sabato 3 aprile 2010

Etimologia di "labirinto" ovvero l'inadeguatezza della linguistica tradizionale. Appunti alla posizione di Massimo Pittau.

Affrontiamo ora l’etimologia di labirinto, parola considerata del sostrato mediterraneo da alcuni, di quello egeo o preellenico o preindoeuropeo o giudicata di origine ignota da altri, come meticolosamente afferma Massimo Pittau in un articoletto del suo sito internet. Sia chiaro che questo mio “prendere di petto” gli scritti di uno dei più grandi linguisti italiani, non scaturisce da una sorta di incontenibile furia iconoclasta o di improvviso furore eroico desideroso di bruciare nell’ardore della sua fiamma soprattutto quello che i grandi nomi della linguistica affermano su questo o quel problema, nella speranza di vedere qualcuno battermi le mani per la mia bravura o per il mio coraggio. La semplice verità è che, leggendo le proposte di questi insigni autori, mi accorgo che esse contrastano spessissimo con il punto di vista che mi sono formato sul fenomeno lingua, nel corso di una ventina d’anni di studio solitario e appassionato, al di fuori degli schemi rispettabilissimi elaborati dai linguisti. In genere, dopo un po’ di riflessione, riesco a trovare i punti deboli dei loro articoli, e ad avanzare delle prosposte alternative che a me sembrano almeno più percorribili e naturali rispetto alle altre per un maggiore grado di verosimiglianza, che comunque starebbe al purtroppo raro lettore preparato in questo campo, o allo studioso, se non si lascia soffocare da un suo complesso di algida superiorità, leggere e valutare.
A me sembra che i linguisti cadano spesso nell’errore di cercare la verità dei nomi, come ho messo in evidenza anche in altri articoli, in radici costrette ad esprimere un significato limitato, individualizzante, in totale opposizione a quanto io penso su di esse, e cioè che il loro significato di fondo sia uguale per tutte e corrisponda ai significati di ‘forza, vita, spinta’ o anche a quello che è il concetto dotato della massima estensione e genericità, cioè il concetto di ‘essere’, di per sè indefinibile, in quanto ogni sua definizione dovrebbe far uso della copula essere e aggiungere qualche nuova qualità a quelle già contenute nel soggetto, ma si instaurerebbe così un circolo vizioso tra il soggetto (essere), che contiene in potenza già tutte le qualità di ogni possibile suo predicato, e il predicato stesso che perciò non potrebbe allargare i confini di un soggetto siffatto. Mi spiego meglio: posso affermare benissimo, ad esempio, che il melograno è un albero perchè l’idea di ‘albero’ aggiunge qualcosa di più generico alla semplice nozione specifica di ‘melograno’ del soggetto, ma non potrei dire che l’albero è un melograno perchè l’idea di ‘melograno’, in questo caso, non aggiungerebbe nulla a quello che l’idea di ‘albero’ del soggetto contiene già in potenza. Anche lo spirito della Lingua, dunque, sembra chiedere istintivamente conforto, quando si tratta di esplicitare il significato di un termine, a parole ad esso sovraordinate dal significato più ampio: ciò non succederebbe, a mio avviso, se i termini da definire nascondessero dentro di sè significati propri, particolari, di cui la Lingua probabilmente avrebbe allora mantenuto una memoria storica, una traccia qualsiasi capace di riesumarli. E’ del resto un fatto che essa è dominata e diretta da spinte generalizzanti, per evitare quella che costituirebbe la palude immensa, invalicabile e paralizzante della rappresentazione meticolosa della realtà con denominazioni tagliate su misura per ogni singolo individuo appartenente a una specie o un genere, nel gran concerto della natura. La parola “melo”, ad esempio, vale per per tutte le numerosissime piante della specie e non per qualcuna di esse soltanto.
