lunedì 29 novembre 2010

La dea Angizia, il suo bosco sacro e l'inghiottitoio della Petogna

La mia passione per la toponomastica mi ha condotto a rivedere tutta la saga relativa alla divinità italica Angizia la quale aveva un suo centro importante a Luco dei Marsi-Aq. In effetti penso, senza togliere nulla alla ricerca archeologica, che qualche sprazzo di luce nuova possa essere proiettato sull’origine del culto, a Luco, e sui nomi ad esso collegati. Come per la Madonna della Vittoria di Aielli, i Santi Martiri di Celano, San Cesidio di Trasacco e la Madonna della Vittoria di Scurcola di cui mi sono occupato in altri articoli, sono convinto che bisogna aguzzare la vista cercando di scovare nella toponomastica della zona interessata quelle conferme che possano giustificare e convalidare le credenze sviluppatesi intorno alla divinità per illuminarne nel contempo le caratteristiche, per la verità varie e contrastanti. In altri termini la mia idea è che la motivazione originaria di questo o quel culto vada ricercata nelle forme del terreno, nei colli, monti, corsi d’acqua i cui nomi, già dalla remota preistoria, potevano incrociarsi, sovrapporsi, confondersi o semplicemente aggiungersi a quelli di divinità magari già esistenti, favorendo così lo svilupparsi, nei luoghi suddetti, anche di realtà antropiche connesse con la loro venerazione.
In quest’ottica il culto della dea Angizia può essere considerato emblematico del fenomeno di concrezione sincretistica, intorno al nome di una divinità, di funzioni e attribuzioni peculiari di dei di origine diversa le quali, però, essendo simili o coincidenti nei nomi, potevano ritrovarsi concentrate in una sola divinità, col favore naturalmente di un lunghissimo periodo di tempo a disposizione. Pare, ad es., evidente il rapporto tra il nome della dea Angizia (lat. Angitia) e il lat. angue(m) ‘serpente’: per questa via essa poteva aver assunto il carattere di divinità ctonia, sotterranea, infernale visto il legame dei serpenti col mondo sotterraneo dei morti in tutta l’area mediterranea. L’incontro col termine latino potè verificarsi nella preistoria, essendo questo carattere di divinità ctonia già ben delineato al tempo dei contatti storici tra i Marsi e i Romani. In effetti il latino come noi lo conosciamo non può essere stato catapultato improvvisamente nel Lazio, per così dire, da plaghe celesti ma deve aver convissuto ed essersi mescolato per lungo tempo con altre lingue italiche, e parte di quelle parole che poi sarebbero state proprie della lingua latina storica potevano circolare anche tra altre lingue italiche, compresa quella marsa di cui però è quasi del tutto ignoto il lessico. E’ vero che solo con Servio (IV sec. d.C.) si fa per la prima volta riferimento ai serpenti connessi col culto della dea, ma questo fatto non può essere considerato prova sicura che la connessione suddetta non fosse già avvenuta molto prima. Che la divinità avesse avuto, però, un’origine etimologica diversa sembra attestarcelo già il suo nome peligno di Anaceta o quello della divinità romana corrispondente di Diva Angerona, un po’ lontani dal nome latino di Angitia usato per la divinità marsa, il quale ultimo allora sembrerebbe essersi originato solo da un incrocio e da un adattamento di comodo del nome originario della dea alla parola per ‘serpente’, per noi solo latina.
Inoltre il collegamento fra la dea e i serpenti potrebbe essersi stabilito anche per altra via, complice il nome dell’inghiottitoio dell’ex lago del Fucino, intorno a cui a mio parere ruota tutta la saga della dea, chiamato attualmente Petogna, da un quasi sicuro latino Pitonia[1]. Il mito greco ci dice che Apollo inseguì il serpente o drago Pyth-ón (Pitone) e lo uccise proprio dinanzi al sacro crepaccio che serviva per i responsi della Pizia nel famosissimo santuario di Delfi nella Focide. Ora, se facciamo attenzione alle segrete corrispondenze dei nomi, ci accorgiamo facilmente della forte somiglianza tra il concetto di ‘crepaccio, fenditura, buco, cavità’ e quello di ‘orcio, vaso, botte’ espresso in greco dal termine píth-os che è da confrontare quindi col precedente Pyth-ón, indicante il serpente inseguito da Apollo ma molto probabilmente alludente anche al ‘crepaccio’(cfr. gr. pyth-mén ’fondo -del mare-‘), e con l’inghiottitoio della Petogna, concetto che rientra in quello precedente di ‘crepaccio, fenditura, cavità’. Il gr. pithón ‘cantina, dispensa’ è poi quasi uguale a Pythón (Pitone) nella forma esteriore mentre il suo significato si aggancia a quello di ‘cavità’. Perchè questi nomi greci non sembrino troppo estranei ai nostri orecchi e quasi tirati per i capelli nei nostri dialetti è bene confrontarli con le voci abruzzesi[2] petarre ‘vaso di terracotta per conservare l’olio, frutta sottaceto’ e petitte ‘boccale grande’, da interpretare rispettivamente come gr. pith-ári-on , diminutivo di píth-os, e come *pith-ídi-on, altra possibilissima forma diminutiva dello stesso píth-os, sebbene non registrata nei vocabolari. A me sembra molto probabile che questi nomi di derivazione greca non siano da attribuire a eventuali contatti dei Marsi con i popoli della Magna Grecia avvenuti successivamente all’ VIII secolo a.C., come spesso si pensa, ma a contatti anteriori di epoca micenea e forse a migrazioni dirette di popolazioni greche che interessarono, prima del 1000 a. C., non solo il meridione ma l’Italia tutta nonchè l’Europa (in misura minore), come risulta dalla ricerca genetica di Luigi Luca Cavalli-Sforza e come si deve dedurre anche dalla presenza di inequivocabili toponimi greci (cfr. il mio articolo Fonte “Cantu Riu” di Sant’Anatolia-Ri ed altre fonti) radicati nel terreno, e quindi non facilmente spiegabili, secondo me, come semplice travaso da una cultura con cui si erano stabiliti contatti non certo strettissimi. Interessanti a questo fine sono toponimi come Valle Pitone a Caltagirone-Ct e come Passo del Pitone sul Monte Altissimo-Lu. Quest’ultimo si avvicina moltissimo, con il concetto di ‘passaggio’, a quello di ‘cunicolo, fenditura’. Petogna è anche frazione di Barisciano-Aq, a pochi km da L’Aquila, situata, a quanto riesco a capire dalle immagini satellitari, all’apertura di una vasta ansa incisa nel pendio del monte retrostante.
