stanghetta, birillo, tronco (cfr. gallico bilia ‘tronco’), ecc.’, tutti concetti adatti ad esprimere il ‘giogo’ della bilancia’ o anche il ‘perno’ o la ‘cerniera’ su cui essa oscilla. Ricordiamo il toscano billi ‘gioco dei birilli’, il sardo nuorese bill-illa, bill-edda ‘piccolo pene’, ligure bel-ìn ‘membro virile’, fr. bill-ette ‘piccolo ceppo, bastoncino’, fr. bill-ard , inizialmente ‘stecca da biliardo’, ingl. bill ‘becco, punta, promontorio’, ingl. billy ‘manganello’ (non mi passa nemmeno per la testa l’idea, tanto cara ai linguisti, di derivarne l’etimo da Billy, diminutivo di William ‘Guglielmo’), serbo-croato biljka ‘pianta’, ucraino byl ‘stelo d’erba’, gr. bél-os ‘dardo, giavellotto, spada, pungiglione’, gr. bel-ónē ‘ago’, ecc. Con molta probabilità, allora, l’elemento appartiene a questa vasta famiglia di cui dovrebbe far parte anche l’italiano bil-ico, dell’espressione in bil-ico che, a mio avviso, richiama lo spagn. en vilo ‘in bilico, col fiato sospeso’. L’etimo che solitamente si dà per bilico è quello di (om)-belìco, il punto centrale di un corpo che generalmente è quello che tocca un altro corpo su cui bilica. A me questa pare un’altra etimologia un po’ infelice che comunque lascerebbe fuori il corrispondente termine spagnolo che potrebbe riallacciarsi anche all’ungh. villa ‘forchetta’. E non è da considerare affatto cervellotico nemmeno l’accostamento del ted. billig ‘equo, giusto, ragionevole, a buon prezzo’ al termine in questione, perché i suoi significati collimano tutti con un eventuale significato originario di ‘in equi-librio, equilibrato’(6) . La radice, manco a farlo apposta, si ritrova in voci abruzzesi (7) come scianna-vèllë ‘altalena’ (scritta çanna-vèlle dal Bielli, per distinguere il suono della fricativa palatale sci-, sce-, più marcato, da quello della fricativa palatale ç- , “più tenue e dolce”, come lui si esprime. Si tratta in effetti di pronuncia scempia o doppia dello stesso fonema), vell-arë ‘altalena’ (a Rivisondoli-Aq). Il primo costituente di scianna-vèllë corrisponde a quello di abr. sciannë ‘zana, culla’(da a.a.t. zaina ‘cesto’) ma anche a ted. Zain ‘verga’. Interessanti le altre voci simili come scianna-nùculë ‘altalena’ il cui secondo membro dovrebbe derivare, per metatesi, dal tardo lat. cunula(m)’culla’, ma è più probabile che sia variante del meridionale naca ‘culla’ (si incontra, infatti, nel sito internet DeScrivendo una poesiuola: Bella la nicula nacula / fatta di sole e di luna / ci si dondola e si gongola coi tuoi versi… Allora diventa chiarissimo l’it. nicchiare ‘tentennare, esitare, titubare’, da *nicul-are, *nicl-are , per il quale si fanno invece supposizioni le più varie e fantasiose, e contemporaneamente si spiega perché il lat. nuc-em ‘albero del noce, noce’ —estraibile dal secondo elemento di scianna-nùculë— nasconda nel suo interno, come ogni altro nome specifico di albero (la stessa cosa avviene per gli animali) e come ho sostenuto con forza in altri articoli, il valore generico di ‘albero, tronco, palo, stanga’, concetto che in questi casi vediamo connesso appunto con quello di ‘giogo della bilancia’); scianna-vìculë ‘altalena’ il cui secondo costituente si riallaccia all’ingl. weigh ‘peso’; a. norreno vaga ‘culla’; ted. Wiege ‘culla’; ted. Waage ‘bilancia’; ted. Ge-wicht ‘peso’; ingl. wiggle ‘dimenarsi’; ted. Woge ‘onda’; it. meridionale voca, voga ‘altalena’; it. tra-bucco (tra-bocco, tra-vocco) macchina da pesca tipica delle coste abruzzesi chiamata tecnicamente bilancia, costituita da due antenne di legno ancorate ad un pontile, che sostengono una grande rete; fr. tré-buch-er ‘inciampare, barcollare, cadere, tra-boccare (di peso, bilancia)’; it. tra-bocchetto; it. tra-bocco ‘macchina da guerra simile alla balista, per lanciare proiettili’; it. bac-ula ‘trabocchetto situato anticamente dinanzi alle porte di una fortezza’. L’elemento –bucco, -bocco, -vocco, vac- richiama il provenzale buc ‘busto, tronco’, ted. Buche ‘faggio’, ingl. beech ‘faggio’, ingl. bough ‘ramo’, lat. bac-ulu(m) ‘bastone’, gr. bák-tron ‘bastone’, spagn. viga ‘trave’ (cfr. sardo nuorese-logud. fache ‘ramoscello che si brucia alla bocca del forno’ che richiama lat. fagu(m) ‘faggio’, incrociatosi con lat. face(m) ‘face, fiaccola’). L’elemento tra- è tautologico rispetto all’altro e, a mio avviso, richiama l’ingl. tree ‘albero’, germanico tra ‘albero’ (cfr. abr. scian-drë (8)altalena’ il cui primo elemento rimanda al tipo scianna- già incontrato). Il meridionale voca, voga sopra citato, quindi, non può assolutamente, per il suo stretto rapporto con i termini precedenti e con l’elemento abruzzese –vìculë ‘altalena’, essere spiegato come derivante da un greco parlato *baukân ‘dondolare’, come alcuni affermano (9) . Lo stesso italiano voga si configura allora come una ritmica oscillazione di remi, come se si trattase dei bracci di una bilancia. Si incontra in Abruzzo anche scianna-fìcura ’altalena’, per incrocio di –vìculë con fìcura ‘albero del fico, fico, fichi’. Ma è più probabile che dietro la componente -fìcura agisca l’idea generica di ‘palo’, come per -nucula. D’altronde essa si ripresenta, insistente, anche in abruzz. sciáncula-ficura ‘altalena’ il cui primo membro abbiamo la fortuna di poter individuare nei vari abruzz. scianculїà, sciancujà, scianchїà ‘trimpellare, vacillare (degli zoppi)’, significato che fa proprio al nostro caso. Formalmente esso si presenta come ampliamento dei precedenti scianna-, scian-. Che l’elemento -vèllë non sia da considerare un risultato di un precedente *wi(ks)lom dalla radice di –viculë ‘altalena’ (cfr. lat. velum ‘vela’ fatto derivare da *wekslom come fa pensare il diminutivo lat. vexillum ‘vessillo’) mi pare che lo attesti anche la stabilità della radice vel(l)-, bel(l), bil(l)-, in tutti i vari esempi su riportati. Il ted. Welle ‘onda’ può spiegare l’ altalena, e la stessa radice, che significa anche ‘rullo, cilindro’ può arrivare ad indicare anche un’ escrescenza (cfr. aiellese cucca-vèlla ‘gallozzola’), un tronco, palo, una pianta come in ted. Well-baum ‘albero da fusolo’ (così traduce il mio vocabolario, ma probabilmente si tratta di ‘palo’ —cfr. ingl. beam ‘trave, giogo della bilancia’, ingl. boom ‘braccio della gru, boma’, ted. baum-eln ‘ciondolare, penzolare’—): l’elemento Well- non può qui significare ‘onda’ ma deve avere tautologicamente lo stesso valore di ‘fusolo’, cioè ‘palo’ che si conficca sul fondale di una laguna per la mitilicoltura. Cfr. abruzzese véllë (10) ‘sala, pianta palustre le cui foglie lunghe e strette servono ad impagliare segge, rivestire fiaschi, ecc.’. Il termine bilico, nel suo aspetto ondoso, si ritrova, a mio parere, tale e quale anche nell’ingl. billow ‘ondata’, che si confronta con m.a.t. bulge ‘ondata’, m.b.t. bülge ‘ondata’, ingl. bulge ‘escrescenza, protuberanza, rigonfiamento’, dan. bölge ‘onda’, ingl. bilge ‘gonfiarsi, rigonfiarsi’; nel suo aspetto arboreo riaffiora nell’ingl. willow ‘salice, battitoio, mazza (non perché fatta di legno di salice!)’, dal m.ingl. wilghe ‘salice’, in cui esso combina l’idea di ‘flessibilità’ con quella di ‘palo, albero’ di ingl. balk ‘trave’: ma nel verbo to balk ‘tentennare, titubare’ riaffiora la natura ‘ondivaga’ della radice che significa anche ‘ostacolare, bloccare’ come to bilk ‘ostacolare, imbrogliare’. Cfr. i seguenti termini tratti dal vocab. del Bielli: valëc-arèllë ‘altalena che si fa con due travi (cfr. ingl. balk ‘trave’) di cui la superiore a bilico’; vàlëchë ‘gualchiera, oscillazione’; valëchїà ‘muovere con movimento di altalena (es. nem pòzzë valëchїà lu vraccë ‘non posso muovere liberamente il braccio’. Stupendo l’epiteto Eliconio (gr. Helikónios) di Poseidone, dio del mare! da una radice (w)elik- che in questo caso resuscita il concetto di ‘onda’, anche nel senso di rotondità, protuberanza, rigonfiamento della terra (cfr. il monte Elicóna, sacro ad Apollo e alle Muse) oltre a quello di salice e di elica. Cfr. i nomi dei fiumi Elic-ona e Belic-e in Sicilia con trattamento diverso della semivocale iniziale w- : nel primo essa cade, nel secondo si trasforma in labiale sonora. I significati delle radici oscillano a 360° trascolorando rapidamente e radicalmente con l’indeterminazione tipica delle particelle subatomiche; non ci inganni —pena l’impossibilità di metterli veramente a nudo— la loro relativa fissità con cui ci sembrano ben installarsi in questa o quella parola, in questa o quella lingua! Ad Osimo nelle Marche si incontra il bel termine sdìngola per ‘altalena’ che, con ogni evidenza, appartiene alla famiglia germanica di ted. Stengel ‘stelo’, ted. Stange ‘stanga, pertica, palo’, ingl. sting ‘aculeo, pungolo, stimolo’ che combina l’idea di ‘stelo, puntello’ con quella preponderante di ‘puntura’. Sembra di stare a parlare di dialetti germanici, non italiani! Molti di essi difficilmente sono dovuti alle invasioni barbariche dell’alto medioevo, e allora bisogna considerarli provenienti da strati linguistici preistorici: -vìculë ‘altalena’, ad esempio, ha la stessa radice di lat. via(m) ‘via’, (da *weghya), ted. Weg ‘via’, ingl. way ‘via’, dall’idea di ‘movimento, trasporto’ di lat. veh-ere ‘trasportare, andare a cavallo, in vettura, ecc.’ che subito trapassa a lat. vect-em ‘leva, sbarra, stanga, mazzeranga, chiavistello’. Non bisogna però pensare che questo termine abbia la motivazione profonda nel movimento che, come leva, imprime negli oggetti spostati o sollevati, ma solo nella spinta, diciamo così, interiore che fa crescere un arbusto o una pianta (cfr. ted. Trieb ‘spinta, impulso, istinto, germoglio, rampollo’). La nominazione chiama, per così dire, le cose col loro nome non in base alla funzione che svolgono ma in base a quello che sono. Un principio, questo, che farà scoprire diverse false etimologie.

