venerdì 25 giugno 2010

Risposta (2^) a Dante Di Nicola sulla questione della "cuterenzìnzela" (tutte le -e- sono mute) 'cutrettola'

Un amico mi ha avvertito che nella terza pagina di Terre Marsicane, testata giornalistica presente in internet, si trovava un articolo di Dante Di Nicola, il quale a sua volta replicava ad una precedente mia risposta ad un suo articolo apparso qualche anno fa nella rivista Marsica Domani. E’ destino, evidentemente, che le nostre botte e risposte si susseguano al ritmo lento degli anni. Mi scuso pertanto se non ho risposto prima visto che forse l’articolo attendeva da molti mesi (quanti? non esiste una datazione in questi articoli proposti da Terre Marsicane).
Dico subito che è molto difficile trovare un punto d’incontro con la visione che Di Nicola ha dei fatti linguistici per incompatibilità di metodi. Egli segue un metodo quasi esclusivamente teorico-deduttivo basato su quanto la linguistica tradizionale ha elaborato, sciorinando peraltro le sue dotte conoscenze teoriche con ampi riferimenti a questo o quello studioso. Io da circa 20 anni mi vado dannando (ma con mio sommo piacere) a fare l’umile ricercatore di toponimi e indagatore di nomi in genere, avendo deliberatamente evitato di seguire i dettami (nel limite del possibile) di questa o quella scuola, dando priorità assoluta ai dati che venivo man mano raccogliendo e cercando di ricavarne, con metodo essenzialmente induttivo, conclusioni ad essi consone, quasi sempre discordanti dalle posizioni ufficiali. Una cosa tengo a sottolineare: io non presumo di avere la Verità assoluta in tasca ma penso che la mia verità possa ricevere luce oppure ombra dal confronto con le verità altrui, a seconda della sua maggiore o minore validità e dei suoi risultati. In questo non sono disposto ad accettare lezioni da parte di chicchessia, perchè è proprio il mio metodo empirico-sperimentale che è fondato su questo assunto.
Detto questo, mi accingo a dimostrare come la diversità dei due metodi tragga a conclusioni contrastanti. E scelgo come banco di prova proprio la questione, che comincia a diventare stantia, della “cutrettola, ballerina” e della “gazza” che per Di Nicola sono lo stesso uccello, mentre per me no. Inoltre la cutrettola mi pare che non gracidi o gracchi come invece fa la gazza. Se Di Nicola possiede un vocabolario Devoto-Oli potrà constatare personalmente che sotto le voci di ballerina e gazza sono disegnati i rispettivi uccelli che hanno dimensioni e colori completamente diversi: la ballerina è simile ad un passero, mentre la gazza è simile ad un corvo per grandezza. Ora, c’è da osservare che la mia sicurezza si basa in questo caso soprattutto sulla mia esperienza diretta la quale mi dice che la ciciaccòva (gazza), che da ragazzo spesso vedevo in campagna, era diversa dalla cuterenzìnzela, che vedevo in paese seppure raramente. Di Nicola, che probabilmente non conosce bene la “cutrettola, ballerina” (ma non c’è nulla di male), si fida ciecamente del fatto che il Fanfani, da lui citato, elenca, tra i molti nomi regionali della “gazza”, anche una codinzinzola, nome che egli si precipita a far coincidere con i dialettali cotazìnzera ‘gazza’ di Castellafiume-Aq e con la cuterenzìnzela ‘cutrettola, ballerina’ di Aielli-Aq, deducendone la falsa verità che queste varie denominazioni indicano lo stesso uccello (gazza). Ma, se egli avesse fatto una ricerca come la mia (non gliene faccio però alcuna colpa) di semplice raccolta di nomi, compresi talora anche gli ornitonimi, non sarebbe stato così corrivo a trarre questa deduzione, perchè glielo avrebbe impedito la constatazione che spesso, nei diversi dialetti, uno stesso termine, e quindi uno stesso ornitonimo, si riferisce a referenti diversi, a concetti diversi, ad uccelli diversi. Questo fatto, semmai, getta una grande luce sulla mia idea che i significati di fondo dei nomi sono diversi da quelli di superficie, cosa che vado dicendo da sempre e che costituisce la base della mia visione della Lingua. Nella fattispecie è il concetto sovraordinato di ‘volatile, animale’ che opera sotto i significati superficiali specializzati di “cutrettola” e “gazza”. Se si leggono i post del mio Blog di meditazioni linguistiche facilmente raggiungibile in internet scrivendovi a fianco il mio nome, se ne troveranno abbondanti esempi e si potrà, spero, capire meglio il meccanismo (chiedo scusa per la mia autocitazione, ma non potevo fare diversamente). Questo piccolo esempio dimostra a mio avviso come la ricerca e l’analisi diretta dei nomi valga spesso più di tante vistose o osannate teorie.