Una volta accettate le corrispondenze di termini di cui sopra, sembrerebbe del tutto naturale che l’inghiottitoio della Petogna venisse attratto dalle leggende relative ad Apollo Pitico, come dimostra del resto un passo dell'Alessandra di Licofrone riportato da Cesare Letta[3] dove, in una descrizione fumosa ed allusiva, si afferma che gli Eneadi andranno ad abitare in una terra accanto al Circeo, ad Aieta (= Gaeta) porto degli Argonauti, “ al marsico lago di Phorcus (= Fucino) e alla corrente Titonia (sic) della fenditura che si sprofonda sotterra nelle profondità invisibili, vicino alla collina di Zosterio (= di Apollo) dov’è la tetra abitazione della Sibilla (= Cuma) etc.”
Così stando le cose, si può legittimamente supporre che la chiave di interpretazione di tutta la saga della dea Angizia a Luco dei Marsi è quasi sicuramente costituita proprio dall’inghiottitoio, erroneamente chiamato Titonia nel passo citato. Esso avrà favorito la nascita e lo sviluppo del culto della dea ctonia, come oltretutto sembra indicare anche il fatto che le più antiche testimonianze epigrafiche e di culto provengono dall’angolo nord, vicinissimo all’inghiottitoio, alla base del recinto-santuario digradante a terrazze verso il lago a partire dalla cima del Corno di Penna. Sono dunque i toponimi, come vado affermando con una certa insistenza, che, nel lento fluire dei millenni, delle civiltà e delle credenze, svolgono una potente funzione mitopoietica, con l’avvicendarsi attraverso i millenni anche delle denominazioni relative ad una stessa realtà geomorfica. A mio avviso pertanto la denominazione Petogna sarà stata l’ultima (anzi la penultima, se si tien conto dell’attuale appellativo “inghiottitoio”) di una serie costituita da almeno altre due denominazioni, camuffate sotto i nomi di Angizia e di Luco, assorbiti rispettivamente dalla dea e dal paese vicino. Capita spessissimo in toponomastica che il nome proprio di una fonte, ad esempio, intorno alla quale si sviluppò un aggregato di capanne o casupole, passi ad indicare il villaggio stesso mentre la fonte, rimasta nel frattempo priva di nome proprio, acquisisca quello corrente per ‘fonte’ di qualche strato linguistico successivo al primo.
A dir la verità Cesare Letta, a p.208 e ss. del libro sopra citato, illustra finemente e con dovizia di particolari tutta la problematica suscitata dai rapporti tra la forma latina Pitonia, attestata per il nome dell’inghiottitoio di Luco, e quella eventuale greca Pythonia, propendendo per un’origine popolare, non dovuta quindi ad accostamenti dotti, del nome in questione e riconducendo il fatto ai contatti avutisi, non più tardi del IV sec. a. C., tra i Marsi e la cultura greco-etrusca della Campania, da cui avrebbero assorbito i miti del ciclo apollineo. Io, invece, sono dell’avviso che questi contatti abbiano potuto causare soltanto l’attrazione dei miti apollinei da parte del nome Pitonia, già esistente secondo me nella Marsica a designare la fenditura dell’inghiottitoio. Debbo ribadire pertanto che anche in questo caso non è il mito a creare ex novo il toponimo ma è quest’ultimo semmai a produrlo o, almeno, ad attrarlo nella sua sfera facendoci credere il contrario, una volta che il suo significato originario viene a scomparire, sepolto sotto sedimentazioni culturali e linguistiche successive.
Ora, il nome del centro antico di Lucus Angitiae è quasi certo. E’ certa la forma Angitia, da una iscrizione. La forma Lucu(m) la si ricava dall’etnico Lucenses (abitanti di Luco) usato da Plinio. Per un’analisi più dettagliata della questione si rimanda al citato libro di Cesare Letta-Sandro D’Amato, pp. 292 ss. Io sarei del parere di scorgere, dietro la facciata latina del termine, che sicuramente avrà causato anche la delimitazione nelle vicinanze di un bosco sacro alla dea, cosa che del resto avveniva normalmente (cfr. lat. lucu(m) ‘bosco sacro’), la presenza di un termine preistorico corrispondente a quello di ted. Loch ‘buco’, ted. Lücke ‘apertura, breccia, lacuna’, ingl. loch ‘fessura, cavità (in una vena di miniera)’, scozz. loch ‘lago’, ingl. leak 'crepa, falla, fessura, fuga, perdita (di liquido)', it. tecn. luce ‘apertura per il passaggio dell’acqua, bocca’, lat. luc-una variante di lac-una ‘vuoto, lacuna, cavità, crepa, apertura’, gr. leuk-ania, lauk-ania 'gola, fauci'. E’ quindi supponibile che anche l’it. luce ‘vano della finestra e della porta’ sia della partita, e che solo casualmente si incrocia con la “luce del giorno”. Naturalmente si hanno anche riscontri toponomastici come Lugo di Vicenza, paese situato nel punto in cui il fiume Astico, superata l’ultima stretta (sinonimo di ‘passaggio angusto, cunicolo’), si avvia verso la pianura o come Forcella Valle Luco di Orso tra la Costa dei Sassi e la Cima dell'Orso in Alto Adige, la cui denominazione di Luco è pronta quindi a trasformarsi in Loch o Lucke (buco, apertura) oltre il confine in area germanofona come nel Passo di Obere Wind-lucke 'Buco del Vento Superiore' in Austria (cfr. i Passi Col del Vento e Col di Luca in Piemonte). Ma una vera e propria chicca è la Valle dei Luchi nei pressi di Caramanico-Pe, un piccolo canyon del fiume Orte scavato dalle sue acque vorticose con la formazione anche di profonde marmitte dei giganti, nel Parco Nazionale della Maiella. I luchi pertanto, in qualche parlata del passato remoto, dovettero indicare proprio queste caratteristiche formazioni geologiche, se non il canyon stesso.  