Per il costituente –ancia è utile il confronto con il toscano bici-angola, bisci-angola ‘altalena’(cfr. laziale incon-ica ‘altalena’) per il cui primo costituente bisci- (corretto in bici-) bisogna ricordare il sopra citato altoitaliano bìscolo ’altalena, dondolo’, trasaccano piscë ‘in bilico’, ecc. Anche il gr. phál-anx è molto interessante con i suoi significati di ‘tronco, fusto, braccio della bilancia (cfr. ted. Waage-balken ‘giogo della bilancia’, il cui 2° elemento però combacia meglio con la voce abruzzese sopra citata valec-arèlle 'altalena' : questi termini composti hanno un'origine tautologica, e il loro significato iniziale oscilla tra quello di 'giogo, palo' e quello di 'bilancia' o altro), cilindro, rullo, fila di alberi, falange, falangina , falangetta, ecc.’ e con i sui riflessi latini phalangae, palangae ‘rullo, pertica, stanga’. In abruzzese vëlàncë, vëlàncëlë, oltre a ‘bilancia’, significa anche ‘ mazzacavallo, sorta di legno in bilico usato per cavar l’acqua dai pozzi negli orti’ (11). Il termine mazza-cavallo non va inteso come ‘palo a cavallo’: è un composto tautologico per ‘palo, bilico’. Il secondo membro –cavallo rimonta alla radice gallica di giavellotto presente anche nel lat. gabalu(m) ‘forca’, ted. Gabel ‘forchetta’, ingl. gaffle ‘leva d’acciaio per piegare la balestra’, ingl. gable ‘timpano, frontone (per la sua forma a punta)’. Nel mio dialetto di Aielli cavallìttë era il termine per ‘altalena’.

