domenica 25 luglio 2010

I paesi di Villaputzu e San Vito nel Sarrabus



Questi paesi li conosco sufficientemente per aver insegnato una quarantina di anni fa nella scuola media di Villaputzu-Ca, per un paio d’anni (precisamente negli a. s. 1971-72 e 1972-73). Sicchè mi pare un atto di deferente omaggio a quella brava gente che mi accolse con gentilezza e cordialità cercare di contribuire a sistemare qualche piccolo tassello della loro antichissima storia. Per la verità quanto sto per dire circa l’origine di alcuni toponimi non ha valore di certezza assoluta, anche se il ricorrere di certi fenomeni e certe coincidenze è garanzia, a mio avviso, di una qualche attendibilità delle mie proposte, le quali non mi sono venute in mente improvvisamente l’altro ieri ma sono certamente conseguenza di un ventennio dedicato a ricerche e studi di toponomastica e di linguistica. Le mie posizioni, per la verità, non sono affatto ortodosse, ma vanno palesemente controcorrente. Ho già avuto modo di analizzare diversi termini sardi nell’articolo Parole sarde del DULS presente nel mio blog (giugno 2009) e in qualche altro scritto.

Mi ero ricordato, invero, del nome di San Vito-Ca già nello stendere l’articolo Fonte della Vita e fonte Vipera...(giugno 2009) nel punto in cui vi spiego l’etimo di Bitti-Nu, ma allora lasciai cadere la cosa sperando di tornarci su in altra occasione.

Ora, scorrendo i siti di internet su Villaputzu mi sono ricordato della festa di Santa Vittoria, la più sentita nel paese anche se il suo patrono è San Giorgio, col caratteristico ciaramellare delle launeddas, e improvvisamente (qui questo avverbio non fa una grinza) mi si è spalancata la visione riguardante la probabile origine non solo del toponimo San Vito ma anche del nome della santa Vittoria. Il fatto è che ho rivisto quasi la stessa scena occupata da nomi come quello di Vitt-or-iano (uno dei Santi Martiri di Celano-Aq), composto di tre membri tautologici riferiti al concetto di ‘acqua’, o come quello della Madonna della Vitt-oria di Aielli-Aq, il mio paese, o della Madonna della Vittoria di Scurcola Marsicana ugualmente messe da me in rapporto con l’ ‘acqua’. Dei primi due parlo nell’articolo I Santi Martiri di Celano e la Madonna della Vittoria di Aielli, del terzo nell’articolo La Madonna della Vittoria di Scurcola Marsicana, tutti nel mio blog (giugno 2009).

Il gentile lettore è pregato pertanto di scorrere quegli articoli se vuole farsi un’idea più circostanziata delle motivazioni che mi spingono a vedere nella radice indoeuropea wed/wad di ingl. water ‘acqua’ e di gr. hýdōr ‘acqua’ una conferma delle mie interpretazioni relative a questi nomi e a queste festività.
C’è da precisare che i due centri sardi del Sarrabus si trovano in prossimità della foce del Flumendosa, San Vito alla destra orografica, Villaputzu alla sinistra. E’ quindi molto probabile che Vito e Vitt-oria, la quale è composta anche dell’elemento tautologico –or, fossero nella preistoria due appellativi riferiti alla stessa realtà, quella dell’acqua, la quale era senz’altro oggetto di culto per ovvi motivi in quasi tutte le civiltà preistoriche, specie dopo l’introduzione delle coltivazioni cerealicole a partire all’incirca da 10 mila anni fa. L’elemento –or di cui sopra a mio avviso si ritrova, leggermente variato, nel nome del Flumini Uri , che si getta nel Flumendosa, a valle di San Vito.