Toglie ogni dubbio in proposito il termine diminutivo lech-ìtte  del dialetto di Trasacco-Aq nella Marsica, non lontano da Luco dei Marsi: il significato di esso è 'piccolo luogo, posticino', ma anche 'piccola buca nel terreno'.  Doveva naturalmente esistere in passato anche il nome positivo *luche col valore di 'buco, fosso, cavità' che fa al nostro caso.  E’ molto indicativo, fra parentesi, il fatto che la radice etimologica di questi toponimi, che si riferiscono a caratteristiche del terreno formatesi addirittura in ere geologiche molto anteriori al tempo in cui il primo essere umano comparve nei dintorni, viene individuata immancabilmente nel lat. lucu(m) ‘bosco’ specie ‘bosco sacro’, come se tutte le lingue precedenti non fossero mai esistite, tanto da non lasciare nemmeno una sola, sparuta impronta della loro invece certa e durevole presenza. Il latino, in questi casi, rimanda ad un periodo troppo recente per poter essere preso per buono ad occhi chiusi. Mi dispiace dirlo in questo modo brusco, ma io non spenderei un soldo bucato nemmeno per l’etimo, solitamente dato senza tentennamenti, di lat. lucu(m): la parola avrebbe indicato inizialmente la “radura nel bosco illuminata dalla luce”. In realtà una spiegazione più naturale, perchè più aderente al significato di ‘vuoto, lacuna, apertura’ dato per i toponimi corradicali sopra citati, sarebbe appunto quella di ‘spazio vuoto, aperto, senza alberi’, e niente di più: una semplice radura, insomma, il cui essere illuminata o meno dai raggi del sole o dalla luce del giorno, oltre ad introdurre indebitamente un concetto aggiuntivo, è a mio avviso solo un fatto accessorio, secondario rispetto alla sua natura essenziale di radura : d’altronde, se vogliamo dirla con una boutade, in una notte nuvolosa e senza stelle non riconosceremmo la radura se non attraverso l’accorgerci, camminando, che in quel punto non andiamo a sbattere contro gli alberi. Si incontrano anche toponimi, riferiti a cavità o valli, costituiti proprio dal termine luce, come quello della Valle Luce nei pressi di Cesi di Colfiorito-Pg, nei quali naturalmente la luce ha lo stesso valore della voce luco e simili dei precedenti casi.
L’incrocio col concetto di "luce", semmai, può dare ragione o rafforzare la natura solare, aggiunta e contrapposta a quella ctonia, di Angizia, secondo qualche leggenda sorella della maga Circe figlia del Sole, oppure della maga Medea, figlia di Eeta, fratello a sua volta di Circe. Del coinvolgimento del mito di Angizia in quelli di Apollo, divinità solare, si è già parlato. Ora mi sorge il sospetto che la collina di Zosterio (Apollo) sotto la quale si sprofonderebbe, secondo il passo di Licofrone, la corrente Titonia (=Pitonia) potrebbe alludere al pendio roccioso del santuario di Angizia, oltre che ad altura presso Cuma in Campania. Lo stesso appellativo Zosterio (Apollo), da gr. zōstér ‘cintura’ al pl. ‘cinti da combattimento’ (cfr. anche gr. zóstra ‘vincolo, cintura, benda’), mi fa venire in mente la famosa lamina di Caso Cantovios rinvenuta all’interno del recinto sacro di Angizia, parte di un cinturone militare[4] in bronzo offerto alla dea dalle milizie marse, per la morte in combattimento del loro comandante Caso Cantovios. Si può pertanto supporre che alla dea fossero graditi cinturoni, cinture e bende, offerte che troverebbero la loro motivazione in un appellativo della divinità come quello precedente di Apollo Zosterio. Certo, se nella zona del santuario esistesse un toponimo come quello di La Giostra nel vicino paese di Collelongo con un piccolo santuario di epoca italica probabilmente dedicato a Diana, sorella gemella di Apollo e divinità della luce lunare, la cosa diventerebbe più stringente. Per intanto la nostra supposizione può alimentarsi della “notizia del poeta Alfio riportata da Festo, secondo la quale i Mamertini erano sacrati ad Apollo”[5], anche se essa non è pienamente condivisa dal Letta. I Mamertini, si sa, erano soldati mercenari campani di stirpe osca, affine a quella marsa. Non sarà poi un mero caso se il gr. zōstér valeva anche hérpes zōstér, l’affezione virale infiammatoria o fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio, che potrebbe richiamare quindi tutta la luce, il fuoco e il calore del Sole, divinità simile a quella di Apollo.
Che anche la radice di lat. Ang-itia si sia prestata ad indicare “buchi, cavità e cunicoli” ce lo attestano l’abruzzese àng-ёlё ‘buco di mezzo della paranza’, il laziale (a Serrone) ànc-ilo ‘pozzetto davanti al torchio dove si raccoglie l’olio’, il siciliano (a Paternò) anc-ìnu ‘gola, fauci’, veneto enca ‘imboccatura a forma d’imbuto nella rete da pesca’, a.a.ted. Encha ‘imbuto, strettoia’ nonchè toponimi come quello della grotta Ziё Ang-ёlinё ‘zio Angelino’ a Venere dei Marsi e delle varie grotte Sant'Ang-elo, sparse un po’ dappertutto.
