mercoledì 10 marzo 2010

Etimologia di "finestra". Appunti alla posizione di Massimo Pittau.

A me sembra che il metodo seguito da illustrissimi studiosi, per quanto riguarda la ricerca dei significati d'origine delle parole, riveli spesso criteri d'impostazione unilaterali. Massimo Pittau, ad esempio, a proposito del lat. fenestra ‘porticina, finestra’ sostiene che (cfr. la sezione di italianistica nel suo sito internet) «il significato originario di fenestra fosse quello di ‘nicchia o edicola sacra, larario’» anche sulla base della voce dialettale fan-estra e del fatto che la variante abbreviata latina festra significava ‘porticina’ ma anche ‘finestrella di sacrario’. Noto, in queste osservazioni, un gran desiderio di pervenire ad un significato il più circoscritto possibile della parola in questione, come se si fosse, anche inconsapevolmente, spinti a credere che le radici dei vocaboli siano state create dall’uomo onomaturgo con l’intenzione precisa di esprimere quel significato particolare e non altro. Ma, «contrariamente all’idea falsa che noi facilmente ce ne facciamo –non mi stancherò mai di ripetere il pensiero di Ferdinand de Saussure che corrisponde totalmente alla mia visione delle cose - la lingua non è un meccanismo creato e ordinato in vista dei concetti che deve esprimere » (cfr. F. de Saussure, Corso di linguistica generale,Universale Laterza, 1976, p. 104 ).
Il Pittau riporta la parola fenestra all’etrusco e precisamente a fanu ‘tempietto, cappella mortuaria’, da cui si ebbe il lat. fanum ‘tempietto, cappella, sacrario’. Io non credo che l’idea di ‘finestra’ sia in qualche modo un derivato diretto di quella di ‘tempietto , sacrario’ ma che ambedue facciano capo semmai all’idea più generale ed anteriore di ‘passaggio, attraversamento’ come è dimostrato anche dal suo significato di ‘porticina’, idea che poteva trapassare facilmente a quella di ‘(luogo, locale) di attraversamento’ che, si badi bene, poteva tradursi certamente in quella di ‘corridoio’ ma anche in quella di ‘locale’ tout court , cioè di ‘vano’, splendido vocabolo quest'ultimo, che ci può ben illuminare sulla dinamica della formazione ed evoluzione dei significati. Un termine come andito, ad esempio, originatosi dal verbo andare, attenua il significato del verbo già quando passa a indicare il ‘locale di passaggio’ ma lo annulla del tutto nel significato di ‘bugigattolo, sgabuzzino’, tanto che suderemmo veramente le proverbiali sette camicie se dovessimo ricondurlo ad un verbo di movimento senza l’ausilio prezioso del verbo ‘andare’ nel caso in cui questo fosse scomparso, cosa possibilissima, dalla lingua. Un invaso, anch’esso prodotto dal verbo di movimento (più o meno impetuoso) del latino invadere, oggi nel linguaggio tecnico-burocratico ha il significato di ‘bacino, depressione del terreno, conca’ venendo a confondersi con l’it. vaso, lat. vas, vas-um ‘vaso’ la cui origine, considerata oscura, credo possa essere illuminata proprio da questo in-vaso. Insomma, partendo da un’idea di movimento si può arrivare, secondo me, all’idea di ‘spazio (vuoto), cavità (a fondo cieco o meno), stanza, vano’. Se prendiamo, ad empio, il lat. spati-um 'spazio, estensione, passeggiata ecc.' e il lat. spati-ari 'passeggiare, camminare, andare e venire, estendersi' siamo portati a pensare che il verbo derivi dal sostantivo, e può anche essere vero, ma difficilmente ci fermiamo a riflettere che l'idea fondamentale dei due termini, la quale molto probabilmente ha generato tutte le altre, è proprio quella di 'movimento' che facilmente si concretizza in quella di 'passeggiata, estensione (in lungo, in largo, in altezza o anche nel 'tempo': cfr. il ted. spaet 'tardo, tardivo'), viale, piazza, spazio'. Lo 'spazio', quindi, mi preme sottolinerlo, anche nella sua accezione di 'interno di un locale' (prossima a trasformarsi quindi in 'locale, stanza' tout court) non è tale perchè esso si presta