Questa mia concezione sui significati originari delle parole viene supportata dalla concezione saussuriana più volte da me ricordata nei precedenti articoli, secondo la quale è vano e fuorviante credere che la lingua, e quindi le parole, siano state create in vista dei concetti da esprimere, stabilendo così la regola, anche se forse senza una sua piena consapevolezza delle conseguenze in campo semantico, secondo cui un termine si sarebbe paradossalmente formato per esprimere un concetto diverso da quello che esso si trova ora ad esprimere nella lingua, e questo perchè, aggiungo io, il suo significato non è circoscritto e fissato ab origine, ma molto generico e soggetto, molto di più di quanto non si pensi, a cambiare non solo attraverso i secoli, in base ai normali slittamenti metaforici, ma soprattutto nell’immediatezza della sua originaria sistemazione contestuale con gli altri termini e nel rapporto con il referente su cui va a depositarsi, e in cui è costretto a piegarsi, di volta in volta, verso un significato piuttosto che verso un altro, assumendo così quella specificità ed unicità che poi sembrerà essergli stata cucita addosso da sempre, tanto che i linguisti ora non sanno prescinderne nella ricerca dell’etimo il quale, invece, andrebbe cercato in tutt’altra direzione.
Un altro forte sostegno alla mia concezione della lingua lo offre la ricerca contemporanea sui nomi dei piccoli animali condotta da svariati ed insigni studiosi dell’area romanza, coordinati da ricercatori dell’Università di Grenoble, che ha portato alla pubblicazione a Roma (2001) del secondo volume dell’ Atlas Linguistique Roman in cui vengono studiati molti zoonimi europei soprattutto dell’area romanza (se ne può leggere un breve e chiaro sunto in rete: basta cercare il titolo Rita Caprini. I nomi dei piccoli animali). Ne viene fuori un quadro che, guarda caso, conferma ancora una volta la mia idea fondamentale della genericità dei significati. In effetti i molti nomi dei vari animaletti analizzati, delineano un quadro chiarissimo in cui, ad esempio, si scopre, non senza meraviglia, che i piccoli animali non hanno nomi particolari, individualizzanti, perchè questi passano regolarmente, non eccezionalmente, da un animaletto all’altro. Naturalmente i linguisti, non avendo elaborato una concezione come la mia, non si sognano nemmeno di trarre da questo fatto statistico incontrovertibile ed importantissimo le dovute conseguenze, le quali condurrebbero dritte dritte alla mia posizione, che è in perfetta armonia con questa straordinaria constatazione della estrema mobilità degli zoonimi che sorprende gli studiosi. Essa si spiega alla perfezione quando ci si convince che i nomi originari degli animaletti (e non solo) contengono nel fondo esclusivamente il concetto generico di animale, cucinato in tante salse proprio perchè la Lingua, pur partendo da basi semantiche genericissime, è costretta poi a specializzarsi per poter comunicare in una maniera sempre più precisa e razionale, da ambigua e poetica che era.
Dopo la precedente premessa metodologica ci portiamo velocemente al nocciolo del problema per l’individuazione dell’etimo di labirinto. Secondo il Pittau il vocabolo sarebbe di origine egeo-anatolica e deriverebbe dal (pre)greco leberhís,-ídos ‘coniglio’(greco di Marsiglia), lo stesso che léporhis ‘lepre’ (Eolide e Sicilia) e lat. lepus,-oris ‘lepre’. Il semplice, cristallino e apparentemente inattaccabile ragionamento del Pittau è che come il coniglio (lat. cuni-culum) è così chiamato, secondo l’etimo corrente non contestato forse da nessuno, dal fatto che esso si scava delle tane nel terreno a forma di cunicolo (lat. cuni-culum), allo stesso modo bisogna vedere un rapporto strettissimo di dipendenza genetica tra i vocaboli egeo-anatolici sopra citati per ‘lepre’ e per ‘coniglio’, e quello relativo al gr. labýr-inthos ‘labirinto’ di simile radice. C’è però un’aporia in questa che sembra una tenace morsa logica. Il vocabolo di origine egeo-anatolica presenta, come abbiamo visto, il significato di ‘lepre’ in latino e nei dialetti greci dell’Eolide e della Sicilia, e quello di ‘coniglio’ solo