Sul localismo della sua visione linguistica non mi pare il caso di ritornare, dato che si capisce bene dal testo della mia prima risposta a Di Nicola ciò che con quell’espressione voglio intendere producendo esempi concreti e non generiche asserzioni di pur illustri studiosi che lasciano il tempo che trovano limitatamente ai fenomeni da me lì presi in esame. Servendomi di un esempio tratto dalla genetica, affermo che certamente non si può mettere in dubbio che ogni individuo è unico e irripetibile, ma nel contempo si deve riconoscere che esso affonda le sue radici o, meglio, è un prodotto diretto del patrimonio genetico che ci portiamo dietro da tempi immemorabili e ci lega a filo doppio con i nostri antenati più remoti i quali, altrettanto certamente, non provenivano da Castellafiume o da Aielli. Quando Di Nicola nel suo libro Storia di Castellafiume passa ad analizzare i modi di dire locali cercando di spiegarli come un prodotto caratteristico del paese, rivelatore della “psicologia” di quella popolazione, commette lo stesso errore di cui sopra perchè è cosa certa che diverse espressioni da lui citate si ritrovano in altri paesi della Marsica e probabilmente anche altrove. Basti per tutte il detto (p. 185) addò ci sta la ficora ci nasce ficoriglio ‘dove ci sta il fico ci nasce il pollone del fico’ (nel senso di tale padre tale figlio): l’espressione si ritrova anche nel dialetto aiellese e suona sotte la fìcura ce nasce u fecurìjje (tutte le –e- sono mute). Anche in questo caso emerge la diversità di impostazione tra me e Di Nicola nell’affrontare i problemi: egli tende a dimostrare la validità di nozioni apprese sui libri facendo però violenza, come mostra l’esempio precedente, sui dati dell’esperienza, mentre io mi fido solo dei riscontri e reperti raccolti sul campo i quali, quando registrano fenomeni che si ripetono con qualche regolarità, rivelano appunto quelle leggi contro cui si spuntano miseramente le armi di ogni teorizzazione, per quanto sottile e raffinata, se essa è troppo fiduciosa di se stessa e tende, magari senza avvedersene, a spiccare il volo verso le serene plaghe celesti al di sopra dei miasmi, dei pantani, della polvere, delle difficoltà, delle contraddizioni da risolvere, delle titubanze, dei ripensamenti, degli scoraggiamenti, del sudore che l’umile ricercatore deve invece giornalmente affrontare e che sono però ricompensati, se si è fortunati, dal momento esaltante di una scoperta di un meccanismo generale, di una conferma, di un consolidamento di una verità. Si ricordi Di Nicola che il nostro cervello è sì uno strumento mirabile prodotto dall’evoluzione nel corso di alcuni milioni di anni, ma che, come i più consapevoli studiosi sanno praticamente da sempre, proprio per questo è capace di trovare mille strade per ingannarci senza che ce ne accorgiamo, se appena lo lasciamo un po’ libero di procedere a suo modo senza il freno e il controllo della sperimentazione, del contatto costante e continuo con la realtà a cui commisurare le proprie intuizioni per poterne carpire i segreti. I quali sono solitamente ben protetti e nascosti, e talora anche, di primo acchito, apparentemente incredibili quando vengono scoperti, perchè non rispondenti ai parametri cui il nostro cervello è abituato, essendosi esso plasmato a contatto col nostro mondo macroscopico e superficiale.