Nella mitologia sumerica appare la figura di Enkidu che scende agli Inferi per riprendere il giocattolo preferito di Gilgamesh, ivi precipitato, il cerchio col bastone. Un altro personaggio il cui nome Enki presenta la stessa radice del precedente, persuade il dio del sole ad aprire un pozzo profondo fino agli Inferi, attraverso il quale Enkidu possa tornare sulla terra. Ora, l’idea di “cerchio”, in quanto rotondità o cavità deve considerarsi specializzazione della radice di cui si sta parlando, come si può arguire dal gr. ánk-ylos ‘curvo, rotondo’, lat. unc-inu(m) ‘ uncino’, abruzzese ang-ìne ‘uncino’. A mio avviso è proprio qui, nel campo dei significati profondi delle parole, non ben studiati dai linguisti, che si giocherà in futuro il destino della glottologia. Il lat. ang-ulu(m) ‘angolo’, stretto parente dei termini precedenti, si presta molto bene a designare una ‘punta’ e il suo significato speculare, cioè una ‘cavità’ o ‘rientranza’ che, nel lat. angi-portu(m) ‘vicolo’ assume il valore, tautologicamente ripetuto nella componente –portu(m), di ‘passaggio, penetrazione’. Buoni ultimi di questa nutrita serie sono gr. ánkos ‘piega, curvatura, gola fra monti, valle’ e gr. ángos ‘vaso, boccale, anfora, urna, cassa, armadio, utero, guscio del granchio, cella del favo’. Queste radici, nell’area fucense della dea Angizia, subirono un processo di personificazione passando ad indicare gli antenati, sepolti nelle grotte e trasformati in divinità tutelari del luogo e dei morti. Il loro nome era Ang-eti o Dii (Dei) Ang-ites[6]: si noti il quasi esatto combaciare della parola Dii con il termine parentale ziё (da gr. theî-os ‘zio’) della grotta Ziё Angёlinё di Venere dei Marsi e di quella di Zia Maria (pronunciata come se fosse zià-marìa) di Aielli, il mio paese. Detto per inciso io suppongo che questo zio/zia fosse in realtà all’origine altro termine per ‘grotta, casa, cavità’. Inoltre il concetto di "divinità" era incluso già nell’omofono aggettivo greco theî-os ‘divino’. Così, per quanto riguarda la storia di Angitia, le cose saranno andate nel seguente modo: con il nascere del culto della dea ctonia e la creazione del suo santuario-recinto, il termine angitia, distaccandosi dal suo referente originario costituito dall’inghiottitoio, passò ad indicare la divinità e l’area ad essa consacrata, allo stesso modo in cui il lucu(m) indicante anch’esso l’inghiottitoio, ma in epoca diversa, era passato forse prima, o successivamente, a designare l'agglomerato urbano che nel frattempo si era a mano a mano formato nei pressi del luogo di culto, il quale aveva certamente bisogno di un centro logistico di appoggio. Era così fatale che il suo nome, incrociandosi col lat. lucu(m), venisse riferito senza tentennamenti al “bosco sacro”, che certamente era stato già delimitato o piantato ex novo per la dea . Di conseguenza a nulla può servire, ai fini della individuazione del suo etimo, la citazione virgiliana di nemus Angitiae ‘bosco di Angizia’ (Aen. VII, v. 759) la quale faceva riferimento ad una realtà già consolidata probabilmente da millenni.
La più antica iscrizione col nome della divinità inciso nel cinturone ad essa offerto dalle milizie marse, presenta la forma Actia che coincide perfettamente con l’appellativo del famoso Apollo Akti-os, venerato nel promontorio di Azio nell’Acarnania in Grecia. Questa nuova radice richiamava quella di greco aktís ‘raggio, splendore del sole’ e potè anch’essa favorire l’inserimento di Angitia nei miti del ciclo apollineo o solare.
A questo punto credo sia utile soffermarsi un po’ a riflettere sui meccanismi di queste coincidenze di termini, le quali molto spesso non sono casuali. Il promontorio di Aktion ‘Azio’, che può sembrare un nome proprio dal significato opaco, richiama in realtà direttamente il gr. akté ‘sponda, penisola, promontorio’: in effetti, nella mente dell’uomo onomaturgo, un “promontorio” è la materializzazione di una forza che si protende in avanti a dar forma ad una punta di terra o a concetti simili che, secondo me, si ritrovano in una lunga serie di termini latini e greci caratterizzati dalla radice ak- come lat. ac-utu(m) ‘acuto’, lat. ac-u(m) ‘ago’, lat. acr-e(m) ‘acre, pungente’, lat. aci-e(m) ‘punta, spada’ ma anche ‘fulgore (degli astri)’, gr. ak-mé ‘apice, punta’, gr. ák-mon ‘incudine, saetta’, gr. ak-ís ‘punta, freccia, rampone, rostro di nave’, gr. ákr-os ‘supremo, estremo, sommo’. A questo proposito mi torna in mente con struggente nostalgia il tempo lontano in cui noi studentelli di scuola media inferiore eravamo costretti a sudare, per farne una parafrasi, sui versi del primo libro dell’Iliade nella traduzione, per noi un po’ ostica, di Vincenzo Monti, sicchè ci è restato ben impresso nella memoria l’episodio di Apollo che, adirato con i Greci per via dell’offesa dal loro capo Agamennone arrecata al suo sacerdote Crise, lancia per giorni e giorni una gragnola di frecce su di essi facendone un’orrenda strage. L’origine prima di simili leggende, al di là delle belle favole del mito, va cercata nel fatto che linguisticamente le “frecce” sono l’identica cosa dei “raggi” del sole, e così il loro nome che nel greco storico si era magari specializzato ad indicare solo le “frecce”, in uno stadio precedente della lingua, e in varianti diatopiche o diastratiche, poteva indicare, contemporaneamente o esclusivamente, anche i raggi o la luce del sole di cui Apollo era una ipostatizzazione.
Quanti secoli e millenni e storie e racconti e miti e lingue e uomini hanno interessato, nella lunghissima preistoria, il culto di queste divinità, tenuto conto anche dei fatti non più rintracciabili e ricostruibili! Ed è pertanto gran ventura se in qualche modo riusciamo a sollevare, anche parzialmente, il velo di densa nebbia che li ricopre.