nel greco di Marsiglia, per cui è da credere che il signif. di ‘coniglio’ sia secondario rispetto a quello di ‘lepre’. E la cosa non è di scarso rilievo ma va ad incidere, a mio avviso, profondamente nella questione dell’etimologia. Le lepri, infatti, non scavano cunicoli o tane nel terreno: questo è un tratto etologico distintivo tra le due specie! Io mi sono documentato perchè, in verità, non ero e non sono convinto nemmeno della giustezza del ragionamento seguito dai linguisti circa il presunto e stretto nesso semantico tra il ‘cunicolo’ e il ‘coniglio’. La mia convinzione si è rafforzata quando ho letto il sopra citato sunto di Rita Caprini riguardanti gli studi sui nomi dei piccoli animali in Europa, giacchè la studiosa in esso mette giustamente in rilievo il fatto che « le denominazioni relative all’habitat, ai comportamenti e alle abitudini alimentari non sono così frequenti come vorrebbe la nostra mentalità razionalista». Ed io sono convinto che, anche nei non molti esempi in cui la denominazione sembra rispondere a queste condizioni ambientali, come è il caso di ‘coniglio’, si tratta quasi sicuramente di una illusione semantica causata da incroci delle radici originarie con altre parole, nella maggior parte dei casi. Seguendo i principi della mia teoria linguistica, ad esempio, non trovo nessuna difficoltà nell’inquadrare il lat. cuni-culu(m) ‘coniglio’ nell’ambito di radici come il gr. kýōn, genit. kyn-ós ‘cane’, ted. Huhn ‘pollo, gallina’, lat. can-e(m) ‘cane’.
Se qualcuno dovesse giustamente obbiettare, in merito al significato dei termini egeo-anatolici sopra riportati, che facilmente esso poteva slittare da quello di ‘lepre’ a quello di ‘coniglio’, allora, pur accettando la probabilità di questa evenienza, data la stretta somiglianza dei due animali coinvolti e la norma generale della intercambiabilità dei nomi relativi ai (piccoli) animali, non potrei nel contempo non far notare che proprio questa facilità di passaggio del nome da un animale all’altro comporta la rinuncia definitiva al diamantino presunto rapporto del nome ‘coniglio’ con quello di ‘cunicolo’, alla plausibilità, insomma, dell’idea che un animale possa regolarmente ricevere il nome dal suo habitat e dalle sue abitudini.
Eliminata, dunque, la necessità del nesso tra il gr. labýr-inthos e i relativi nomi con esso comparati dal Pittau in base al concetto di coniglio-lepre, quale ne potrebbe essere l’etimo giusto? La mia modestissima idea è che la radice del termine in questione debba essere considerata simile a quella di gr. laúra ‘ passaggio stretto, corridoio, via, viottolo’ se solo si pone mente ad un fenomeno linguistico abbastanza frequente in aree del nord Italia che produce, ad esempio, leura (Piemonte) al posto di lepre e caura al posto di capra (Valtellina). Si obietterà che comunque queste voci dialettali sono uno sviluppo posteriore alle rispettive forme latine, ma qualche dubbio che esse talora possano essere di data molto più antica credo di averlo avanzato, almeno con qualche grado di verosimiglianza, a proposito di mazza-cauras (nel Surselva) ‘vento freddo del nord’ nell’articolo, presente nel blog, intitolato Come intendere l’animismo attraverso i suoi riflessi nelle parole. Anche ammesso che il detto fenomeno sia da intendere come avvenuto nella direzione latino>dialetti, nulla osta a che esso sia potuto verificarsi nella direzione opposta in latino o in greco, nel lungo periodo preistorico dove vanno a immergere le radici questi termini. Chi ci può assicurare, infatti, che il piemontese leure sia posteriore al lat. lepore(m) se quest’ultimo termine non era tra l’altro patrimonio esclusivo del latino essendo considerato in genere dai linguisti appartenente all’antichissimo sostrato mediterraneo o a quello egeo-anatolico, tanto che lo stesso Pittau è convinto che esso circolasse in Sardegna già nella preistoria o protostoria? Si obietterà che altre parole con lo stesso gruppo consonantico vengono trattate allo stesso modo in quei dialetti ma, anche qui, chi ci assicura che questa particolarità di questi dialetti si sia originata successivamente all’arrivo del latino e non