Curioso il see-saw ‘altalena’ inglese che però si dovrebbe spiegare anch’esso come composto da due varianti della stessa radice *seg-sag col valore di ‘palo, bastone, ecc.’: cfr. abruzzese zìcchië (da *zic-ulum) ‘bastoncello a cui si batte nel gioco della lippa’, abruzz. zucch-éttë ‘piccolo pezzo di legna da ardere’, termini (12) che a mio avviso si debbono paragonare a gr. zyg-ón ‘giogo, architrave, antenna, laccio, vincolo’, gr. sŷk-on ‘fico’, a. fr. sëku ‘sambuco’, abr. zòca ‘funicella’, it. soga ‘correggia, fune’, da tardo lat. soca ‘fune’. La spia che conferma questa mia supposizione è l’espressione francese (ma ricorrente anche in altre lingue) faire des zig-zags ‘barcollare’, significato che ci riporta diritto alla ‘altalena’ e al suo ‘dondolare’ il quale si configura, appunto, come una sorta di movimento a zig-zag. Ma lo zigo-zago del ritornello di un noto canto popolare credo che alluda al ‘membro virile’ (E con lo zigo-zago, morettino vago, tu m’hai rotto l’ago…). Aggiungo ora qualcosa di qualche interesse, d’altronde già spiegato in altri articoli come in quello dal titolo Etimo di “chicchirichì”…(giugno 2009) . Il termine zig-zag non è affatto onomatopeico come tutti si affrettano a spiegare, esso potrebbe derivare proprio da un termine per ‘altalena’ e simili, idea che, come sappiamo, solitamente rinvia ad un concetto di ‘palo, stanga, traversa, ecc.’ oppure di ‘onda ‘ e simili. Ribadisco che l’onomatopea non esiste, almeno alle origini, nella lingua, la quale nasce da un’urgenza conoscitiva e non imitativa. E’ chiaro che questi termini, composti tautologicamente da due significanti uguali o simili scanditi in rapida successione (cfr. tic-tac, toc-toc, din don, ecc.), rafforzano nella nostra mente, una volta perdutosi il loro significato originario, una sensazione ritmica, sonora o iconica (cui essi erano comunque legati secondo il modo arbitrario di tutti gli altri significanti) che spinge surrettiziamente a considerare queste espressioni come copie dirette del fenomeno rappresentato senza l’interferenza dell’arbitrarietà del segno.