A proposito del cuccuru ‘e santa ‘Ittoria, l’altura, il rilievo o il colle, dove si trovava nel medioevo la chiesa della Santa e dove oggi sosta in raccoglimento la processione, mi sembra di assistere alla stessa situazione in cui nella festa della Madonna della Vittoria di Aielli, ugualmente la più sentita anche se i patroni del paese sono altri, subentra il ricordo del tempo in cui, dopo una lunga siccità, la Madonna pregata dal popolo, secondo la tradizione, fece cadere tanta pioggia quanta non se n’era mai vista, dopo che era apparsa una nuvoletta sul monte San Vittorino : anche qui compare quindi un’altura simile a quella di Santa Vittoria di Villaputzu. Ma non basta. Se si va a curiosare tra i nomi di paesi di un tratto della valle del fiume Aterno vicino L'Aquila ci si accorge che stranamente (?) la radice in questione ricorre frequentemente come nel nome del paese di San Vittorino, attualmente su un colle, ai cui piedi sono i resti dell'antica e famosa città sabina di Am-iternum, patria di Sallustio, il cui etimo è comunemente spiegato come am(b)- itermum 'intorno, presso l' Aterno' , sebbene io preferisca vedere nel nome un composto tautologico idronimico col primo elemento corrispondente al lat. am-nis 'fiume', composto il cui significato forse non era più trasparente già in antico. In altri termini il nome della città di Amiterno indicherebbe alle origini solo il fiume, da cui derivò il nome dell'insediamento (come in tanti altri casi), e non la ' (zona) presso il fiume'. L'elemento -iternu(m) a mio parere viene da un precedente *-(v) iternu(m), variante di *(v)aternu(m), da cui il lat. Aternum (cfr. ingl. water 'acqua'). Nei dialetti della zona è infatti tuttora frequente la caduta della spirante sonora intervocalica o all'inizio di parola, tanto è vero che la valle vi diventa l'àlle. Il fenomeno dovette essere attivo nella parlata amiternina già dalla remota antichità. Se si aguzza un po' la vista ci si accorge che la struttura consonantica di (vi)ternu(m) corrisponde a quella di Vittorino: basterebbe un forte accento espiratorio sulla prima sillaba di Vittorino, cosa che avvenne veramente in una fase antichissima della storia delle lingue e che interessò anche il germanico e l'etrusco, per provocare di conseguenza un terremoto nelle sillabe successive con la caduta dei suoni vocalici e per ritrovarsi, al posto di Vittorino, con uno scarno vìtrn combaciante col secondo elemento -(v)itern di Am-iternu(m). In effetti il nome greco del fiume era 'Aternos con l'accento sulla prima sillaba come in una iscrizione di Scoppito-Aq in cui compare un en atrno 'in Aterno'. Secondo la tradizione il paese di San Vittorino trarrebbe il nome dal fatto che in esso fu trasportato e sepolto il Santo martirizzato alle terme di Cotilia sulla via Salaria: l'unica cosa certa, in queste tradizioni, a me sembra il ricorrere della presenza dell'acqua nei luoghi messi in rapporto col nome del Santo post eventum, cioè dopo che la fama del vero o presunto martire raggiunse questi paesi che avevano già il suo stesso nome. Un'antica chiesa di San Vittorino si incontra nel paese di Grotti, vicino Rieti, nei pressi di un pozzo chiamato fonte Erutti. San Vito inoltre è il patrono di Barete (che ha una frazione chiamata San Vito), paese situato più a monte lungo il fiume, a pochi chilometri da San Vittorino . Un paesino chiamato San Vito riappare nell'alto corso dell'Aterno subito sopra Cavagnano, ormai prossimo alla sorgente. Una chiesetta di San Vito sorge proprio di fronte alla famosa Fontana delle 99 cannelle. Come si può rifiutare, dunque, l'idea che in tempi remotissimi questo nome, in questi casi, era quasi sicuramente quello di una divinità delle acque? e come si può non condividere l'idea che questi nomi legati al terreno e alle forze della natura si sono via via riciclati con il sovrapporsi di strati linguistici diversi se d'altronde è vero che in area slava Sveti Vid (San Vito), che esisteva già prima dell'arrivo del culto cristiano come divinità della guerra, abbondanza e divinazione (Svetovid), assunse la funzione di santo protettore della vista a causa del coincidere del nome con lo slavo vid 'vista'? Ma, a ben riflettere, anche la funzione della divinazione del dio precristiano deve essere legata al significato della radice indoeuropea vid 'vedere', molto adatta ad indicare la conoscenza di cose nascoste agli uomini. E l'idea di abbondanza potrebbe essere ben espressa dalla radice del ted. weit, ingl. wide 'ampio, vasto'. Non per nulla nell'isola di Rugen nel mar Baltico esisteva, secondo la tradizione, un'enorme (concetto affine a quello di 'ampio') statua di legno (a. germanico witu, ingl. wood 'legno') del dio in