Quanto alla questione della onomatopea non me ne voglia Di Nicola se lo invito a leggere un lungo post del mio blog, intitolato Etimo di chicchirichì ‘gheriglio della noce’ (giugno 2009) che mi libera dalla fatica di riscrivere qui quanto asserisco in quel luogo. Ma già la mia critica, nella risposta precedente, alla sua etimologia onomatopeica del termine castellitto ronzane ‘stillicidio’ dovrebbe averlo messo sull’avviso che spesso si possono prendere abbagli in materia. E, per favore, in una eventuale risposta, Di Nicola cerchi di non snocciolarmi lunghe considerazioni teoriche (che principiano e finiscono nella mente di chi le fa, come ben diceva Leonardo da Vinci) abbinate a una serie di nomi di personaggi illustri che al riguardo la pensano più o meno come lui, ma contesti le mie convinzioni, confutando con esempi concreti tratti dalla grande palestra dei dialetti e delle lingue, le mie singole osservazioni. Gli sarei infinitamente grato se riuscisse a farmi desistere, con argomenti puntuali, da quelle che possono apparire, me ne rendo conto, le mie fisime che hanno tormentato del resto anche me perchè certamente contrarie al senso comune e fortemente contrastanti con le posizioni che vanno per la maggiore. Ma questo è un destino capitato ai rivoluzionari nelle diverse discipline e pertanto potrebbe esserci qualche sia pur risicata probabilità –tutto è possibile!- che lo sia anch’io nella linguistica (mi si perdoni l’audacia) anche se, a volte, me ne stupisco io stesso, data la mia scarsa preparazione teorica e l’innata ritrosia. Starebbe comunque ad altri dimostrare che si tratta di una mia pia illusione.

lunedì 14 giugno 2010

Commento ad un saggio di Ottavio Lurati sugli stereotipi relativi a Francesi, Turchi ed Ebrei

In merito all’articolo “Miti e polemiche su nomi di luoghi e di nazioni/popoli. Il caso di Francesi, Turchi ed Ebrei” di Ottavio Lurati apparso in RIOn, XVI (2010), 1, pp. 45-57, avrei da fare le seguenti osservazioni:
1) Il Lurati insiste sulle “sedimentazioni eterostereotipe” la cui presenza si registrerebbe anche nelle locuzioni idiomatiche e nei motti riguardanti altri popoli come nell’espressione far Francia ‘patire la fame’, attestata in Sicilia e, in forma un po’ diversa, nel cantone Ticino (emm fai tanta da quela Francia! ‘abbiamo patito tanto di quella fame!’), ma a me sembra, prove alla mano, che le cose stiano in altro modo, almeno nella maggior parte dei casi: sono antichissimi significati soggiacenti alla forma apparente della locuzione ad aver dato origine alla stessa, prima che finisse di compiere l’opera l’intervento dell’ironia o sarcasmo che sotto tutti i cieli e in ogni tempo investono costumi, modi di fare e pensare di quelli che, in una sola parola, possono essere definiti come “diversi”.
Il fatto è che nel Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli , Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 2004 (ristampa della edizione Nicola De Arcangelis, Casalbordino-Ch, 1930) si incontrano termini come il verbo francarsë ‘avventarsi per aggredire, mordere, ghermire; saltare addosso; sopraggiungere di molte faccende’ e l’aggettivo franchë ‘franco’ che ha significati particolari come nell’espressione è ffranch’ a lu magnà ‘ha gran desiderio di mangiare’. Ognuno può notare che questi significati, del verbo e dell’aggettivo, si ritrovano ad esempio nel lat. appetitu(m) ‘desiderio, brama, assalto’ ed è quindi logico pensare che la “Francia” dell’espressione di cui sopra possa essere nient’altro che un antichissimo nome astratto della radice, e cioè un semplice *frankya , ma col significato di ‘fame, appetito’ lontano le mille miglia da quello di “Francia” che è andato a sovrapporvisi. Si fa per dire, perchè se la Francia trae il nome dai Franchi presso i quali frank significava ‘libero’ allora si ristabilisce per questa via un collegamento innegabile al fondo dei vari significati della radice che, pure, in superficie sembrano così distanti. L’essere ‘libero (franco)’ all’origine equivaleva probabilmente ad essere ‘mobile, agile, svelto, scattante’ pronto ad assalire o avventarsi più o meno ostilmente verso qualcosa. Inoltre, vista la somiglianza tra il significato della radice di franco e quello di lat. appetitu(m)< ad-pet-ere si deve desumere, a mio parere, che l’idea di fame, appetito si sia evoluta da quella sovraordinata di 'muoversi, tendere(con desiderio), lanciarsi, ecc.’.