A conclusione di questa cavalcata sulle bilance credo sia utile riassumere tutto quanto riguarda gli stretti rapporti che intercorrono tra significati diversi, con un altro esempio relativo all’ingl. swing ‘dondolo, altalena, cambio, sbalzo (di umore), ecc.’. A mio avviso non è un caso se si incontrano monti come il Wieder-schwing (in Austria non lontano dal lago Weissensee) il cui significato apparente dovrebbe essere qualcosa come ‘ri-oscillazione’ o ‘spinta all’indietro’ che chiaramente non ha senso alcuno. A me salta all’occhio il fatto che si tratta di un composto tautologico il cui secondo membro ha certamente a che fare con la radice di ted. schwing-en ‘agitare, sventolare, vibrare, oscillare’ ma nel senso che è adombrato nel significato di ‘sbalzo (di umore)’ sopra accennato, riferito qui a tutt’altro (si fa per dire) balzo o ondeggiamento, quello del monte che si eleva o si slancia al di sopra delle terre circostanti. Il primo membro credo possa essere la reinterpretazione di un termine come a. a. ted. vida ‘salice’, a. norreno vithr ‘salice’, ingl. withe, withy ‘vimine’, ma comunque non voglio sostarvi più di tanto. Per quanto riguarda le possibilità vegetali della radice basta ricordare l’ingl. swingle ‘scotola’ , cioè una stecca di legno o ferro usata per maciullare la canapa. Il nome inglese è la fotocopia, guarda caso, della voce aiellese svìnghjë ‘pollone, ramicello flessibile’ —da *sving(u)lë—, ora forse in disuso e che non ho riscontrata in altri dialetti viciniori. E non è per nulla da credere che questa stecca e rampollo traggano il nome dal fatto di essere l’una agitata (per battere) e l’altro flessibile: l’agitazione o la spinta (da cui deriva l’idea di ‘oscillazione’ e ‘torsione’) le hanno al loro interno, come forza che fa spuntare e crescere la pianta . L’inglese swingle-bar (-tree) ‘bilancino’ chiarisce molto bene, a mio parere, con i suoi due membri tautologici con cui viene indicata la traversina di legno a cui si attaccano le tirelle di un animale di rinforzo, che anche l’italiano bil-ancino va interpretato come ‘traversa’, per quello che effettivamente e essenzialmente esso è, non come ’oggetto somigliante ad una bilancia’ oppure ‘oscillante come una bilancia, quando non è sottoposto a trazione’. Così i significati di ted. Schwengel sono tutti rispondenti alla natura degli oggetti che indica, e cioè: 1- battaglio, non tanto perché serve a battere come vuole apparentemente anche il termine italiano il quale andrebbe confrontato con ingl. bat ‘bastone’, quanto perché esso è una sorta di ‘manganello’; 2- bilancino di carrozza per i motivi or ora detti; 3- mazza-cavallo che abbiamo già spiegato sopra; in 4- pendolo sembra prevalere l’idea dell’oscillazione ma comunque l’ asta del pendolo è lì a reclamare la sua presenza e la sua spiegazione. Il tedesco Scwingel, infine, è un termine botanico per ‘festuca’, un tipo di erba caratterizzata da uno stelo abbastanza sviluppato. Si deduce da questo facilmente che nessuno dei significati specifici di superficie di una radice può arrogarsi il diritto di primogenitura rispetto ai significati degli altri, a meno che non esibisca il significato genericissimo che secondo me è all’origine di tutte le radici: quello di forza, spinta, movimento, e simili. Così stando le cose, se si tratta di individuare l’etimo di un termine problematico, io penso che non si sbaglia quasi mai se si presta orecchio proprio al suo significato essenziale per individuare quello originario. Il caso di it. nicchiare sopra spiegato ci insegna che se si fosse partiti con l’idea di dover trovare sotto di esso un termine col significato di ‘tentennare, oscillare’ non si sarebbe, in effetti, affatto sbagliato. Succede invece normalmente che si vada a trovare la ‘spiegazione’ in posti e parole molto distanti e meno probabili.