questione rappresentato anche con un corno dell'abbondanza che ogni anno veniva riempito di idromele (cfr. nel mio blog l'articolo L'acqua-vite del giugno 2009 per i rapporti tra la radice vit- e le bevande alcoliche). A Marana, più a monte di Barete, il patrono è Sant' Em-idio, nome in cui si possono individuare a mio avviso ancora una variante di am- (Am-iterno) e una forma -idio, adattamento al nome del Santo di un precedente (v)ito oppure (v)itio. Una festa di Sant'Emidio si celebra anche a Barete e il Santo è patrono dell'Aquila insieme ad altri due. In alternativa varrà l'etimo che più sotto darò. Qui mi pare utile aprire una parentesi sulla storia di Sant'Emidio che proveniva secondo la tradizione da Treviri (Trier) in Germania dove era nato nel 273. Il suo nome sembra un po' strano se lo si intende, come fanno i più, derivante dal latino semi-deus ' semidio' giacchè il primo elemento avrebbe nel contempo la forma greca (s)emi- con la caduta della fricativa iniziale. Inoltre varie erano le forme che il nome mostrava nell'alto medioevo (cosa che fa supporre che esso subisse influssi vari) come Emidius, Aemidius, Emigdius sicchè è presumibile che l'ultima si sia incrociata e sviluppata da verbi come il lat. e-mic-are 'scaturire, spuntare, balzare nel petto, palpitare, ecc.' , lat mic-are ' pulsare, tremolare, palpitare, brillare' (i cui tre primi significati sono a mio avviso esplicativi del motivo per cui il Santo è considerato protettore dal terremoto ma anche capace di provocarlo), serbo-croato mica-ti 'muovere', serbo-croato mig 'cenno'. Sotto questo profilo è probabile che una divinità simile esistesse già prima dell'avvento del Cristianesimo almeno in qualche dialetto locale di area italica dove la radice in questione poteva aver operato molto prima dell'arrivo del latino storico. L'emblema del Santo è la palma, come spesso avveniva per coloro che avevano subito il martirio, ma in questo caso la radice potrebbe richiamare quella del verbo greco pallo ' vibrare, scuotere, squassare' del gr. palmos 'battito, pulsazione', gr. palmatias 'terremoto con forti scosse'. La sua patria d'origine, in latino Treveri o Treviri, sembra anch'essa sospetta quando si tenga presente il serbo-croato treperi-ti 'vibrare, tremolare' e l' a. slavo trepeta-ti 'tremare' in riferimento alla leggenda del presunto fondatore della città, e cioè Trebeta figlio di Nino re assiro, e pertanto doveva circolare, magari nella preistoria, un altro nome per il Santo, simile al lat. trepidu(m) 'il tremebondo' o alla voce dialettale abruzzese trettecà  da *trept-icare 'oscillare, dondolare, tremare, muover(si)', che ne specificava la funzione. Che egli poi in questo contesto religioso fosse destinato a diventare vescovo (ad Ascoli Piceno, dove tra l'altro fece scaturire da una roccia la Fonte di Sant'Emidio: chiaramente deve essere stato il nome della fonte ad attrarre quello del Santo, non viceversa), cioè un capo, era cosa anch'essa scritta nel suo nome, se lat. emic-are significa anche 'sporgere, sovrastare', e i vescovi come sappiamo hanno il titolo onorifico di eccellenza il cui etimo mostra un significato del tutto simile a quello del titolo di eminenza (letter. 'sporgenza') riservato ai cardinali. A mio avviso anche l'iconografia del Santo relativa alle tre dita della mano destra tenute aperte, diversamente dall'anulare e dal mignolo tenuti ripiegati verso il palmo, si spiega con l'incrocio della radice indoeuropea del numero tre con quella di verbi come gr. tré-o 'tremare', serbo-croato tres-ti 'scuotere'. E ricordo benissimo che, dinanzi alla statua di Sant'Emidio rappresentato in questo modo nel mio paese, noi ragazzi dicevamo che bastava che il Santo girasse quelle tre dita per provocare un terremoto. Tornando al discorso precedente si può affermare che le radici che esprimono il concetto di ‘acqua’ o ‘fiume’, entità che sono forze della Natura vivente, restano le stesse di quelle che nella mentalità animistica primitiva danno origine ai concetti di ‘colle, altura, monte’, come vado affermando in molti miei articoli; e certamente il tempo non mancava perchè su un determinato territorio si stendessero nel corso dei molti millenni a disposizione strati linguistici diversi, alcune parole dei quali andavano fatalmente a sovrapporsi ad altre simili o uguali nella forma esterna ma diverse nel significato, plasmando così anche i racconti tradizionali intorno ad una divinità o un santo i quali si ritrovavano quindi in connessione con diverse entità fisiche del territorio (colle, acqua, ecc.). Il valore di Vitt-oria come ‘altura, monte’ ci viene in qualche modo assicurato dall’it. vetta, termine di dubbia origine, e dal gr. óros ‘monte’.