[1] Cfr. Cesare Letta- Sandro D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, pp. 208 ss.
[2] Cfr. Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq 2004.
[3] Cfr. Cesare Letta-Sandro D’Amato, cit. , pp. 208 ss.
[4] Cfr. Dépliant emesso dal Comune di Luco dei Marsi in occasione della mostra archeologica maggio-ottobre 2003.
[5] Cfr. Cesare Letta, cit. , pp. 213-14.
[6] Cfr. Dépliant, cit.

lunedì 1 novembre 2010

Il vastissimo significato d'origine delle parole

   Ogni tanto, sfogliando il Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli, faccio qualche incontro che mi costringe a fermarmi e a riflettere, benchè io stesso sia abruzzese, come dinanzi al sostantivo femminile langhe (la –e- è la vocale indistinta) ‘Sensazione molesta di aridezza nella gola, spesso con tosse stizzosa; sete ardente; voracità; malattia dei cani che li fa ansimare; filo di midolla che si estrae dalla coda dei gattini’.

    Dai significati di ‘sete ardente’ e di ‘voracità’ (quindi ‘fame’) sono spinto a pensare che queste due condizioni, espresse dalla medesima parola, di chi è senza cibo e acqua siano derivate quasi sicuramente da una identica radice esprimente in origine tensione verso gli oggetti del desiderio come avviene per il lat. ad-pet-itu(m) ‘inclinazione, desiderio, brama, assalto’ (da cui l'it. appetito) che rimanda al verbo ad-pet-ere, il quale grosso modo ha lo stesso significato fondamentale di ‘movimento (più o meno energico) verso qualcuno o qualcosa’. Anche l'abruzzese francarse 'avventarsi per aggredire, mordere, ghermire', connesso con voci simili per 'sentirsi affamato', 'fame', rientra nella stessa dinamica (cfr. articolo Commento ad un saggio di Ottavio Lurati...presente in questo blog, giugno 2010). Questa supposizione per langhe 'fame' trova immediato riscontro nei verbi ingl. to long for ‘desiderare ardentemente, bramare’, to long to do ‘non veder l’ora di fare, essere impaziente di fare’, ted. ver-lang-en ‘esigere, pretendere, volere, chiedere’ (cfr. sostant. ted. Ver-lang-en ‘desiderio vivo, brama’, dan. läng-sel ‘bramosia’), ted. lang-en ‘allungarsi, estendersi, giungere, pigliare, afferrare’, italiano fam. al-lung-are ‘porgere, dare, affibbiare (uno schiaffo)’ tutti, quindi, col significato originario di ‘al-lung-ar(si), tendere, ecc.’, il quale dovrebbe spiegare anche quello di ‘filo di midolla...’ se inteso come una sorta di ‘tendine’. E’ superfluo ricordare che gli aggettivi long, lang significano ‘lungo’ rispettivamente in inglese e tedesco. Che la mia supposizione non sia peregrina me lo conferma l’altro lemma lang-uorne ‘persona, cosa lunga’ il quale attesta la solidità della radice lang in terra abruzzese (peccato che il Bielli non nomini i paesi dove il termine ricorre!) col significato fondamentale di ‘lungo’. Si incontra anche il lemma lang-óune ‘ghiotto, ghiottone’ con il frangimento della vocale accentata –ó- diventata –óu-, che richiama la ‘voracità’. Il significato di ‘sete ardente’ fa capire che la radice in qualche parlata poteva piegarsi a rappresentare la ‘tensione’ o l’ ‘ardore’ anche della fiamma (cfr. ungher. lang ‘fiamma’) come viene riconfermato dal lemma al-lang-anìte ‘riarso dalla sete’ (da non confondere con l’aiellese al-laccan-ìte ‘fiacco, debole’ da confrontare forse col lat. lachaniz-are ‘essere languido’ di derivazione greca). L’ ansimare del cane, dovuto a malattia secondo la spiegazione del Bielli, è naturale che possa trapassare al concetto di ‘spasimare’ per qualcuno o qualcosa oppure semplicemente a quello di 'respirare con difficoltà, trafelare' in conseguenza, magari, di un correre: in questo caso, infatti, nel mio paese di Aielli si usava il verbo riflessivo al-lang-àsse<*al-lang-arsi che pendeva già però verso il significato di ‘sfinirsi, stancarsi’ prossimo a quello di lat. langu-ere ‘essere abbattuto, stanco, ecc.’. Del resto nel vocabolario del Bielli si incontra anche il verbo langhià che significa semplicemente 'ansare, di chi è trafelato'.