ad essere attraversato, come avevo supposto più sopra, ma perchè è esso stesso un diretto derivato dell'idea di andare, procedere , estendersi. Il vocabolo vano, come dicevo più sopra, presenta in italiano significati che in effetti corroborano il precedente ragionamento. Come aggettivo significa infatti ‘vuoto, cavo, inconsistente, ecc.’, come sostantivo significa 1) ‘cavità, rientranza ricavata da un muro’, 2)’ambiente, locale, stanza’, 3) ‘spazio vuoto, alloggiamento’. Le espressioni italiane vano di una porta, vano di una finestra, inoltre, fanno intravedere la possibilità che la parola vano nasconda dentro di sè anche un originario significato di ‘passaggio, via' andato perduto in latino e in italiano ma riaffiorante probabilmente nel siciliano van-edda ‘viuzza, vicolo’ e nel greco baín-ō ‘ vado, vengo, cammino, passeggio’ che presenta una variante arcaica básk-ō ‘vado, vengo’. Con quest’ultimo verbo credo debba essere connesso il termine dialettale vasca, diffuso in molte parti d’Italia, col sign. di ‘passeggiata, struscio’. Nel dizionario del De Mauro ne ho trovata una spiegazione che non condivido: la vasca ‘passeggiata’ sarebbe un’estensione scherzosa del percorrere a nuoto più volte la lunghezza di una piscina. Anche nel mio paese, ma soprattutto in altri vicini, si adoperava il termine nel senso di ‘passeggiata’, ma, nel contempo, la vasca nelle nostre parlate non corrispondeva esattamente anche ad una piscina di cui peraltro non esisteva nemmeno il nome. Essa era un recipiente, generalmente di legno, usato solo per la pigiatura dell’uva e noto anche nella forma vaschia. Nei tempi andati, e giù giù fino ai secoli scorsi, non si sarebbe incontrata una piscina nella Marsica nemmeno se si fosse camminato per decine e decine di chilometri. Al massimo, nelle campagne si incontrava qualche malandata pëschèra, una piccola vasca di raccolta delle acque di qualche sorgente, magari costruita in muratura, per scopi di irrigazione. Io d’altronde penso che il termine vasca, più che richiamare il lat. *vasca (var. di vas-cula pl. di vas-culum, dim. di vas ‘vaso’) con cui si sarà certamente incrociato, abbia qualche rapporto col basco vasca ‘recipiente’ e con l'ingl. bask-et 'cesto'. La strada percorsa dalle parole è solitamente molto lunga e va a perdersi nella preistoria dove esse possono riannodarsi insieme e dove sarebbe possibile vedere come i termini relativi al movimento vadano a combaciare sovente anche con quelli relativi alle cavità come una vasca. A proposito del sopra citato siciliano van-edda 'viuzza, vicolo' e della sua probabilissima connessione con il termine vano 'stanza' mi sembrano illuminanti i due toponimi dell'Etna Grotta delle Van-ette e Grotte delle Van-elle. Vale la pena riflettere anche sugli altri significati che i derivati dalla radice vas hanno assunto come quello di vascèllo (dal diminutivo lat. tardo vasc-ellum) 'botte,botticella' e 'nave', e di abruzzese (cfr. vocab. di Domenico Bielli, più sotto citato) vasca ' casa (di campagna abitata da un contadino che è a podere)', significato molto interessante perchè conferma la mia idea che il concetto di 'casa' è in genere derivato da quello di 'cavità, grotta'. Per vasca 'passeggiata' forse bisogna appuntare lo sguardo sull'aggettivo lat. vascus, a, um 'trasversale', nel senso che vasca ne potrebbe condividere il probabile significato di fondo, cioè quello di 'attraversamento' . Forse il vocabolo italiano che meglio esprime il connubio tra l'idea di 'movimento' e quella di 'cavità, nicchia' è rientranza la quale ha le radici, per così dire, immerse nel 'movimento' del verbo ri-entrare e tutto il corpo del suo significato ben saldo nella stabilità di una 'cavità'. Ma si potrebbe citare anche il vocabolo recesso nel significato anatomico di 'piccola cavità' anche se il suo valore etimologico simile a quello di retrocessione è meno presente nella coscienza del parlante medio.