Così si viene a scoprire, con mia meraviglia, che in fondo non c’è una distanza proprio insormontabile tra la realtà tradizionale di un paese dell’Abruzzo montano e quella di un paese del Sarrabus in Sardegna! Persino qualche radice del lessico attuale è la stessa. Nel dialetto del mio paese si incontra, ad esempio, la voce cuchërùzzë ‘cima di monte o di mucchio’ che non è variante dell’it. cocuzzolo ma semmai del sardo cùccuru, cuccuréddu, anche se tutte queste forme partono a mio avviso dalla stessa base prelatina mediterranea kukka. Ho scoperto che il nostro nome del picchio, cioè piccamùrrë è lo stesso del sardo logudorese biccamuru il quale pare indichi però il ‘picchio muraiolo’, anche se io penso che questa sia una "specializzazione" del significato generico iniziale.

L’etimo di Villaputzu (sardo Biddeputzi) presenta difficoltà notevoli vuoi perchè nel medioevo, come leggo in qualche sito internet ma non nel dizionario[i] UTET, il nome del paese sarebbe stato Villa Pupus o Pupia senza però che se ne dia una fonte documentale, vuoi perchè, oltre alle sue spiegazioni più banali come quella che tira in ballo il ‘pozzo’, ce ne potrebbero essere altre, non ultima quella che io preferisco perchè lectio difficilior e ad un tempo collegata al quadro toponimico della zona precedentemente tracciato: in linea quasi del tutto teorica io partirei da un primordiale Vid(d)a-put(t)u in cui il primo membro Vida, poi reinterpretato come vidda (bidda) ‘paese villaggio’, verrebbe ad essere variante di Vidu ‘Vito’ e il secondo membro dovrebbe corrispondere alla radice di greco pot-amós ‘fiume’, variante a mio avviso di greco pîd-ax ‘sorgente’ e della radice di lat. pet-ere 'chiedere, dirigersi, ecc.'. Anche qui in origine si avrebbe un nome con due membri tautologici riferibili a qualche sorgente o al Flumendosa stesso. Non mancano in Sardegna idronimi come Riu Putzu Nieddu, Riu Putzu Canu,Torrente Butt-ule ecc. i quali a mio avviso hanno poco a che fare con il ‘pozzo’. Salve Sarrabus!



(Oggi, 13 settembre 2012, ho notato che questo articolo ha un numero abbastanza alto di visualizzazioni.     Si deve trattare in buona parte di lettori di Villaputzu.  Colgo l'occasione per salutare i colleghi di allora nativi di Villaputzu: Cesare Loi (matematica), Uras (lettere) più le colleghe di cui, purtroppo, non ricordo bene il nome.  Saluto con struggimento nostalgico tutti i miei alunni che allora erano adolescenti in erba, ora saranno maturissimi oltre la cinquantina.  Faccio qualche cognome che ancora ricordo: Siddi, Mattutzu, Madeddu (erano due), Mattana, Mirtello, Marongiu, Cinus (beve ancora vernaccia?),  Pisu, Corona (ce l'ha ancora la bicicletta?), Loi, Pibiri (che io pronunciavo Pibbiri con due -b-) ecc. Tra le ragazze di allora ricordo le sorelle Murru (Rosina e Angela), Atzori, Sirigu, Vacca, Perra, Tramatzu, Marci ecc.  Ricordo che gli alunni  di una terza li facevo giocare spesso a pallavolo di pomeriggio. Era abbastanza palloso anche per me passare due ore consecutive a studiare storia!  Vi saluto tutti con grande affetto, anche quelli che non ho citato, i cui volti sono sempre nella mia mente.  Io vivevo presso la famiglia di Armando Loi, in via Loi: lì vicino si trovava la scuola media, in un locale di proprietà della parrocchia, mi pare)

Pietro Maccallini


[i] Cfr. Aa. Vv., Dizionario di toponomastica, Torino, UTET 1997, p. 708.