    Nel dialetto di Villa Santo Stefano nel Frusinate, il termine langa significa semplicemente ‘fame’ e lanc-one indica la persona ‘golosa’, come il suo sosia abruzzese sopra citato lang-óune.
Questa radice lang, così vistosamente malleabile coi suoi vari significati di lunghezza-estensione-arrivo-presa-sete-fame-ardore-respiro affannoso-tendine- ecc. mi rafforza nel convincimento che i significati profondi delle parole siano sempre molto più generici di quanto solitamente i linguisti pensano, e che, di conseguenza, essi siano destinati a combaciare tra loro, a mano a mano che si procede a ritroso nella storia delle parole. Questi significati, poi, anzichè soffermarsi su aspetti particolari, marginali o secondari del fenomeno da rappresentare, come talora danno ad intendere etimologie ufficiali disturbate in realtà da qualche incrocio che fa apparire il termine appositamente confezionato per quell'epifenomeno , puntano al contrario al sodo e all’essenziale avvicinandosi via via sempre più al significato genericissimo che giace al fondo delle parole. Questo fatto naturalmente risulta particolarmente ostico alla nostra mente, abituata da sempre a distinguere una parola dall’altra, un significato dall’altro, corrispondenti ai vari aspetti ed entità del reale. In altri termini il linguaggio come noi lo conosciamo, per quanto riguarda i significati, è figlio di una volontà di distinzione semantica di un unico concetto originario (essere, vita, forza) realizzata storicamente anche attraverso l’aiuto della varietà degli innumerevoli significanti, più che un sistema che già dalle sue origini possedeva o produceva concetti belli e distinti gli uni dagli altri. La radice lang ritorna accompagnata da una sua variante nell’espressione, sempre tratta dal Bielli, va linghe langhe ‘va lemme lemme’ che richiama per il significato il ted. lang-sam ‘lento, lentamente, adagio’ ma che in più risente dell’effetto prodotto dalla iterazione con alternanza vocalica che arieggia, pur non essendolo, un’onomatopea o, meglio, un fonosimbolismo. Si incontra comunque anche la forma solo raddoppiata lènghe lènghe ‘lemme lemme’. Nei manuali si legge che la forma lang 'lungo' è propria del germanico dove si ha solitamente il passaggio della vocale -o- indoeuropea ad -a- (cfr. lat. longum 'lungo' e ted. lang 'lungo') in posizione tonica. Ma, come si vede, le regole elaborate dagli studiosi non sono così tassative come si crede, perchè parte della realtà linguistica presa in esame spesso può nascondere il suo vero volto per diversi motivi , non ultimo quello conseguente alla estrema elasticità dei significati. A me sembra chiaro che quelle che sono etichettate come trasformazioni siano in realtà in gran parte solo semplici sostituzioni di forme preesistenti, autonome le une rispetto alle altre.