Tornando al significato di fenestra/finestra mi pare che non si possa fare a meno di notare che la succitata radice di vano assomiglia oltretutto moltissimo a quella di etrusco fanu ‘tempietto’ (di cui potrebbe essere una semplice variante) posta all’origine di fenestra e, nel contempo, mi pare anche che non si possa evitare di allargare il discorso ad un nutrito numero di toponimi costituiti dal termine finestra, i quali, secondo me, sono da considerare come parlanti. Essi si riferiscono a passi montani e pertanto, data anche la loro ricorsività, si deve dedurre che il loro significato, in qualche lingua a noi sconosciuta, prelatina e preetrusca, fosse appunto proprio quello di ‘passaggio, passo, via’, che sta subito dietro, come abbiamo visto, a quello della parola fenestra ‘porticina, finestra’ (basti pensare al termine portella 'piccolo valico montano'). Essi sono: Colle di Finestra (fra Piemonte e Francia), Colle delle Finestre (Parco naturale Orsiera-Rocciavré, Piemonte), Passo di Finestra (Dolomiti bellunesi), Col Fenêtre (tra la Valle d’Aosta e la Svizzera), Varco della Finestra (monti Picentini –Campania). Una Via delle Finestre ho scoperto, diversi anni fa, nel paesino di Stiffe-Aq, presso le famose grotte. Probabilmente anche il Finster-műnz-pass, tra la bassa Engadina e l’Austria, deve essere della partita, anche se la radice si è incrociata con ted. finster ‘oscuro’, sicchè il significato di superficie del toponimo ora corrisponde a Passo della Moneta o Medaglia o Zecca oscura, espressioni senza molto senso. Non si può assolutamente pensare, come pure fanno i linguisti, che un nome del genere non debba significare quello che già è preannuciato nell’appellativo geografico che lo precede, cioè passo, colle (col sign. di 'passo'), varco. Allora la questione si fa più complessa eppure più chiara, a mio parere. Siccome la voce finestra ricorre non solo in questi odonimi della zona alpina ma anche in zone dell’Italia centro-meridionale e forse anche altrove, nutro la ferma convinzione che non possiamo discutere sulla sua origine se la costringiamo nell'ambito della lingua etrusca dove, del resto, non presenta il significato di passo, via : essa evidentemente circolava anche altrove e forse, data la sua radicatezza come odonimo, già prima della formazione della nazione etrusca, e doveva essere appartenuta a parlate preetrusche e preitaliche, anche di aree distanti dall'influenza etrusca, le quali d’altronde potevano essersi influenzate a vicenda, chissà quante volte mescolando il fiato, la lingua, gli usi e costumi. Anche il greco phan-opt-es 'finestra, apertura, buco, casetta' ribadisce col primo elemento la presenza della radice (o di una sua variante presente anche nel ted. Bahn 'via, cammino') di fan-estra. Il secondo elemento deve essere inteso come ampliamento di gr. opé 'apertura, buco, caverna'. Il significato di 'casetta' riconferma la mia idea dell'eguaglianza cavità/casa. Il greco met-ope 'metopa' è da intendere, a mio avviso, come cavità, rientranza in ambo i membri. Il membro meta- che nel greco storico significava 'tra' doveva aver avuto anche il significato di 'interno, cavità'. Esso a mio parere ricompare in gr. méth-odos 'via (per raggiungere qualcosa), indagine, metodo', gr. mét-all-on 'fossa, cava, miniera' e forse nel lat. se-mita 'sentiero'.
Quanto alla porta Fenest-ella che si apriva nelle mura di Roma, dopo tutto quello che è stato osservato più sopra, non posso non concludere che essa indicasse molto probabilmente se stessa, cioè la porta, il passaggio senza peraltro il valore diminutivo acquisito successivamente. Il Pittau, fedele alla sua idea circa il significato originario di fenestra, dichiara che quel nome sarà derivato da una piccola edicola sacra di cui essa sarà stata probabilmente fornita, secondo un uso che poi si affermerà nelle città murate di tutta Europa.
Ma Ovidio e Plutarco ci hanno tramandato anche la leggenda che questa porta sarebbe stata chiamata così perchè essa aveva una piccola finestra attraverso la quale la dea Fortuna passava quando si recava dal suo amato Servio Tullio. La leggenda aggiunge anche che presso la porta esisteva anche un talamo della Fortuna. Ora, non può passare inosservato il fatto che la leggenda è basata tutta su ‘concetti’ che possono ricavarsi, secondo tutto il ragionamento precedente, da quello di ‘porta, finestra’, cioè il concetto di ‘passaggio’ e quello di ‘camera (nuziale)’ o di ‘letto(nuziale)’: la radice di greco-latino thal-am-us è la stessa di greco thól-os ‘volta, casa a volta, edificio rotondo’, ted. Tal ‘valle’, radice che ha prodotto la leggenda del talamo come avrebbe potuto ugualmente bene produrre quella di una edicola sacra finendo col dare, in tal caso, indebita ma inoppugnabile sostanza alla supposizione del Pittau che avrebbe ricevuto così, senza possibilità