sia invece da riportare alla lingua di sostrato che aveva avuto modo di trasformare la parola mediterranea che poteva essere già presente nel lessico, prima che ve la portasse il latino? Anche nel greco ci sono parole che potrebbero costituire almeno un indizio che in tempi remoti si siano avuti fenomeni simili di trasformazioni di gruppi di lettere in una o nell’altra direzione. Il laconico abór ‘alba, aurora’ mi pare che possa alludere a una forma sottostante simile al lat. aurora ‘aurora’ riconducibile ad una radice *ausosa (cfr. gr. éōs ‘aurora’)>lat. aurora,>*abror-a, semplificata in abór. Anche l’aggettivo gr. habrós ‘delicato, molle, splendido’ mi sembra molto simile al lat. aura ‘soffio d’aria, aria, esalazione, profumo, eco, luce, scintillio’, il quale sancisce, quindi, il connubio tra il concetto di ‘soffio’, di ‘luce’ e di ‘eco’, tutti espressione, a mio avviso, di un unico concetto ad essi sovraordinato di ‘anima, vibrazione, forza’. Credo sia il caso di scomodare anche l’ungher. abra ‘illustrazione’. Il lat. aur-um ‘oro’ conferma l’idea di ‘luce’. Anche la pronuncia, nel greco moderno, di termini come mauros ’nero’, saúra ’lucertola’, che suonano rispettivamente màvros e sàvra, non è detto che sia posteriore a quella canonica del greco antico, ma potrebbe essere stata solo una caratteristica di qualche circoscritta parlata antica estesasi poi al greco moderno.
Il Pittau segnala il nome della città di Lábr-anda nella Caria in Asia Minore considerandolo corradicale con labýr-inthos. In verità il suo abitato non superò mai le dimensioni di un villaggio, anche se nel periodo ellenistico raggiunse una certa floridezza. Si trattava in realtà di un antichissimo sito di culto, con un famoso tempio dedicato a Zeús Labrandeús , ricco di acque che rifornivano la vicina città di Milasa. Il luogo era noto anche come Labra-unda e, secondo me, dovettero essere proprio le acque a dargli in origine il nome, ma non è questo il momento di approfondire la questione. Faccio solo notare, per curiosità, la seconda componente –unda del nome che combacia perfettamente col lat. unda ‘acqua, onda’. La lábrys ‘ascia bipenne (termine lidio)’, attributo di Zeus e di altre divinità solari o lunari, simbolo dell’autorità regale proveniente da quella divina, adornava le stanze numerose del famoso labirinto di Cnosso a Creta, sede del mitico re Minosse. Il Pittau, pertanto, non sbaglia nel collegare il termine labýr-inthos al nome della città di Lábr-anda ma doveva sottolineare anche che in essa non risulta, che io sappia, la presenza di un palazzo reale, sede del potere che potesse dare corpo consistente alla sua proposta.
I motivi per cui è possibile, in questo caso, il raffronto tra labýr-inthos e Lábr-anda vanno cercati altrove, in significati estranei a quello di ‘labirinto’. I secoli trascorsi dal momento in cui queste parole furono per la prima volta pronunciate erano certamente innumerevoli e nel frattempo, quindi, non saranno mancate occasioni perchè esse si incrociassero con vari altri termini simili ma di diverso significato, alimentando così una fioritura di storielle e di miti. In base al fenomeno di cui ho parlato più sopra, mi sento spinto a supporre, ad esempio, che il nome dell’antichissima misteriosa città latina di Laur-entum abbia qualcosa in comune con esse, potendosi facilmente trasformare in *Labr-entum. Ho detto misteriosa città perchè archeologicamente non ne resta nè un vestigio nè uno straccio di iscrizione e, allora, essa doveva essere, secondo alcuni, altro nome della città di Lavinium o Lavinum (il cui sito corrisponde all’attuale Pratica di Mare), la quale era nota anche come Lauro-lavinium . E questo duplice nome mi sembra molto significativo non appena si pensa al termine  pergameno (da Pergamo, città dell’Asia Minore) láphne, un’apparente variante di gr. dáphne ‘alloro’, e assonante con –lavin-um, secondo costituente di Lauro-lavinum che, con la componente Lauro-, trae in ballo il lat. laurus ‘alloro’, parola anch’essa del sostrato mediterraneo. E in effetti l’etimologia vulgata per il nome della città di Laur-entum addita il termine lauru(m) ‘alloro’.