Più sopra ho usato l’aggettivo letterario ondi-vago ‘che vaga nel mare, di opinione mutevole, incerta, dal lat. undi-vagu(m), che merita alcune riflessioni. A me pare evidente che il 2° elemento –vago mostra la stessa natura di ondi-, cioè ‘onda’(cfr. fr. vague ‘onda’, ecc.) e che non si debba vagare nell’ignoto —miseria della scienza etimologica tradizionale!— per trovare l’origine di lat. vag-ari, vag-are ‘vagare, errare’ e di lat. vac-ill-are (tosc. vag-ellare) ‘vacillare, tentennare, barcollare’, il quale ultimo ha il suo quasi sosia vegetale in lat. bac-illu(m) ‘bastoncino’ . La sua radice vive della natura stessa dell’ onda, la quale si gonfia e va, che è già un modo di ‘vagare’. La parola nacque forse col significato (13) di ‘vagante, navigante, in movimento , oscillante, mutevole, incerto’ specializzatosi poi, per la presenza di lat. unda(m) ‘onda, acqua’ ad indicare solo il movimento sull’acqua del mare. Le parole non nascono a tavolino nella mente di chi rifletta sui fenomeni da esprimere dandone una definizione dettagliata e razionale. Esse rampollarono nella mente del nostro antenato preistorico che, svegliatosi dal sonno dell’inconsapevolezza, era riuscito a malapena ad agguantare, coi suoni a sua disposizione, un unico concetto che aveva elaborato nella sua mente, attraverso una lunga evoluzione, guardando la Natura intorno a sé e dentro di sé, cioè quello generico di ‘forza, vita, movimento’ e simili (parole che noi usiamo però già in una forma specialistica), che cercava di variare nei mille e mille modi della combinazione dei suoni che riusciva ad emettere, per ottenere prodotti che, almeno nella loro forma esteriore, si distinguessero l’uno dall’altro, dando il via a tutta la mossa, ondulata, cangiante e vastissima superficie del mare magnum delle lingue, le quali non potrebbero servire a comunicare se non riuscissero a distinguere in qualche modo una parola dall’altra, un significante dall’altro, trascinandosi inevitabilmente con sé la differenziazione del nucleo originario indifferenziato del significato.