di metterlo in dubbio, il crisma della verità indiscutibile e inattaccabile. La radice, a mio parere, è una variante di quella sottostane al lat. dolium 'vaso, botte', it. dolio 'mollusco con conchiglia bianca e globosa', a. slavo dolu 'voragine, cava, fossa, buca'. Altra variante deve essere la radice della voce tijje (da *tille) 'ascella' del dialetto di Trasacco-Aq, la quale richiama l'ingl. till 'cassetto' (cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà Q-Z, Centro Studi Marsicani, Avezzano-Aq, 2002, sub voce). Diventa allora del tutto evidente la possibilità che Servio Tullio c'entri nella storiella come i cavoli a merenda, andando il suo nome a combaciare con quello di lat. doli-um e gr. thol-os. Queste mie considerazioni ricevono maggiore forza dal nome del locale sotterraneo (una cavità, dunque) dell'antichissimo carcere Mamertino scavato alle radici del Campidoglio, che era noto come Tullian-um e veniva fatto dalla tradizione risalire ora a Servio Tullio, ora a Tullo Ostilio, ora ad Anco Marzio. Ma c'è di più: Eutropio tramanda che Servio Tullio scavò fossati intorno alle mura di Roma (fossas circum murum perduxit) le quali -egli dice- erano state invece già costruite da Tarquinio Prisco diversamente da quanto asserisce un'altra tradizione. A me sembra, quindi, che anche i nomi dei supposti re di Roma siano entrati nel tourbillon degli incroci delle parole. A questo punto debbo pensare che anche la parola fortuna abbia qualche relazione col concetto di ‘portare’ sia che essa debba essere intesa proprio come il ‘portato(della sorte), ciò che arriva, capita’ dal verbo latino ferre ‘portare’, medio-passivo ‘portarsi, muoversi, scorrere’, sia che debba intendersi come una sorta di variante della parola portus dal significato di ‘passaggio, attraversamento’ come nella rispettiva forma tedesca Furt ‘guado’, ingl. ford ‘guado’. I due concetti di 'portare' da un lato e di 'passaggio, andata' dall'altro, si ritrovano uniti anche nel verbo russo khodìt' 'andare, camminare, portare'. E non dovrebbe stupire nemmeno, per fortuna intesa eventualmente come 'passaggio', il trattamento tipicamente germanico della occlusiva labiale p- trasformata in spirante sorda f-, perchè si incontrano talora delle parole con lo stesso trattamento germanico anche da noi come il dialettale fésele ‘soffitta, sottotetto’ (a Rocca di Botte-Aq) corrispondente a pésëlë ‘sottotetto,solaio in legno di una stalla'(ad Aielli-Aq ed altrove); l’abruzzese filuccónë (cfr.Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Edit., Cerchio-Aq , 2004) per il normale piluccone, scroccone; abruzz. fischë ‘macigno’ di fronte alla forma più comune peschë, pesco, vitale anche come toponimo (Pesco-costanzo, Pesco-sansonesco, Pesc-asseroli, Pesco-rocchiano,ecc.); cafùrchjë ‘cesto capovolto per imprigionarvi un capretto’ (ad Aielli-Aq) di fronte a capùrchju (a L’Aquila e dintorni). Non sarà un caso se a Roma, accanto al tempio del dio Port-unus sulla sponda del Tevere, esisteva ed esiste tuttora il tempietto della Fort-una Virile e se, all’altezza degli orti di Cesare, si incontrava, sempre nelle vicinane del Tevere, il tempio della Forte Fort-una. L’appellativo Forte qui non corrisponde all’aggettivo it. forte ma al sostantivo lat. fors, gen. fort-is ‘sorte, fortuna’ corradicale con fort-una. La città di Fanum Fortunae (odierno Fano nelle Marche) potrebbe aver tratto il nome non dai Romani ma da qualche toponimo precedente: andrebbe benissimo un guado o ponte sul fiume Metauro.
Allo scopo di ribadire la connessione intima tra il concetto di ‘porta’ e quello di ‘finestra’ è utile fare alcuni esempi. In greco thýra vale ‘porta’ e thyrís, íd-os ‘porticina, finestra, apertura’. La radice è la stessa del ted. Tűr ‘porta’, ted. Tor ‘porta (di città)’, ingl. door ‘porta’, e ritorna talora in termini come got. auga-dauro ‘finestra’, anglosassone eag-dura ‘finestra’: il sign. letterale sarebbe ‘porta dell’occhio’, un po’ forzato, come si vede. Sembra di trovarci di fronte ad un popolo che non abbia nel suo vocabolario un concetto così semplice e comune come ‘apertura’, entro cui abbiamo visto che rientra una finestra, e perciò deve ricorrere a insolite metafore quasi poetiche per farlo. La semplice verità dovette essere quella, invece, di un composto tautologico con il significato di ‘apertura, passaggio’ in ambo i membri. La parola occhio ritorna nell’ingl. wind-ow ‘finestra’, dal nordico vind-auga che, altrettanto poeticamente, vuol dire ‘occhio del vento’ e sembra strizzare l’occhio allo sp. ventana ‘finestra’. Ma noi che prosaicamente non ci lasciamo incantare da simili smancerie svenevoli, cui si lasciano andare spesso i vocaboli irretiti nel grande gioco della loro storia millenaria e degi svariati incroci, corriamo invece col pensiero, per spiegare la componente vind-,vend-, allo scozzese wynd ‘viottolo’, all’ingl. vent ‘piccola apertura, passaggio’, ingl. to wend ‘andare, procedere’, alla voce dialett. venta (Trasacco-Aq) ‘ spaccatura, fessura, genitale femminile’ per non parlare delle molte strade del Vento, sparse in tutta Italia, per le quali però i linguisti non si azzarderebbero mai a firmare interpretazioni che vadano al di là dell’ovvio significato di superficie arricchito magari di qualche valore metaforico, perchè non le valuterebbero nemmeno un baiocco, anche se si trattasse di una via come Vasche del Vento (San Giacomo-Aq) il cui primo appellativo Vasche abbiamo conosciuto più sopra nel significato di ‘passaggio, passeggiata’, ma, anche se dovesse riferirsi a delle cavità naturali o artificiali, trascinerebbe nell'ambito del suo significato quello di Vento . La voce anglosassone eag-thyr-el ‘finestra’, letteral. ‘buco dell’occhio’ ci potrebbe convincere che anche dietro tutte le parole che, come abbiamo visto, hanno la stessa radice dell’ingl. door 'porta', il quale potrebbe esserne una variante nonostante il parere contrario dei linguisti, dorme il signif. di ‘buco, perforazione’: il dialettale inglese thir-l, infatti, ha proprio questo valore e si riallaccia a tante radici indoeuropee dello stesso significato come il lat. tr-ans ‘oltre, attraverso’ la cui radice tr- è ritenuta diversa, appunto, da quella simile di ingl. drill ' forare, trapanare' e da quella di door 'porta', perchè gli studiosi, a mio modestissimo avviso, sono attratti nella loro ricerca, molto più da ciò che individualizza e separa che da ciò che collega ed unifica . Per spiegare la componente –auga ‘occhio’ come 'finestra' basti a questo punto la considerazione che la sua radice indeuropea OK (cfr. lat. oc-ulus ‘occhio’) va a combaciare col serbo-croato oko ’occhio’ ma anche con serbo-croato ok-no ‘finestra’: a mio avviso è l’idea di ‘rotondità, cavità (compresa quella dell’orbita e del bulbo oculare)’ che, come abbiamo visto sopra, può facilmente accompagnarsi a quella di ‘perforazione, attraversamento, buco’. Il gr. para-thyris 'finestra laterale', il gr. para-thyr-on 'finestra', mantenutosi nel greco moderno para-thyro 'finestra', mostrano in fieri l'influsso della preposizione parà 'presso', che ha costretto il primo termine ad assumere la specificazione di laterale. La preposizione parà conteneva però nel greco antico anche il significato di oltre, aldilà, lungo facendo supporre che essa, come diversi studiosi pensano, potesse compararsi con il greco poros ' passaggio, guado, canale, ecc.', con il lat. per 'attraverso' e con diverse altre radici indoeuropee. Sicchè io sono del parere che essa dovesse avere qui il significato di 'passaggio, apertura, finestra' come quello dell'altra radice omosemantica sopra analizzata, costitutiva della parola. Che le cose stiano veramente così viene confermato, lasciando da parte i toponimi che concedono sempre la possibilità di dissentire a chi non è dello stesso mio parere, dalla impagabile voce abruzzese para-sacche 'fora-sacco' (cfr. vocab. del Bielli), denominazione di piante del genere Bromo le cui spighette a forma di lancia penetrano nella pelle, nelle orecchie o nella mucosa boccale degli animali lacerandone i tessuti e provocando gravi disturbi. La componente fora- è come la traduzione, in un idioma affine, della componente para-, la quale, quindi, non può essere che la preposizione greca di cui sopra, legata al significato di attraversamento, penetrazione. Per somma ironia del destino il significato di superficie del termine para-sacche allude a qualcosa che, invece di lacerare i sacchi, dovrebbe proteggerli! Il che non ha senso alcuno e nel contempo getta un'ombra di dubbio anche sul significato di -sacche. La piantina in questione viene chiamata anche orzo selvatico e tira-sacco, denominazione quest'ultima altrettanto rivelatrice giacchè la componente tira- deve essere una reinterpretazione della sopra citata radice di lat. tr-ans 'attraverso', lat. in-tr-are 'entrare', lat. ter-ere 'sfregare, tritare', lat. tere-bra 'trivella, trapano, tarlo'. Non credo affatto che questi termini siano di ascendenza medievale, ma che essi ci giungano da molto più lontano. La componente -sacco probabilmente non si riferiva in origine al recipiente che conosciamo, dove difficilmente ne venivano inseriti i covoni , ma costituiva una variante della radice di lat. sec-are 'tagliare, segare, attraversare, fendere' comparente in ant. alto ted. sahs 'coltello' e nel lat. sac-ena, sc-ena 'scure sacrificale'. I termini in questione indicano solitamente le spighette della pianta o le penetranti ariste. Quest'analisi di tira-sacco risulta essere per me una formidabile conferma di quanto avevo già teorizzato negli articoli Etimo del toponimo Trasacco e Le dediche alla dea Vittoria in epigrafi provenienti dal territorio di Trasacco raccolti