martedì 13 luglio 2010

Sposa bagnata, sposa fortunata

Questo comunissimo modo di dire, che sembra un parto fresco fresco dell’inventiva di qualche partecipante a matrimonio su cui si rovescia un improvviso temporale che rischia di rovinare l’abito della sposa nonchè tutta la cerimonia, ribalta per così dire la situazione augurando felicità e fortuna alla sposa e di riflesso anche allo sposo. Trascurando le opinioni scurrili che si possono incontrare in internet su questo detto, immagino che i benpensanti accetteranno le dotte spiegazioni degli addetti ai lavori i quali si affretteranno a ricordare che la pioggia era in passato, quando i più lavoravano la terra, simbolo di fertilità e di abbondanza e che quindi, allo stesso modo, essa era di buon augurio per una sposa che, come un terreno preparato per le semina, si accingeva a dare vita ad una nuova famiglia che si sperava allietata da nuovi rampolli e da tanta fortuna. E forse contemporaneamente si pensa che il detto sia nato non molti secoli fa o, a volersi proprio rovinare, nel periodo tardoimperiale o altomedioevale. Ma, a mio avviso, le cose possono essere andate molto diversamente. Io, tra l’altro, credo poco alla possibilità che questi modi di dire escano già confezionati dalla bocca di qualche tipo ameno o dotato di facoltà creativa, e penso che ci sia quasi sempre nella lingua uno spunto bello e pronto a darvi l’avvio. Inoltre essi, spesso e volentieri, possono derivarci da tempi immemorabili, anche preistorici.
E in effetti, a dare una collocazione preistorica all’espressione, poteva aiutarci l’analisi stessa del significato profondo della parola sponsa ‘promessa sposa’ e del lat. spond-ēre ‘promettere’, i quali rimandano al gr. spéndospruzzo, libo, concludo un accordo’ e gr. spondélibagione, accordo, pace, tregua’. Da ciò si capisce che gli antichi greci erano soliti “bagnare” (come in fondo facciamo ancora noi tra amici in occasione di lieti eventi, anche spiccioli, della vita quotidiana) ogni conclusione di un accordo, di una promessa vicendevole importante, con più o meno abbondanti libagioni. Si obbietterà che comunque in latino il significato delle parole suddette non accenna ad alcuna sorta di brindisi. Ed è vero. Ma nel dialetto di Villapiana-Cs spunta una voce sponsa dal significato di ‘bagnata’. Ora, è possibile che questo significato sia stato tratto, anche se per i capelli, da quello del greco spéndo, ma la forma sponsa corrisponde a pennello alla rispettiva forma latina sponsa ‘promessa sposa’ e pertanto è più logico pensare che essa sia la stessa parola latina, ma col suo significato preistorico (per il latino) di ‘bagnata’. In greco la parola per ‘sposa’ era solitamente nymphē. A mio avviso, pertanto, chi cominciò ad usare il modo di dire in questione doveva avere nella mente, oltre al concetto di 'fortuna, felicità' insito in questi avvenimenti caratterizzati da piacevoli riunioni conviviali, anche il significato di ‘bagnata’ per il lat. sponsa ‘promessa sposa’. E questo poteva succedere anche in epoca antecedente a quella del latino storico come noi lo conosciamo, benchè la parola villapianese sponsa ‘bagnata’ stia lì ad attestare, col suo significato giunto fino a noi, che essa poteva trovarsi anche in altri dialetti e che l’incontro tra i due significati del termine potè avvenire anche in periodo storico e in qualche altra parte dell’Italia.
Non si può escludere, infine, che in quel 'bagnata' si perpetui l'eco d'un rito simile a quello greco di un bagno purificatore per i due sposi nelle acque di qualche fontana o fiume sacro, come la Calliroe ad Atene e l'Ismeno a Tebe.

sabato 10 luglio 2010

Perchè gli abitanti di Gioia dei Marsi erano chiamati "pesavénde" dagli abitanti dei paesi vicini