L’aggettivo latino undi-sonu(m) ‘risonante per le onde’ è anch’esso, inizialmente, una tautologia: non per nulla, anche secondo la fisica, il ‘suono’ è un’onda, cioè qualcosa di vivo e mobile che esce dalla bocca del parlante (si ricordino le épea pteróenta ‘parole alate’ di Omero, ma anche noi diciamo, in qualche espressione, che le parole volano). In inglese sound significa ‘suono’, oltre a ‘canale, stretto’ ma nell’antico inglese sund significa ‘nuoto, capacità di nuotare, stretto, mare (concetti che mi pare ruotino intorno a quello di ‘movimento’)’: quest’ultimo significato, cioè mare, credo possa riconciliare il ‘suono’ con l’ ‘onda’. Si può dire, insomma, che il suono è l’altra faccia dell’onda, e viceversa. Il rio Sonno di Castellafiume-Aq, con il rio Ro-sogno di Morino-Aq, quindi, non penso che rimandino all’idea di ‘sonno’ ma a quella di ‘suono’, come sinonimo di ‘onda’. Anche il lat. voc-e(m) ‘voce, suono, parola’ ha il suo sosia ondoso nel ted. Woge ‘onda, flutto’ e quello sonoro nel fr. vogue ‘fama, reputazione, successo’, preesistente evidentemente al voix ‘voce’ di derivazione diretta dal latino. Anche il vag-ire e i vag-iti sono della famiglia, ma i primi vagiti di un’arte ritornano all’idea profonda di ‘movimento, mossa, inizio’. E così spero di aver sottratto definitivamente all’onomatopea tante parole che i linguisti non sanno sistemare se non in questo modo.



Anche l’espressione familiare suonarle ‘darle di santa ragione’ credo non faccia un riferimento figurato all’onda sonora emessa da chi suona uno strumento ma alla più pesante onda del mare, in quanto forza che si abbatte con più o meno slancio sulla spiaggia o, più semplicemente, all’ onda costituita dai pugni, sberle e calci che si abbattono sul malcapitato. Per questo motivo l’aggettivo "santa" dell’espressione di santa ragione mi suona sospetto, ma lascio volentieri ad altri il divertente compito di stanarlo dal suo covo. Mi comincia a ciondolare il capo, e a ragione.




Grazie a Dio mi sento sempre più un agnostico, anche linguisticamente, nel senso che mi fido ormai poco del modo di procedere della linguistica, diciamo così, ufficiale e tradizionale.







Note


(1) Cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 127.

(2) Cfr. Dante Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2007, p. 216.

(3) Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, p. 543.

(4) Cfr. Alfredo Cattabiani, Calendario, Mondolibri S. p. A., Milano 2004, pp. 167-68.

(5) Cfr. M. Cortelazzo/ C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998, p.80.

(6) Anche il lat. iustu(m) 'giusto' ha molto probabilmente a che fare con la 'bilancia' se si pensa che la sua forma arcaica , attestata dall'iscrizione del cosiddetto Lapis niger del foro romano, è iovest-(da *ioves, *ious, ius 'diritto'): il che mi dà l'opportunità di citare il termine juve 'giogo' del mio dialetto di Aielli e di altri paesi della Marsica, il quale, quindi, più che corruzione di lat. iugu(m) 'giogo', è da considerare una sua variante originaria. In effetti dovrebbe pur dire qualcosa il fatto che la dea latina Iustitia 'Giustizia' veniva rappresentata con una bilancia in mano. Nel Vocabolario abruzzese di D. Bielli, più sotto citato, la prima definizione che si dà di juste è 'giusto, di peso' ( es. vojje lu juste 'dammi il peso giusto'). Vi è registrata anche la voce jove 'giogo'. Che questa forma sia da considerare variante e non corruzione di lat. iugu(m) 'giogo' è in qualche modo dimostrato anche dal suo ritrovarsi in aree relativamente lontane da quella abruzzese come quella lucana: cfr sciùve 'giogo' nel dialetto di Gallicchio-Pz, parola in cui la semivocale iniziale si è spirantizzata ( ed io che da ragazzo pensavo che si trattasse di una voce solo del mio dialetto di Aielli!).