A questo punto, però, la questione sembra complicarsi perchè, se è vero che il territorio di questa città abbondava di boschi di alloro, è anche vero che la pianta aveva un forte valore simbolico essendo legata strettamente, sia in Grecia sia in Roma, alla divinità solare chiamata Apollo. Ed è quindi opportuno, a mio avviso, tentare di rintracciare, nei sottofondi della parola lauru(m), anche un significato consono a quella divinità. Si incontra in Euripide l’appellativo laûr-on ‘metallo d’argento (ad Atene)’ che fa il paio con l’oronimo Laúrei-on, Laúri-on dell’Attica, monte con ricche miniere d’argento. Che il termine sia legato in questo caso al significato di ‘chiaro, luminoso’ potrebbe confermarcelo il gr. leur-ós, che ha il valore di ‘libero, esteso, piano’ ma anche di ‘lucente’, sia pur dubitativamente. Ma a mio parere l’incertezza scompare se lo si affianca al lat. lur-idu(m) ‘ molto pallido, giallastro’. Ma non si può nemmeno escludere un suo incrocio con il citato gr. laura 'stretto passaggio, corridoio, ecc.' in riferimento alle 'cavità' delle miniere. Ed è a mio avviso piuttosto frettolosa l'etimologia che i linguisti danno di località come Lauro e Pago del Vallo di Lauro nella provincia di Avellino. Il significato originario del termine non è legato, a mio avviso, alla pianta del laurus 'alloro' ma allo stesso concetto di 'valle', che è una forma di 'cavità', anticipato dall'appellativo Vallo (cfr. Aa. Vv., Dizionario di Toponomastica, UTET, Torino, 1997). Una curiosità: nella frazione Sopravia di Pago del Vallo di Lauro si celebra il 10 agosto la festa di San Lorenzo, santo che molto probabilmente in questo caso non ha dovuto attendere, per il nome, quello del martire cristiano ma era forse già una divinità o un eroe pagano locale successivamente cristianizzato, come è spesso avvenuto in simili occasioni. In mezzo alla reggia di Latino a Laurento, immaginata da Virgilio (che sicuramente non ha inventato tutto, ereditando dalla tradizione almeno i nomi), si trovava un laurus dedicato a Febo=Apollo (cfr. Virgilio, Aen., VII 62). Il capostipite dei re di Laurento, Saturno, rispondeva a qualche antica divinità del sole se nelle feste a lui dedicate, i Saturnali (17-23 dicembre), si regalavano e accendevano candele e si vegliava la notte in attesa del sorgere del nuovo sole e se la Saturnia virgo non era altri che Vesta, madre o figlia di Saturno, nota divinità del fuoco. E’ poi risaputo che, pur nella loro complessità, queste feste rientrano tra quelle celebrate in tutto il mondo in concomitanza col solstizio invernale. Tra le statue dei re di Laurento presenti nel vestibolo della reggia, Virgilio inserisce (Aen., VII 180) anche quella di Giano (lat.Ianus), divinità del Lazio precedente allo stesso Saturno, notissima per le sue funzioni di apertura e chiusura, inizio e fine , molto meno quale probabile antichissima divinità della luce, come starebbero ad indicare le feste cristiane dei due Giovanni, il battista e l’evangelista, cadenti l’una il 24 giugno e l’altra il 27 dicembre, più o meno in corrispondenza dei due solstizi regolati da Giano, custode delle porte celesti. Ognuno vede la stretta somiglianza fonetica tra i due nomi di Ianus e Iohannes (cfr. A. Cattabiani, Calendario, A. Mondadori edit., Milano, 2003, pp. 231 e segg.) che, secondo alcuni, avrebbe causato la trasformazione in senso cristiano di antiche ricorrenze pagane. Secondo me anche il termine lat. strenae ‘strenne’, doni che i Romani si scambiavano in occasione dei Saturnali ma anche a Capodanno, giorno naturalmente sacro a Giano come del