Il compianto Quirino Lucarelli[i], al quale i Trasaccani dovrebbero letteralmente innalzare un monumento come lui lo ha innalzato al loro dialetto, alle tradizioni e alle antichità trasaccane con i tre corposi tomi di Biabbà, ci informa che il nomignolo di pesavéndë (pesavento) era appioppato agli abitanti di Gioia Vecchia, Gioia Nuova e Menaforno, tutti centri di un unico territorio comunale, a motivo della estrema meticolosità della gente di questi paesi nei rapporti interpersonali concernenti scambi di beni materiali quali uova, lardo, cereali, ecc. Essi, ad esempio, avrebbero usato anelli di diverso diametro per misurare la dimensione delle uova, nonchè misurini, bilance e bilancini per pesare con estrema precisione i beni oggetti di scambio, per un loro marcato e innato senso della giusta misura da raggiungere ad ogni costo, a tal punto da essere capaci di pesare anche “l’aria e il vento”, come dichiarato apertamente dal loro nomignolo. Il Lucarelli aggiunge anche che a Trasacco il termine pesavéndë aveva assunto il significato di 'giusto, preciso, misurato', facendo intendere che esso sarebbe derivato, nel dialetto trasaccano, dal suddetto nomignolo riservato ai Gioiesi.
Io non sono dello stesso parere del Lucarelli che, d’altronde, non aveva fatto sicuramente degli studi specifici di linguistica e che, comunque, è in buona compagnia perchè sono certo che i linguisti professionisti appoggerebbero la sua stessa posizione, preferendo di solito bearsi della luce superficiale delle parole ignari della possibilità di restarne abbagliati. A mio avviso il termine pesavéndë è da considerare l’esito, per etimologia popolare, di una precedente forma del parlato *pesa-pénde, con il secondo membro direttamente collegato al lat. pendere (pesare) , mentre il primo membro è una forma intensiva volgare pe(n)sare, derivata sempre da lat. pendere. E’ da supporre, quindi, che la voce registri proprio il momento del passaggio dal latino al volgare e che sia nata dalla necessità di spiegare la forma originaria rappresentata da pendere 'pesare', la quale cominciava ad essere incomprensibile e perciò venne sostituita dalla nuova forma. Ma è anche possibile vedere nella parola composta un rafforzamento espressivo del concetto di 'pesare'. Ed è molto probabile che essa, ricorrendo nel dialetto di Trasacco, come accennavo sopra, e forse in altri dialetti lontani da quello di Gioia, come arguisco dal cognome “Pesavento” presente in diversi siti internettiani, vivesse già di normale vita propria, nel lessico di svariati dialetti, e non presupponesse nessun rapporto esclusivo con gli abitanti di Gioia. La forma rafforzata *pesa-pende (pesa-pesa) aveva assunto quindi valore aggettivale con il significato di ‘meticoloso, preciso nel peso’ e simili.
A questo punto si pone il problema del perchè gli abitanti di Gioia, e non altri, meritassero un tale appellativo. E’ infatti a mio parere comprensibilissimo che un soprannome venga addossato per i motivi più diversi, e per questo difficilmente rintracciabili, a questa o quella persona con la quale si condivide l’esistenza nell’ambito di una cerchia ristretta di amici o compaesani, ma mi sembra un po’ più difficile che un nomignolo possa essere attribuito con la stessa spontaneità ad un’intera comunità, diversa dalla propria, la quale presumibilmente è composta di individui che non saranno tutti caratterizzati dalle stesse inclinazioni e dagli stessi stili di vita. La pignoleria dei Gioiesi, negli scambi dei beni, doveva essere a mio parere esattamente la stessa riscontrabile in tutti gli altri paesi dei tempi andati, caratterizzati spesso da estremo bisogno e povertà, sia pure dignitosa. In questo caso è perlomeno probabile che ci sia stato qualcosa di oggettivamente riscontrabile e duraturo nel tempo, riguardante l’intera comunità, a dare il via alla nascita dello stereotipo di cui si parla e a sostenerlo nel suo radicamento. E in effetti, con questa idea precisa nella testa, credo di essere riuscito ad individuare la causa del nomignolo proprio, guarda caso, nel nome antico del paese di Gioia, e ciè il lat. Iugum, o qualcosa di simile. Nome che, tra le sue diverse accezioni come 'vetta, valico montano' annovera anche quella di 'giogo della bilancia, bilancia'. Con un significato di tal fatta, era inevitabile che il nome del paese prestasse il fianco, prima o poi, agli apprezzamenti ironici degli abitanti dei paesi limitrofi, apprezzamenti ai quali un po’ per celia, un po’ per la incontestabile veridicità del nomignolo legato al nome del paese, un po’ in conseguenza della nomea che nel frattempo si andava diffondendo intorno a loro, probabilmente finirono per rassegnarsi gli stessi Gioiesi.