   La presenza nell'enunciato linghe langhe della variante linghe (da non spiegare come creazione artificiale opposta a langhe, ma come entità autonoma sebbene con lo stesso significato) mi suggerisce che anche il lat. lingua(m) ‘lingua’ non debba essere riportato, come solitamente avviene, al lat. arcaico dingua ‘lingua’ ricorrente in ambito indoeuropeo come nell’ingl. tongue ‘lingua’, ted. Zunge ‘lingua’. A mio avviso si tratta semplicemente di altra parola che sostituisce l’antica. Il lat. ling-ere 'leccare' è costituito della stessa radice. Il fatto è che dietro queste parole si cela (ma non troppo) il significato di ‘protuberanza’ e, più in fondo, quello di ‘spinta, tensione’, il quale è precedente e sovraordinato a tutti gli altri che la radice nelle varie lingue può assumere, compreso quello di ‘lunghezza’: cfr. lat. lingua(m) ‘lingua, lingua di terra, promontorio’; suffisso ingl. -ling, -lings in avverbi come east-lings (scozzese) 'verso est' dove assume valore di direzione, estensione e misura ed è pertanto da accostare al ted. lenk-en 'guidare, dirigere'; sardo logud. longu ‘pene’ (che naturalmente, in quanto protuberanza - si tenga presente che anche il lat. penem significava 'coda' oltre a 'pene', e lo stesso avviene per lo spagnolo cola 'coda, pene' e per il ted. Schwanz 'coda, pene'- non tiene conto della sua lunghezza e così ci dice che esso circolava già prima dell’arrivo del latino in Sardegna); log. ling-rone ‘allampanato, magro’; logud. longh-iriddu ‘smilzo’; logud. long-ariddone, long-arione, longh-ei, longh-eu ‘spilungone, perticone’; sardo campid. láng-iu ‘esile, magro, smilzo, smunto’; campid. lang-iori, lang-esa ‘esilità, magrezza, macilenza’;campid. lang-inu ‘esile, gracile, mingherlino’(cfr. ingl. lank ‘alto e magro, lungo e sottile, allampanato’); ingl. to ling-er ‘attardarsi, idugiare’, ma anche ' desiderare ardentemente, bramare' nei dialetti (da non considerare naturalmente come alterazione di long 'lungo', come taluni pensano. Ma perchè mai, in effetti, non potrebbe essere il contrario? Il fatto che nell'inglese come noi lo conosciamo la voce long sia centrale rispetto all'altra non è per nulla garanzia che le cose siano state sempre così!); ingl. arcaico link ‘fiaccola, torcia’ che, a mio avviso, si riallaccia all’ungher. lang ‘fiamma’ sopra citato. Da notare che anche il lat. macru(m) ‘magro’ richiama il gr. makrós ‘lungo, grande, largo, esteso, profondo’.

   L’espressione avere, sentire un languore allo stomaco credo, per quanto detto sopra, che non si debba spiegare solo col significato di ‘sensazione di vuoto’ allo stomaco: su di essa aleggia senz’altro il significato di 'fame,morsi della fame' non dovuto soltanto al contesto ma anche all’incrocio di langu-ore con termini come abruzz. langhe ‘fame’.

    Le voci marsicane al-laccan-ìte (ad Aielli) ‘fiacco, debole’; al-laccan-ìtu [1] (a Rocca di Botte) ‘sfinito, spossato, infiacchito’; al-laccan-ìte (a Trasacco) “dicesi di stomaco in preda ai languori della fame... dicesi anche di persona magra” [2]; al-lancan-ìte[3] (a Luco dei Marsi) ‘illanguidito(per fame)’ con l’inserimento della nasale –n-, mostrano un evidente incrocio tra la radice del lat. lachaniz-are ‘essere debole’(da gr. láchan-on ‘ortaggio’) e quella di abruzz. langhe ‘fame’ o ‘magrezza (non ricavata quest’ultima, però, direttamente dall’idea di fame, ma da quella di allungamento o assottigliamento attestata dai rispettivi termini sardi di cui sopra)’. La forma al-lancan-ìte ‘illanguidito (per fame)’ di Luco dei Marsi, se paragonata al sopra citato abruzz. al-langan-ìte ‘riarso dalla sete’, ci conferma che la radice in questione poteva essere usata indifferentemente per esprimere la fame o la sete, concetti ben distinti ormai in tutte le lingue, credo. Ma probabilmente lo erano già ai tempi remoti cui risalgono queste antiche parole, perchè poteva darsi che nella parlata di un paese in cui, ad esempio, al-langan-ìte significava ‘riarso dalla sete’, esistesse tutt’altra parola per indicare la nozione di ‘fame’.

P.S. Mi sono accorto che anche il nome della nota subregione piemontese delle Langhe, costituita da serie di colline dalle creste appuntite rincorrentisi , può ricevere luce etimologica da quanto sostenuto sopra sulla radice lang: basta pensare al sardo log. longu 'pene', così chiamato in quanto 'protuberanza', per convalidare il significato del termine langa 'cresta' ricorrente appunto in loco per le 'creste, cime, punte' delle suddette colline. Ma la radice, secondo la corrispondenza speculare di cui ho parlato nell'articolo precedente, poteva assumere anche il significato di 'conca, avvallamento, ansa di fiume'.