2) Entro questo largo spettro di significati pronti a colorirsi di sfumature anche notevolmente diverse tra loro può ben trovare posto la maggior parte delle altre espressioni idiomatiche citate dal Lurati in merito a questa radice di “franco” e a suoi derivati. Ecco che arriva la Francia ‘ecco la mia disgrazia’, locuzione che la gente semplice di Modena e contado usava a designare la ‘moglie’ non sarà un ricordo delle prepotenze dei soldati francesi giunti in passato nel territorio modenese come spiegano –dice il Lurati- alcune delle persone interpellate (e come potrebbero queste persone semplici avere il modo, la forza di contrastare quello che l’espressione sbandiera, anche se allusivamente, in superficie?) ma più probabilmente, secondo il significato etimologico, ‘qualcosa che si abbatte come una furia distruttrice’, significato che va a pennello per il bergamasco Franza ‘far piazza pulita’, ‘distruggere raso terra’ il quale così fa benissimo a meno anche del ricordo, supposto dubitativamente dal Lurati, “delle rievocazioni orali, in veglia, sulle guerre in Francia e in Fiandra”. Non bisogna lasciare da parte nemmeno le espressioni furia franzesa (lombardo) ‘furiaccia’ e avere una furia francese in cui l’aggettivo ha tutta l’aria di un rafforzativo tautologico di furia. Interessante il lombardo franzés ‘fante, pellegrino’ che convalida il significato di ‘movimento’ della radice, riscontrabile secondo me in vari toponimi come Frank-furt (Germania), forcella Franche (Belluno), col de France (vicino a Bourg-en-Bresse), ecc.
Aver del francese, che significava ‘passare subito all’azione’, ‘far le cose con precipitazione, alla svelta’, si riaggancia senza sforzo anch’esso al concetto di “furia”.
3) Espressioni relative a malattie veneree possono essere spiegate senza ricorrere agli eterostereotipi: baron di Francia ‘malato di sifilide’ e mal francese ’sifilide’ presuppongono a mio avviso un significato estraibile dalla radice di franco il quale in lingue europee, compreso l’italiano, ritiene il valore di ‘ardito, spudorato, sfacciato’ sicchè il mal francese equivarrebbe ad un male caratteristico dei libertini o depravati e il baron di Francia corrisponderebbe ad un libertino rotto alle pratiche sessuali e agli eccessi che provocherebbero quella malattia: curioso il significato d’origine di barone ‘uomo libero’ che risulta così un rafforzamento del concetto di libertinaggio espresso dalla componente Francia. E come non vedere operante il concetto di ‘furia, foia sessuale’ dietro questo stesso termine nell’espressione a quela gh’a büi la Francia ‘quella lì ha le bolle la Francia’ detta da certi anziani di val Colla a proposito di una donna piena di voglia ed eccitata? Il ted. französische Liebe ‘fellatio’, letter. ‘amore francese’, indica la pratica sessuale considerata, soprattutto da persone con pregiudizi religiosi, segno di depravazione e sregolatezza di chi è dedito ai piaceri della carne, non necessariamente di nazionalità francese all’origine. L’americano frenchy ‘preservativo’ potrebbe alludere non tanto ad un uso dell’oggetto soprattutto da parte dei francesi quanto ad un oggetto atto a rendere liberi e immuni da eventuali contagi pericolosi. Il bacio alla francese contiene anch’esso una qualche lascivia più o meno marcata a seconda delle sue varietà.
Rientra in questo concetto di libertà e indipendenza dalle convenzioni sociali la stessa espressione francese à la française che indicava la libertà di un comportamento senza remore e regole civili come andarsene alla francese ‘andar via senza congedarsi’, espressione presente in inglese, tedesco e italiano. In questi casi, siccome talora esiste il rovescio della medaglia, come filarsela all’inglese, è più difficile stabilire se l’espressione sia frutto di ritorsione dovuta alla spinta dei suddetti eterostereotipi o se essa vada comunque spiegata diversamente. E forse una certa percentuale, sebbene ridotta, credo bisogna riservarla comunque agli eterostereotipi.