resto l'intero mese di gennaio, può rivelare nelle sue stratificazioni un rapporto con un significato di ‘luce’, se si riflette che in origine esse consistevano in ramoscelli d’alloro recisi da un boschetto che circondava il tempio della dea Strenia sulla via Sacra. Una curiosità: la struttura consonantica di lat. str(e)n-a è la stessa di lat. S(a)t(u)rn-us e di ted. St(e)rn ‘stella’. Dalle pareti della reggia pendono curvae secures (Aen.,VII 184), le asce da guerra, quasi sicuramente a doppio taglio, e così siamo tornati alla lábrys del labir-into=Laur-ento. Non sarà ugualmente un caso se San Lorenzo (da lat. Laurentius) fu martirizzato, secondo la tradizione, mediante arrostimento sui carboni ardenti e se la sua festa cade il 10 agosto, nel periodo in cui è più facile avvistare nel cielo sereno le stelle filanti, come ricorda l’incipit della famosa poesia del Pascoli X Agosto: San Lorenzo, io lo so perchè tanto/di stelle per l’aria tranquilla/ arde e cade, perchè gran pianto/ nel concavo cielo sfavilla.
Last but not least, come dicono gli inglesi, credo sia interessante riflettere sull’espressione, che Virgilio usa a conclusione della lista dei re mitici di Laurento, aliique ab origine reges, che viene solitamente spiegata come se fosse aliique Aboriginum reges, cioè ‘gli altri re degli Aborigeni’. Questi sarebbero stati i primitivi abitatori del Lazio, secondo buona parte degli autori antichi anche se qualcuno di essi come Catone, esprimeva il parere che essi fossero arrivati dalla Grecia da dove erano stati espulsi. Sull’etimo del termine regna molta incertezza, anche se gli studiosi moderni sembrano suggerire che si tratterebbe di una reinterpretazione di parola precedente. E in effetti, stando a tutto quello che ho detto sopra, a me sembra di individuare un’espressione di tipo greco come Abori-genés ‘generato, discendende di (un non meglio definito) Abor o Abori’ intendendo questo nome come quello di una divinità della luce o del sole. Il laconico abór ‘alba’, il gr. habr-ós 'delicato, molle, splendido, simile a lat. apr-icu(m) 'aprico, soleggiato’ (incrociatosi col lat. aper-ire ‘aprire’) e il nome Abari del sacerdote di Apollo che volava nel cielo su una freccia d’oro (cfr. Ovidio, Metamorfosi, V 86 e segg.) potrebbero confermarlo. Gli Aborigeni quindi, secondo questa linea interpretativa, non trarrebbero il nome dal fatto di essere gli abitanti autoctoni del Lazio, ma dal culto di un divinità o eroe eponimo, come i Marsi dal dio Marte (anche se io ho i miei dubbi), gli Agatirsi, popolo della Sarmazia, da Agatirso, uno dei figli di Eracle, gli Elleni da Elleno, figlio di Deucalione e Pirra, per fare solo qualche esempio. Una seconda interpretazione del nome potrebbe essere quella di ‘figli dell’Oriente, orientali’: la cosa corrisponderebbe in pieno a quello che la tradizione e la ricerca ci dicono sulle migrazioni nel Lazio e in Italia di popoli provenienti dalla Grecia e dall’Asia Minore.

P.S. Consultando in rete il Vocabolario Etimologico della lingua italiana (1907) di Ottorino Pianigiani, famoso magistrato-linguista, ho potuto constatare, in base a quello che egli dice sotto la voce labirinto, che già qualcun altro ne aveva proposto come etimo il gr. labir-os 'cavità' oppure laur-a 'corridoio, viottolo' di cui sopra. Si tratterà, a proposito di labiros, di qualche rara glossa, dato che i normali vocabolari greci non la riportano. Essa comunque attesta che il ragionamento da me fatto sull'alternarsi nella pronuncia di forme laur-/labr- è ineccepibile.

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