[i] Quirino Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, p.114 sub v. Gioia, p. 583 sub v. pesavénte.

giovedì 1 luglio 2010

La "mazzòcca giallorìte" 'la pannocchia di Gian Loreto' di Luco dei Marsi

Leggendo il bel libro La parlata di Luco dei Marsi[i] di Giovanni Proia, ho incontrato la voce Giallorìte corrispondente al personale Gian Loreto ma indicante anche, nell’espressione la mazzòcca giallorìte, " la pannocchia di Gian Loreto (pannocchia di granturco con i grani color rossiccio anzichè giallo; nella spannocchiatura, il ragazzo o la ragazza cui càpiti questa pannocchia deve dare un bacio a tutti i partecipanti)”.
Anche in questo caso è a mio avviso molto improbabile che la denominazione derivi effettivamente dal nome di qualcuno che magari per primo abbia dato origine al giuoco per aver trovato quel tipo di pannocchia. La cosa dovrebbe essere stata molto più diretta e naturale, e tuttavia sorprendente. Stando a quello che fra poco dirò, c’è da supporre che probabilmente l’espressione risalga a tempi antichissimi, ben anteriori a quello della diffusione in Italia della pianta proveniente dall’America, intorno al Cinquecento. Essa poteva infatti riferirsi, ad esempio, alla pannocchia di miglio, pianta diffusa in Italia sin dalla preistoria, di cui esistevano varie specie caratterizzate appunto da una colorazione diversa, bianca, gialla, rossa (panicum miliaceum purpureum, luteum, ecc.) della pannocchia. E pertanto era possibile che ce ne fossero anche delle ibride. Caduta in disuso in molti paesi, o ridottasi di molto, la coltivazione del miglio, l’espressione dovette passare senza difficoltà ad indicare la pannocchia della nuova pianta americana, nel caso in cui fosse stata rossiccia invece di gialla.
In effetti, aguzzando un poco l’ingegno, a me sembra che il presunto nome personale in realtà nasconda, sotto ben mentite spoglie, proprio la designazione del colore ‘rossiccio’ della pannocchia fortunata. Io vedrei nel falso giallorìte (Gian Loreto) un aggettivo composto di due membri e cioè giallo-rite < *giallo-reto , in cui il secondo andrebbe a corrispondere esattamente all’ingl. red ‘rosso’, sicchè si può pensare che il significato originario dovette essere proprio quello di ‘giallo-rosso, rossiccio’. Inoltre, a ben riflettere, può talora accadere che non tutti i chicchi siano ‘rossicci’ e che solo una parte di essi siano più o meno ‘rossi’, mentre gli altri restano normalmente gialli: l’aggettivo composto risulterebbe così calibrato a puntino anche per il granturco, sebbene all’origine esso si riferisse forse alle varie spighette della pannocchia del miglio qualcuna delle quali poteva avere talvolta colorazione diversa dalle altre corrispondente ad una delle tre specie di cui sopra. In alternativa si può anche supporre che la voce giallorìte indicasse, nel medioevo e fino all’introduzione del granturco, un colore fra il giallo e il rosso (rossiccio) nel dialetto luchese. Essa, caduta poi in disuso, è rimasta legata a filo doppio, per sopravvivere, solo alla nostra espressione. Che la radice circolasse anche su suolo italico ce lo attesta il lat. russu(m) ‘rosso’ , fatto derivare da un precedente *rudh-tos; cfr. anche lat. rut-ilu(m) ‘rosso, fulvo, brillante’, ted. rot ‘rosso’. A questo proposito ci dà una valida mano anche la voce abruzzese ride-cànie 'morbillo' (cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, Cerchio-Aq 2004, Adelmo Polla editore ) il cui primo membro è a mio parere variante di ingl. red 'rosso' di cui sopra nonchè collegato al lat. rid-ere 'ridere, brillare (cfr. lat. domus ridet argento 'la casa brilla d'argento'), alla voce logudorese rida 'fiamma, vampa' e al catalano flama-rida 'fiamma'. Se qualcuno avesse qualche dubbio su questo raffronto lo inviterei a riflettere sull'espressione tedesca der rote Hahn ' il fuoco' , letter. ' il gallo (Hahn) rosso (rote)' la quale trova in realtà la sua vera spiegazione se si sovrappongono rote e Hahn ai rispettivi membri del termine abruzzese, cioè ride- e -canie: è così del tutto pacifico supporre un precedente appellativo germanico *rod(red)-kanya 'fuoco, morbillo' variante dell'abruzzese ride-canie 'morbillo' . Il secondo membro -canie deve essere della famiglia di lat. canu(m) 'bianco (splendente)'. Prima che i termini si specializzassero ad indicare il 'bianco', il 'giallo', il 'rosso' dovettero contenere tutti l'idea generica di 'luminosità'. L’uso di aver il diritto di baciare le persone partecipanti (o solo la persona di proprio gradimento, secondo altre usanze) alla scartocciatura forse è derivato dalla volontà di dare un premio a chi era stato così fortunato da trovare quella pannocchia piuttosto rara. E il giuoco può essersi sviluppato in seno alle allegre compagnie di giovani che spesso vi partecipavano. Le ricordo anch’io.
Dopo avere steso quanto sopra sono andato a consultare l’importante e ponderosa opera sul dialetto di Trasacco del compianto Quirino Lucarelli[ii] e ho avuto la sorpresa di ritrovare l’espressione anche lì: mazzòcca 'Ggialleréte. Solo che il significato dell’espressione vi diventa più generico e sfumato perchè essa ricorre fuori dal contesto della scartocciatura. Ma per essere più preciso riporto quasi l’intero brano che accompagna il lemma mazzòccaGgialleréte. «Pannocchia di Gianloreto. Il termine entra nel dialetto trasaccano come un’espressione a sè stante, oltre che per linguaggio, anche e soprattutto per il significato. Con essa ci si riferisce probabilmente ad un evento del passato che non è più reperibile nella memoria locale, ma di certo relativo ad una fatidica e metaforica “mazzòcca” che sicuramente fu una sorpresa o un’immaginazione a lungo coltivata ed alimentata da