4) E’ un po’ meno agevole spiegare di primo acchito espressioni del tipo u guarda in Francia ‘è strabico’ (Mendrisiotto, 1969) e l’è un guarda in Franci ‘è uno strabico’ (Buseno, cantone Ticino). L’interpretazione propostane in forma dubitativa dal Lurati che fa riferimento alla “lateralità del territorio francese rispetto all’Italia in carte scolastiche in cui al centro campeggiava l’Italia. La Francia risultava ai margini: la si vedeva di sbieco” mi pare eccessivamente lambiccata ed artificiosa, considerato anche che tra i milioni di alunni che si sono avvicendati nelle aule scolastiche delle scuole elementari e medie di tutta Italia l’espressione in questione sarebbe venuta in mente solo ad alcuni, appartenenti ai due paesi dove essa è attechita. Mi pare più naturale supporre alla sua base un aggettivo con prefisso negativo come *in-frank ‘non franco, libero, schietto, diretto’ e quindi ‘bieco, storto, strabico’. Anche l’aggettivo schietto ritiene il significato non figurato di ‘diritto’ come nei famosi cipressi che a Bolgheri alti e schietti/van da San Guido di carducciana memoria.
Credo che quanto sopra detto sia più che sufficiente ad esprimere e corroborare il mio punto di vista in materia. Non è necessario quindi che si proceda ad un’analisi simile per le altre due voci Turchi ed Ebrei prese in esame dal Lurati, e sarebbe per me cosa molto gradita oltrechè un onore udire qualche voce degli addetti ai lavori se avessero la compiacenza di comunicarmi il loro parere al riguardo, soprattutto se discordante dal mio, sottolineando i miei punti deboli e le mie manchevolezze.

martedì 1 giugno 2010

Non cavare un ragno dal buco

Strano modo di dire, estremamente icastico quanto al significato, anche se quello letterale, per converso, lascia molto dubbiosi. Perchè mai il non riuscire ad estrarre un ragno da un buco, che dovrebbe essere il suo buco abituale, la sua tana che generalmente esso si costruisce con gli stessi fili che usa per la tela, viene considerato (ammesso e non concesso che questa attività diciamo così estrattiva sia in qualche modo classificabile tra quelle che hanno una giustificazione e un senso nel comportamento normale degli uomini) metafora di un’azione che non ottiene quello che sperava di raggiungere, di un fallimento della volontà, dunque, di ricavare da un’operazione qualcosa di concreto e di utile? Qualche anno fa la mia riflessione, favorita dalla constatazione più volte riscontrata che questi detti affondano spesso le loro radici in strati linguistici precedenti a quello attuale, approdò al convincimento che dietro la parola ragno, lat. volg. *ranjus, lat. class. (a)rane-us si nascondesse qualche voce germanica simile all’ingl. to earn ‘guadagnare’, a. ingl. earni-an ‘guadagnare’, a.a.ted. arn-on ‘guadagnare’, pronunciata *rani-on, con una normale metatesi ar-/ra-, e destinata così fatalmente ad andare a convivere col nostro ragno. Anche il gr. ar-ny-mai ‘guadagno, ottengo’ mi pare possa essere riportato alla stessa radice, ampliata in –ny- al presente come per gli altri verbi della coniugazine in –mi. Se così stavano le cose, mi dicevo, anche il buco di conseguenza aveva bisogno di qualche ritocco perchè potesse armonicamente inserirsi nel contesto. Dopo inutili tentativi mi venne in mente che la voce italiana buco è affiancata dalle varianti bus (in alta Italia), bušo, bušë (nel centro-meridione) e che, quindi, la forma originaria del buco relativo all’espressione in questione potesse assomigliare a queste ultime che però sono considerate evoluzione della prima, cosa tutta da verificare a mio avviso. Allora la radice coinvolta potrebbe richiamare la nota parola inglese bus-y ‘impegnato, occupato, indaffarato,’ ingl. bus-i-ness ‘affare/i, negozio, mestiere, ecc.’, ingl. bus-boy ‘aiuto-cameriere’ e tutta l’espressione cambierebbe completamente status, venendo a significare non ricavare guadagno alcuno dall’affare cioè, in soldoni, concludere un cattivo affare! Essa, perso il suo puntuale significato originario ed irrigiditasi nella forma che conosciamo, ha finito coll’indicare qualsiasi azione che non sortisce nulla di positivo.