nel mio libro Meditazioni linguistiche, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2007, pp. 23 segg. e pp. 108 segg. In breve in essi sostengo che il paese di Trasacco-Aq trae il suo nome dal fatto che in quel punto, prima del prosciugamento del lago del Fucino, esisteva un servizio di traghetto che collegava col punto di approdo nella sponda opposta chiamato La Stanga. L'idea di passaggio, attraversamento è da preferire, pertanto, a quella che lega l'etimo del paese all'espressione medievale con cui esso era noto: Trans-aquas, 'al di là delle acque' rispetto alla direttrice della Tiburtina-Valeria, dunque, nonostante la semplice ma importante osservazione che gli abitanti del luogo, ai quali probabilmente deve risalire l'assegnazione del nome, lo avrebbero visto al di qua delle acque. Per quanto riguarda la radice para connessa col significato di 'apertura, foro' c'è da notare, infine, che il vocabolario del Bielli riporta i due lemmi par-chiole/ pare-cchiole con il significato di 'spazio nell'ordito prodotto dalla rottura di un filo': si tratta, dunque, sempre di uno stesso significato ruotante intorno al concetto di 'squarcio, fessura, vuoto, ecc.'. L'elemento -c(c)hiole rappresenta un suffisso che contiene il doppio diminutivo latino -cul-ulus. In questo modo anche il gr. para-sitos 'parassita', che all'origine designava il funzionario cultuale che aveva il compito di dividere la vittima sacrificata fra i commensali, potrebbe trovare la giusta etimologia di 'taglia-cibo', e uscire così dalle secche della mai contestata etimologia che mette insieme alla meglio, con risultati non troppo soddisfacenti, il gr. para 'presso' e il gr. sitos 'grano, cibo'. Questo etimo potrebbe spiegare a mala pena il significato di 'commensale' ma lascerebbe fuori, a mio avviso, quello primitivo di 'trinciatore di carne, scalco'. La radice compare anche nel serbo-croato para-ti 'sdrucire (cfr. il citato abruzz. pare-cchiole) , sventrare' e, forse, nella voce abruzzese (cfr. il Bielli) para-ture 'interiora di agnello o capretto' ma spesso solo 'interiora'. Se le cose stanno così, sarebbe bene che uscisse dalle nebbie anche l'etimologia dell'antico italiano sparare 'tagliare per il lungo (il ventre di un animale per toglierne gli intestini)' fatto derivare solitamente da un *ex-parare (dal lat. parare 'preparare') senza che nessun etimologo accenni, che io sappia, a quest'altro filone interpretativo più calzante e aderente alla realtà.

domenica 7 marzo 2010

Guaglione

Il napoletano (e non solo) guaglionë ‘ragazzo, adolescente’ ha dato e dà tuttora filo da torcere ai linguisti che hanno proposto varie soluzioni, a mio avviso poco convincenti, per il suo etimo, fino a quella che rinvia alla serie onomatopeica guagua riferita a bambini piccoli e incrociatasi col lat. ganeo,-onis ‘frequentatore di taverne, crapulone’. Io penso che, vista anche la difficoltà interpretativa che essa presenta, la parola attinga la sua linfa vitale da strati preistorici molto lontani nel tempo e che la sua radice sia quella presente nella prima componente della voce cagli-andrë ‘fanciullo’ del dialetto di Villapiana-Cs.
A dir la verità l’etimo più accettabile mi è parso quello prospettato in un blog a firma di Raffaele Bracale, il quale, dopo aver passato in rassegna le principali proposte al riguardo, individua nel basso latino galione(m) ‘giovane mozzo, servo sulle galee’ l’origine del napoletano guaglione, che nel mio paese di Aielli-Aq suona uajjólë.
A mio avviso la parola appena citata cagli-andrë del dialetto villapianese apre una finestra insperata per l’individuazione dell’etimo di guagliónë. Essa ha tutta l’apparenza di un composto di tipo greco *kalli-anér, -andrós il quale però, stando al significato superficiale, dovrebbe significare solo ‘bell’uomo’. Ora, prima di arrivare alla mia proposta, è molto importante riflettere che spesso, in diverse parole, il significato di ‘fanciullo, figlio, giovane animale’ si trova abbinato a quello di ‘rampollo, pollone’ come nel gr. móschos ‘ramo, rampollo, giovane uomo o animale, vitello, rondinino’, lat. pullus ‘pollone, germoglio, puledro, pulcino’, ingl. scion ‘pollone, prole’, ingl. offspring ‘pollone, prole’, ted. Sprőssling ‘pollone, figlio’, fr. rejeton ‘pollone, prole’, gr. kóros ‘fanciullo, figlio, stelo, giunco’, lat. nepos,-otis 'nipote, discendente, rampollo di animale, germoglio' a cui si appaia il lat. nepeta 'nepitella, calaminta' nonchè nept-unia' specie di erba' ecc. Faccio osservare, nel frattempo, che la prima componente di cagli-andrë ‘ragazzo’ mi sembra accostabile a termini come kala-mínthe ‘calaminta, nepitella’: non ho segmentato la parola in kalam-ínthe come taluno fa richiamandosi al gr. kálam-os ‘canna’ seguito dal suffisso cosiddetto mediterraneo –inthe, perché la nepitella è un’erba aromatica dal forte odore