leggenda locale. E’ certo che nell’espressione vi è un imprevisto o una impensabile sorpresa rispetto alla evoluzione dei fatti da cui essa sorpresa nasce. Infatti tale espressione si inserisce unicamente nella frase: fà ‘ngórpe cumm’alla mazzocca ‘Ggialleréte (tenersi tutto dentro e poi sbottare improvvisamente a sorpresa, svelando i propri dispiaceri –l’interpretazione è mia), nel senso di qualche cosa che riserverà sorprese inimmaginabili. Quindi l’accezione più appropriata dell’espressione è pensabile che sia ‘imprevisto, sorpresa’[...] Chi poi fosse quel Gianloreto, il detto non ce ne conserva memoria. Tuttavia ai Trasaccani, sentendolo nominare, viene in mente spontaneamente un Gianloreto dal carattere piuttosto scanzonato, forse burlone, che amava le iperboli e che era fornito di immaginazione fervida. [...]». A dire il vero ci sarebbe una interpretazione un po’ diversa, e forse più rispondente al vero, della frase dialettale sopra riportata, e sarebbe questa: tenersi dentro il proprio dispiacere come avviene quando il ragazzo o la ragazza che ha trovato la famosa pannocchia va a baciare la ragazza o il ragazzo di cui noi stessi siamo segretamente innamorati. Ma il significato di mazzocca Ggialleréte resterebbe comunque sempre lo stesso.
La manciata di chilometri che separa Trasacco da Luco dei Marsi è bastata ad intorbidare le acque intorno al chiaro ed univoco significato dell’espressione nel dialetto luchese dove indica una pannocchia rossiccia. Sicchè il povero Lucarelli non ha potuto fare altro che prendere atto solo della imprevedibile sorpresa cui l’espressione allude e almanaccare, oltre che su un supposto evento nel passato di Trasacco coinvolgente una “fatidica mazzocca”, anche su un improbabile personaggio in carne ed ossa che avrebbe dato origine al detto, ma che in realtà ha la stessa inconsistenza del fantomatico Gianloreto su cui si fantasticherà, suppongo, anche a Luco. Questo esempio dimostra ancora una volta quanto siano indispensabili ed illuminanti da un lato i raffronti tra dialetti diversi, vicini e lontani, quando si tratta di definire la storia, l’etimo e il significato di parole o espressioni, e quanto sia fuorviante dall'altro cercare di agganciare la spiegazione di una parola, in base a ciò che essa espone in superficie, a caratteristiche, peculiarità, fatti, personaggi, esclusivi di questo o quel paese, di questa o quella parlata. La Lingua, a mio parere, rivela sempre, appena sotto la superficie, una profondità vertiginosa e una dimensione cosmopolita che la fa volare libera e sicura ben al di sopra e al di là delle contingenze particolari e dei limiti di un territorio municipale i quali riescono appena a scalfire i contorni delle parole e difficilmente le plasmano dal nulla specialmente per quanto attiene ai modi di dire e ai proverbi (anche se quelle scalfitture potrebbero, in condizioni favorevoli, addirittura compromettere l'equilibrio dell'intero sistema) contrariamente a quanto in genere si pensa e si sostiene, preferendo essa di gran lunga, ogni volta che può, riciclare il materiale che si trascina dietro da tempi immemorabili, come macerie di sistemi linguistici e stati sincronici tramontati. La locuzione a Trasacco evidentemente uscì fuori, come dicevo prima, dall’ambito della spannocchiatura adattandosi ad altro contesto, e questo si desume soprattutto dal fatto che essa, in tempo imprecisato, venne sostituita da quella che appare una sua traduzione bella e buona che la rende più chiara e al passo con i tempi, e cioè la mazzòcca roscia ‘pannocchia rossa’. Ecco cosa scrive infatti il Lucarelli sotto questo lemma: «Pannocchia di granturco dal colore marrone, impropriamente detta "roscia'’, ovvero "rossa" (ma io mi permetto di far notare che, se l’espressione dovesse essere ricondotta in tempi lontanissimi, probabilmente ronzava, negli orecchi di coloro che cominciarono a sostituire la frase all’altra originaria, la componente –red ‘rossa’ di cui sopra. Inoltre i colori dei chicchi possono essere diversi, anche violacei e neri. La considerazione è mia) . Colui o colei che durante lo spannocchiamento del granturco trovava tale pannocchia, se ancora giovane, aveva la facoltà di donarla ad una ragazza o ad un ragazzo, dandole o dandogli, se ne era innamorato o innamorata, un bacio. Ciò valeva anche come segno di dichiarazione d’amore se ancora non vi era un rapporto di fidanzamento. A volte era proprio tale occasione che faceva sbocciare l’amore fra i ragazzi». Credo sia opportuno, anche al fine di meglio comprendere il meccanismo della ripetizione tautologica nella formazione del lessico, di cui vado parlando nei miei articoli, elencare le diverse altre parole sarde con la componente rida' fiamma'. Esse sono: fiama-rida, fracca-rida, cadda-rida. Le ultime due voci rimandano per i primi membri rispettivamente al logudorese fiacca 'fiamma' (fracca- sarebbe variante di *flacca < *flac-ula < lat. fac-ula, diminutivo di fax 'face') e ad altre voci sarde significanti 'cavallo' e ' fiamma, vampa': cfr. il post Parole sarde del Duls. Ho dato una scorsa ad internet e, con mio sommo stupore, ho constatato che la pannocchia rossa connessa col bacio si ritrova, oltre che in località italiane, anche in Spagna, in Germania e negli USA: questa ampia diffusione a mio avviso costituisce un valido motivo per riportare l’usanza, piuttosto che all'atmosfera giocosa di giovani partecipanti alla scartocciatura, a riti sociali preistorici come quelli cosiddetti di passaggio.


[i] Cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Avezzano-Aq, Grafiche Cellini 2006, p. 91.
[ii] Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà F-P, Avezzano-Aq, Grafiche Di Censo 2003, pp. 257-58.