(7) Cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.

(8) Cfr. Domenico Bielli, cit.

(9) Cfr. M. Cortelazo/ C. Marcato, cit., s.v. vozzica, p. 468.

(10) Cfr. Domenico Bielli, cit.

(11) Cfr. Domenico Bielli, cit.

(12) Cfr. Domenico Bielli, cit.

(13) Bisogna pensare che la radice di lat. unda(m) 'onda', nonostante i linguisti accostino la parola alla radice wud, wad, wed 'acqua', si allinei piuttosto con quella di it. and-are, di etimo molto incerto. Nel vocab. del Bielli, sopra citato, è riportata l'espressione annècche 'vieni qui, vieni oltre, avvicìnati, avànzati, appressati' che si deve segmentare in ann-ècche perchè il 2° membro è la voce dialettale per 'qui' e il primo membro deve essere il prodotto della usuale assimilazione progressiva dell'originario and-, ma col significato di 'venire' invece che 'andare', come succede spesso con questi verbi di movimento. L'origine di and-are è a mio avviso da rintracciare nella parola che il Pianigiani giudica invece più fantasiosa a questo scopo, cioè l'arabo anada 'andarsene, partire'. Credo possa essere di aiuto anche la voce aiellese anda 'filare d'erba falciata e lasciata per alcun tempo a seccarsi al sole' col suo derivato, falsamente accrescitivo, andòne (Trasacco-Aq, Rocca di Botte-Aq) dallo stesso significato. Durante la falciatura, insomma, si forma via via sul terreno una sorta di nastro d'erba che segue la direzione e la mano del falciatore, nastro che va ad affiancarsi a quelli successivi componendo nell'insieme un disegno a mo' di strisce zebrate che rigano il campo. L'idea che agisce sotto la superficie è perciò quella di 'andamento, corso, corsia, sfilata, sfilza, ecc.'. Lo stesso termine ricorre, con significato appena diverso e in forma maschile (ande 'fascia di terreno delimitata in occasione di alcuni lavori campestri come la mietitura') nel dialetto lucano di Gallicchio-Pz. Il che dimostra la sua vetustà. Citerei, a rinforzo dell'idea, anche l'ingl. end 'fine' ma nel significato di 'filo dell'ordito' e l' espressione for days (months, years) on end 'per giorni (mesi, anni ) e giorni (mesi, anni)' che si capisce bene se si dà al termine end il significato di ' fila, serie, successione'. E' così possibile che anche ingl. and 'e', ted. und 'e' siano da considerare come connettivi che 'mettono in fila, uno dietro l'altro' o che 'aggiungono o congiungono insieme' due o più termini o frasi nella catena del discorso. La radice, infine, riappare in combinazione con altra ancora nei termini dialettali abruzzesi (v. Bielli) come vall-ànze, vall- ènte 'spinta, rincorsa', il cui 1° membro corrisponde al ted. wall-en (ma se ne potrebbero indicare altri, vicini e lontani) 'ondeggiare', ted. well-en 'ondeggiare'. I secondi membri erano, inizialmente, elementi autonomi, come mostra lo stesso it. and-are. Un altro caso interessante, riguardo alla stessa radice -and / -end, è quello della preposizione abruzzese fin-ànde, fin-ènde, sin-ànde, sin-ènde, zin-ànde, zin-ènde 'fino a' con la ripetizione tautologica dello stesso concetto di 'fine'.


Oggi, 5 giugno 2011, ho avuto la prova che und in gotico ( con le rispettive forme anglosassoni, frisoni e sassoni) significava 'fino a', cosa che conferma tutte le mie osservazioni finali dell'articolo precedente, nonchè, se tutto si tiene, lo spirito dell' intero articolo. La notizia l'ho trovata nel libro di Paolo Ramat, Introduzione alla linguistica germanica, il Mulino, Bologna 1988, p. 156, par. 4.1.1.





Possit me Fortuna iuvare aliquando tandem, etsi numquam me in vita mea audacem ostendi, quemadmodum ea vult; atqui nunquam inter eos fui qui quod sentiunt, invidiae metu, dicere timeant (Possa la Fortuna finalmente favorirmi, anche se nella mia vita non mi sono mai comportato da audace, come essa vuole ; eppure non sono mai stato tra quelli che non osano dire ciò che pensano per paura d'impopolarità).