di menta (gr. mínthe) e quindi è probabile che il suo nome greco includa in sè il nome della menta. Comunque la prima componente kala- deve essere la stessa di quella ampliata di kálam-os ‘canna’, di kalám-e ‘ stelo, gambo, paglia’, e di altri fitonimi. La componente –andrë di cagli-andrë , se la mettiamo in rapporto con la relativa parola greca, significa ‘uomo’ ma anche ‘maschio’ di qualsiasi età. Motivo per cui l’intero termine cagli-andre ‘ragazzo’ verrebbe a configurarsi, a mio parere, come un composto tautologico nel caso in cui alla prima componente diamo il significato di ‘fanciullo, figlio’ secondo la frequente corrispondenza tra il concetto di 'vegetale' e quello di ‘fanciullo, figlio’. Ma quasi sicuramente anche la seconda componente è partita con un valore di ‘vegetale’ se il gr. kóri-on equivale a gr. korí-andr-on ‘coriandro, coriandolo’, un’erba delle ombrellifere (cfr. il succitato gr. kór-os ‘fanciullo, stelo), e andr-áchne significa ‘porcellana (specie d’erba), fragola selvatica’. Io sostengo, in effetti, che il significato che si nasconde dietro queste radici di fitonimi è quello di ‘essere vivente’, concetto che abbraccia non solo tutte le piante ma anche tutti gli animali, compreso l’uomo. Ne sarebbe una conferma il termine greco cál-andros ‘sorta di allodola’ molto simile a cagli-andrë 'ragazzo'. L’espressione omerica kallí-pais theá , riferita a Persefone, non significava pertanto agli inizi ‘la giovane e bella dea’ ma semplicemente ‘la giovane dea’, avendo qui kallí- lo stesso significato di –pais ‘fanciulla’, a mio parere.
Dati questi presupposti il napoletano guaglionë potrebbe essere stato un ampliamento di cagli- (kalli-) con l’aggiunta del suffisso –onë, non necessariamente un accrescitivo.
Precedentemente dicevo che il basso lat. galione(m) mi sembrava, tra le altre, una proposta accettabile: solo che il termine, a mio avviso, doveva esistere già da molto tempo col significato generico di ‘ragazzo’, prima che entrasse nelle galee ad indicare specificamente il mozzo, come in qualche modo dimostra la presenza di cagli-andrë nel dialetto di Villapiana. E questo suo uso marinaresco dovette causare la sonorizzazione della labiale sorda iniziale di un originario *calione(m) per influsso del nome di galea, trasformandolo così in galione(m) con contemporanea rietimologizzazione del termine, quasi indicasse il ‘ragazzo della galea’ (cfr. lat. calonem 'garzone, servo'). Successivamente si sarà avuta la trasformazione della velare sonora in labiovelare sonora (gu-), sulla scia di qualche altro influsso da identificare, molto probabilmente quello delle parole trattate con pronuncia longobarda come guanto, guado, guasto provenienti da forme con fricativa sonora iniziale v-.

Invito il lettore a consultare l'altro articolo del 5/5/2018, scritto otto anni dopo, il quale , oltre a riportare integralmente quanto sostenuto sopra, aggiunge altre osservazioni alla luce di interessanti scoperte sopravvenute. Grazie.

sabato 6 marzo 2010

"Camorra" deriva da "Gomorra"? Appunti alla posizione di Massimo Pittau

L’illustre linguista Massimo Pittau, in un sito Internet facilmente reperibile se si cerca il suo nome, pensa effettivamente che l'appellativo camorra, indicante la ben nota organizzazione criminale napoletana, sia da collegare con il nome della famosa città biblica che, insieme a Sodoma, venne distrutta da Dio con una pioggia di zolfo e fuoco, perchè tutti i loro abitanti, nessuno escluso, erano immersi nel vizio della omosessualità. L’accostamento tra i due nomi (che al Pittau appare del tutto chiaro tanto da meravigliarsi del fatto che nessuno prima di lui lo avesse mai proposto, viste anche le più o meno impraticabili proposte espresse da altri linguisti al riguardo, che ruotano sostanzialmente intorno alla voce meridionale-napoletana morra ‘mucchio, gruppo, gregge, branco, banda, ecc.’ fatta precedere da un prefisso intensivo ca- da catà-) a me pare piuttosto aleatorio e più ascrivibile ad una casuale somiglianza fonica che ad un solido legame giustificabile in base a rigorosi criteri che non lascino il benchè minimo spazio per una critica onesta e sensata. Riconosco alla sua posizione il coraggio di chi vuole abbandonare le insostenibili ipotesi degli altri linguisti, ma nel contempo non posso accettare il criterio in base al quale egli sostanzialmente giustifica la sua proposta perchè, in tal caso, il termine camorra verrebbe ad essere estratto a viva forza (come un dente sano da un malaccorto dentista) dal contesto di termini corradicali in cui esso, a mio avviso, si trova ben inserito. Il gentile lettore mi perdonerà se, per amore di brevità, rimando l’analisi del termine in questione all’ultimo mio post del mese di febbraio intitolato Il romanesco ecc. “sgamare”..., oltre ad invitarlo a leggere l’articolo di Pittau sopra accennato.