   Leggo ne I Dialetti Italiani, Cortelazzo-Marcato, UTET, Torino 1998, sub voce (a)nànca: "sf. (salentino; pugliese; abruzzese e campano: langa). 'Ultimo tratto della coda di gatti e cani'. Dal greco ananke 'necessità (di mangiare)', che si ritiene abbia sede in un nervo posto nella coda dei piccoli animali, ai quali viene asportato per evitare loro di diventare troppo voraci. Dalle varianti langa, lanca proviene il denominale allancà(re) (calabrese) 'essere affamato' e l'agg. allancatu (siciliano) 'affamato, famelico' ". Mi domando stupito come si possa credere che tutti questi significati connessi con la radice lang, lank (la quale va a spiegare, oltre al pene della variante logudorese longu, anche le punte delle Langhe in Piemonte nonchè i probabilmente numerosi oronimi del tipo Lang-berg, Langen-berg in area germanica, 'monti lunghi' sì, ma in altezza, cioè semplicemente 'monti, picchi' ) siano potuti svilupparsi da una credenza così singolare da sembrare quasi incredibile. Per me si è di fronte alla solita, ormai quasi tediosa storia, se essa non fosse linguisticamente e culturalmente rivoluzionaria: non è stata la credenza a dare origine a tutto il resto, ma quest'ultimo a generare la credenza con la relativa pratica di asportazione del nervo della coda, parti dell'animale che, come abbiamo visto, si contendevano il termine langa o uno simile! Da ciò emerge un'altra grande verità: le parole di per sè, trovandosi in un contesto adatto, rivelano sempre una naturale vocazione mitopoietica. Il concetto di 'coda' o 'punta', in quanto protuberanza, rientra benissimo nel significato profondo di lang: è chiaro allora che sarà stato l'incrociarsi, nell'ambito di una stessa parlata -anche in periodi immediatamente successivi-, dei due significati attestati di 'coda' e di 'fame', specializzazioni di quello di fondo della radice, a provocare l'immancabile nascita della credenza in questione che, in tal caso, non ci lascia almeno a bocca aperta circa il suo formarsi. La voce (a)nanca, poi, ha tutta l'aria di un incrocio della voce langa 'coda, punta della coda' con il greco ananke (cfr. la trafila la langa>l'ananca>la nanca) di cui si dà, nell'opera citata, il significato di 'necessità (di mangiare)', con un indebito inserimento del significato di 'mangiare' non riscontrabile nella parola greca: esso, non comparendo nemmeno nel termine sottoposto ad incrocio ('ultimo tratto della coda di gatti e cani'), non può allora che essere spiegato come valore aggiunto extralinguistico, ma artificiosamente introdotto nel gr. ananke 'necessità' (il quale d'altronde farebbe solo una fugace e marginale apparizione nella storia), come per divinazione, a causa della credenza di natura superstizosa di cui si parla, al solo fine di far quadrare tutta la supposizione. Come si è visto, però,la credenza recalcitra purtroppo a porsi all'origine di tutta la faccenda senza una motivazione, uno spunto, un suggerimento, perchè anch'essa abbisogna , per svilupparsi in modo naturale, d'un terreno di coltura da cui le proprie radici assorbano sostanze nutritive che, trasportate dalla linfa alle varie componenti della piantina, ergentesi finalmente fiduciosa alla luce del sole, diano contemporaneamente alimento a loro e alla libera, gratuita, magica, sbrigliata fantasiosità autoreferenziale degli eventuali osservatori di questo miracolo della crescita, soprattutto se privi, come quelli vissuti in epoche prescientifiche e superstiziose, di un bagaglio di adeguate e profonde conoscenze che li guidino nel difficile compito di sceverare il molto falso dall'unico vero. Fantasiosità che dà forza e sostegno ad ogni sorta di supposizioni, in specie quelle che si lasciano incantare dalle dicerie correnti e non scorgono la stretta connessione tra i variegati e vigorosi ramoscelli fiori frutti foglie della pianta e la sotterranea incolore essenzialità delle sue radici, le quali, pure, alimentano se stesse e tutte le altre parti della pianta con lo stesso nutrimento tratto dal terreno . Amen.

    Esiste inoltre la possibilità che il lemma (a)nanca, nell'opera citata, sia dovuto solo alla ricostruzione fatta dal rispettivo estensore (Cortelazzo) o, più verosimilmente, agli autori delle opere di riferimento, se egli , elencando la bibliogafia (DEI, ss.vv. allancàre, langa, nanca; Rohlfs 1964), non cita una forma attestata ananca (di cui, però, potrebbe farsi menzione all'interno di queste opere che purtropo non posseggo). Essa sarebbe stata allora fallacemente ricostruita, e tirata in ballo come pezza d'appoggio per l'introduzione del presunto etimo indicato nel gr. ananke 'necessità', dato che la forma sicuramente attestata nanca potrebbe comodamente spiegarsi come normale dissimilazione da un precedente la langa. E per questa stessa via potremmo anche riapprodare ad ananca (nel caso in cui quest'ulima voce ricorresse effettivamente nei dialetti), ma solo come esito finale, e non come punto di partenza, della trafila la langa>la nanga>l'ananca, dato anche il persistere a lungo del greco in aree del meridione.

    Mi scuso con il lettore, ma ho scoperto or ora, nel citato libro Biabbà di Quirino Lucarelli (relativo al dialetto di Trasacco-Aq), il lemma al-lang-an-ìsse 'desiderare ardentemente, morire dalla voglia, desiderare un cibo, farsi venire l'acquolina in bocca', un po' diverso dal citato part. ps. allaccanìte dello stesso dialetto trasaccano, e che puntualmente conferma il mio ragionamento fatto all'inizio, nemmeno per un istante dubbioso sulla necessità di mettere in stretta connessione la radice di abruzz. langhe 'sete ardente, voracità, ecc.', ciociaro langa 'fame', con ingl. to long for 'desiderare ardentemente, bramare' e ted. Ver-lang-en 'brama': la voce trasaccana, in effetti, esplicita sia il significato di 'desiderio' in senso generico sia quello specializzato di 'desiderio di cibo' per la radice in questione.
Si incontra, nello stesso libro sul dialetto trasaccano, anche il lemma lanche 'aridità di gola, stizzosità di gola' già presente nel vocabolario di Domenico Bielli sopra citato.

Con tutti questi riscontri si può senz'altro ritenere certa la presenza, in diversi dialetti centro-meridionali, di una remotissima radice lang per 'fame', 'sete', 'desiderio ardente' ed altro, indipendentemente dal suo incrocio o meno con il gr. ananke' necessità', e strettamente imparentata con note radici dell'area germanica.


[1] Cfr. Mauro Marzolini, “...me ‘nténni?” , Tofani editore, Alatri-Fr 1995, p. 197.

[2] Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.

[3] Cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 43.