Riconosco che chi è poco aduso a questi meccanismi possa trovare la cosa un po’ artificiosa e anche per questo mi ero astenuto in passato dal pubblicare la mia interpretazione. Ma mi sono liberato da ogni remora col venire a conoscenza qualche giorno fa, tramite il gioco televisivo L’eredità condotto da Carlo Conti, dell’altro detto correlato al primo, il quale sinteticissimamente asserisce ragno guadagno : il ragno, nella credenza popolare, sarebbe portatore di guadagno, soldi e fortuna. Allora è stato inevitabile pensare che la mia prima supposizione, risalente ad alcuni anni fa, circa il valore di ‘guadagno’ della parola ragno dovesse essere giusta e che di conseguenza lo era probabilmente anche quella della parola buco. In questo caso sono stato abbastanza fortunato, perchè il gioco degli incroci avvenuti nel corso della formazione di questi modi di dire, mi ha fornito, per quanto attiene alla voce ragno, quella che considero una vera e propria traduzione della parola da uno strato linguistico all’altro. E questa esigenza dové nascere allorchè il lat. volg. *ranjius andò a stendersi sopra una parola simile sottostante oscurandone il significato di ‘guadagno’. Naturalmente non ci sono spiegazioni che tengano, in questi casi, anche quando esse si ammantano di più o meno speciose e dotte ragioni psicologiche, antropologiche e simili, nell’evenienza in cui si mettano letteralmente sotto i piedi, perchè d’altronde le si ignora, le vere e uniche ragioni squisitamente linguistiche. La rima –agno avrà certamente favorito l’accostamento tra le due parole, ma non ne fu assolutamente la causa scatenante.
Che i due detti siano stati portati in Italia dagli invasori barbarici nel medioevo mi pare, a lume di naso, poco probabile vista la presenza della radice anche in greco: come suggerisce la vicenda del ragno presente nei due modi di dire, queste espressioni dovevano essere già molto radicate nel territorio, probabilmente in area di confine tra Franchi e Romani, e forse la loro origine va a perdersi nella preistoria.
I termini guadagnare, guadagno, riguardante il secondo modo di dire, vengono ricondotti infatti ad una voce franca *waidjan-an ‘pascolare’, ed i Franchi si inserirono come foederati entro i confini dello stato romano nel periodo del tardo impero, ben prima della sua caduta nel 476 d.C. e della loro più diretta influenza sul linguaggio in Italia al tempo di Carlo Magno impertatore (IX sec. d. C.).
La via per la quale sono arrivato prima alla supposizione e poi alla conferma della spiegazione di questi detti imperniati sul termine “ragno” credo sia emblematica del mio modo di procedere, basato sulla semplice osservazione dei fatti e sulla loro interpretazione che giunge direttamente all’osso, con mezzi diversi da quelli canonici ma sorprendentemente proficui, se, a mio parere, riescono a cavare qualche ragno dal buco. Chiudo con versi di Galilei, tratti dal Capitolo contro il portar la toga (1590) che rispecchiano la mia temperie spirituale:

Ma ch’io sia per voler portar la toga,
Come s’io fussi qualche Fariseo,
O qualche scriba o archisinagoga,
Non lo pensar. [...]
Io son contento dir la mia ragione,
E che tu stesso la sentenza dia:
So che tu hai giudizio e discrizione.

(14 agosto 2012.  Mi sono accorto che forse è meglio supporre, dietro il dialettale busce 'buco', l'altra voce dialettale quasi omofona busce, vusce 'bosso', e supporre un significato identico a quello di it. bussola, bussolotto o di ingl. box 'scatola, cassetta, ecc.' derivante come le altre dal lat. buxu(m) 'bosso'.  Cfr. anche ingl. alms box 'cassetta per le elemosine, bussola', ingl. money-box 'salvadanaio'.  Sicchè il significato dell'espressione verrebbe ad essere: non estrarre nessun introito (moneta) dal bussolotto e simili)