Egli, in breve, sostiene che il passaggio da Gomorra a camorra sia avvenuto per traslato, attraverso il significato intermedio di «vizio, malaffare, malavita, delinquenza». A me sembra una bella forzatura mettere insieme il vizio così specifico della sodomia o, più in generale, della lussuria (al quale solamente fa riferimento il brano biblico) con tutti gli altri vizi dell’umanità, che possono allignare d'altronde più o meno diffusamente in tutti gli strati sociali, come il malaffare, la sopraffazione, l’imbroglio, ecc. e che non costituirebbero, in fondo, una caratteristica esclusiva della organizzazione camorristica, a tal punto da far scattare un automatico riutilizzo del nome della città biblica al fine di addossarlo all'organizzazione malavitosa che presumibilmente doveva già averne uno, a meno che non si voglia pensare che questa operazione si sia verificata proprio nel preciso momento in cui essa andava nascendo o acquistando forza . Se il termine camorra riguardasse una banda di pedofili allora sì che la connessione sarebbe inattaccabile! Per questo motivo, ma soprattutto per il fatto che, secondo me, la parola è ben inseribile, come ho già detto, all’interno di un nutrito gruppo di termini (cfr. il mio post più sopra citato) derivabili da una stessa radice, profonda e diffusa, non credo si possa accettare la proposta, per quanto coraggiosa, del Pittau in merito all’annosa questione dell’origine dell’ appellativo camorra.
Nel mio paese, come in tanti altri, la parola camorra non designava in genere nel linguaggio corrente l'organizzazione criminale corrispondente ma semplicemente un atto di frode, di imbroglio,di indebito e truffaldino guadagno. Il termine doveva essere uno dei molti riferibili a simili comportamenti come quello di imbroglio, truffa, raggiro, ruberia, carognata. Sicchè io penso che sia più naturale vedere nel termine camorra una normale designazione, agli inizi, di ogni azione furbesca o ladronesca prima che nascesse l'organizzazione la quale, con un processo altrettanto naturale, avrà continuato a ricevere quel nome che la designava probabilmente già prima che si formasse le ossa come organizzazione. Nessuno, prima di Pittau, aveva supposto la connessione fra i termini camorra e Gomorra, nè a livello popolare nè a livello dotto. Il libro Gomorra, noto bestseller di Roberto Saviano, in cui si parla della natura e delle attività della camorra, credo che non faccia testo al riguardo, vuoi perchè esso è posteriore (o forse è l'inverso?) all'articolo di Pittau, vuoi perchè la strada che porta al titolo di un libro da parte di un artista, o aspirante tale, è a mio parere solitamente ben diversa da quella battuta dalla lingua di tutti i giorni. Roberto Saviano avrà dovuto perlomeno sostare un po' a riflettere su quale fosse il titolo migliore per un libro sulla camorra e in quel frattempo avrà chiamato a raccolta, confrontandole, anche inconsciamente, tutte le sue conoscenze linguistico-letterarie accumulate nella sua vita, lasciandosi probabilmente alfine trascinare anche dal vezzo giornalistico in voga nei nostri tempi di avvicinare due termini fonicamente simili per ricavarne un effetto di sicura presa sul pubblico . La lingua lasciata a sè stessa difficilmente fa di queste operazioni come dimostra il fatto che in tanti secoli a nessuno sia mai venuto in mente, prima di Saviano e Pittau, di poter collegare e confondere la perdizione lussuriosa degli abitanti di Gomorra con la ferocia belluina e fraudolenta della camorra, nonostante la contiguità fonica dei due termini.
Quanto alla variante gamorra, dal Pittau ritenuta una "chiara e forte conferma della connessione dell'appellativo camorra col toponimo biblico Gomorra", non posso non sottolineare, con un senso di stupita e triste meraviglia, che l'esimio ed espertissimo studioso (non un linguista dilettante come me) glissa completamente sull'altra ed alta probabilità che questa pretesa connessione debba essere spiegata diversamente, nel senso cioè che essa sia soltanto una chiara e forte spia dell'incrocio di un preesistente appellativo camorra con il toponimo in questione noto, nella giusta pronuncia, lippis et tonsoribus per il suo ricorrere nelle prediche religiose e, per questo, difficilmente trasformabile in *Gamorra, come del resto è ribadito in qualche modo dal caso della variante gomorrèa (influenzata da Gomorra) per gonorrèa da lui citato, e di cui condivido la spiegazione.