mercoledì 27 gennaio 2010

I nomi dialettali di piccoli animali, insetti, uccelli come specchio delle paure da essi suscitate nell'animo umano?

Il modo solito di spiegare i nomi dialettali degli animali da parte dei linguisti mostra, secondo me, alcuni punti deboli che è molto interessante analizzare. Prima di tutto sarebbe assolutamente necessario, come punto di partenza, acquisire il convincimento che i nomi composti da due o più elementi ripetono tautologicamente lo stesso concetto relativo all’animale designato, anche quando i significati di superficie sembrerebbero negarlo. Dinanzi a un nome sardo del pipistrello come passera tolta o passali toltu non si può pensare che il significato di superficie di 'passera/o storta/o' possa essere preso per buono, se non altro per la stranezza stessa del significato che vorrebbe contrabbandarci l’idea che il pipistrello è come un passero dalle forme distorte, storpiate. Non si può pensare che qualcuno abbia inventato su due piedi una definizione improbabile come questa abbandonando per di più anche l'eventuale nome precedente dell'animaletto. In realtà mi sembra molto più naturale supporre in primo luogo che sotto il presunto aggettivo tolta ‘torta’ si nasconda invece un altro nome d’uccello corrispondente al lat. turdus ’tordo’, che in alcune zone della Sardegna suona tuldu, molto vicino a toltu ‘torto’ ( cfr. alcune forme pugliesi per 'pipistrello' come turtu-vagghia, turtu-egghia) , ma con ciò avremmo ancora una definizione poco chiara per il "pipistrello", perchè essa esibisce due nomi di uccelli che poco hanno a che fare con l'animale e che, anzi, sembra costituire un problema più grave rispetto alla precedente, tanto è vero che anche l’etimologia popolare ha preferito la prima definizione alla seconda, che pure era quella che essa si trovava davanti prima di intervenire per cambiarla. Il fatto è che, secondo me, il raddoppiamento di nomi era un meccanismo che la Lingua si trascinava da epoche primordiali, quando essa aveva bisogno di raddoppiare, triplicare, quadruplicare i monosillabi iniziali per differenziare le parole tra loro e facilitare la loro funzione distintiva, essenziale per una efficace comunicazione tra i membri di una comunità parlante. Questo è il motivo per cui ancora oggi, soprattutto in lingue germaniche, abbiamo dei termini composti i cui componenti presentano separatamente sempre lo stesso significato prodotto dal loro insieme come Gockel-hahn ’gallo’, Giebel-zinne ‘pinnacolo’, Senke-grube ‘pozzo nero’. Molti di questi termini tautologici, incorsi successivamente nel meccanismo dei composti germanici formati da un determinante e un determinato, si sono prestati a cambiare il significato del primo membro (determinante) ogni volta che questo andava a coincidere, nel significante, con altro termine dal significato diverso generando così i diffusi composti germanici caratterizzati da determinante + determinato. E’ il caso, mi sembra, di ted. Kriegs-hafen ‘porto militare’, letter. ‘porto (-hafen) di guerra (Kriegs-)’, che nel primo elemento credo nasconda un termine come l’ingl. creek ‘piccola baia, insenatura’, dato che un porto militare resta tale anche in tempo di pace e pertanto non giustifica a pieno un suo nome centrato sulla guerra ; di ingl. crow’s nest ‘coffa’, letter. ‘nido del corvo’ il cui primo elem. crow 'corvo' nasconde il significato del secondo elem. di ted. Mast-korb ‘coffa’, letter. ‘cesta (-korb) dell’albero(Mast-)’. Qui bisogna trarre in ballo i lat. corb-is ‘cesta’ e corv-us ‘corvo’, imparentati con i rispettivi termini tedesco (korb) e inglese (crow) e facilmente confondibili tra loro, per capire cosa possa essere avvenuto nella probabile espressione inglese *corb-nest con valore originariamente tautologico (cesta, cavità, nido) dei due elementi: la trasformazione del significato del primo (cesta) in quello del termine simile subentrante crow (da lat. corv-us) 'corvo' . Ora, tornando a passera tolda ‘pipistrello’ e riflettendoci un po’ sopra in base a questi meccanismi di formazione delle parole, dobbiamo trarne la conclusione che un nome simile trova la sua giustificazione solo se si suppone che le due componenti non avessero i significati che esse mostrano in latino e cioè ‘passero/a’ e ‘tordo’, e che quindi esse furono usate in questo caso per indicare il pipistrello già nella lontana preistoria. Bisogna anche pensare che, all’origine, queste componenti avessero un unico significato generico di ‘volatile, uccello’ e, più in profondità, quello di ‘essere vivente, animale’ successivamente specializzatosi a designare animali diversi. Per questi motivi non posso accettare le spiegazioni che solitamente i linguisti danno per simili nomi, ricorrendo a motivazioni di natura psicologica o superstiziosa o culturale-ideologica. Remo Bracchi (i), dinanzi al senso di perplessità che taluni di questi nomi (provenienti dalla valle dell'Adda e della Mera), come quelli relativi alla libellula o cavalocchio spesso generano nella mente dell' etimologo, recide il nodo gordiano affermando che “ la forma a chiodo del corpo, la rapidità fulminea del volo, la sagomatura delle ali a lame vibranti, l’imprevedibilità degli spostamenti nell’aria ha colpito incisivamente la fantasia degli antichi, che hanno attribuito all’innocente bestiola un potere demoniaco...” e così si toglie bellamente d’impaccio con una certamente accattivante riflessione anatomo-eto-psicologica che sembra essere inconfutabile ma che invece, a mio parere, mostra tutti i segni di una aleatorietà di fondo se non di una vera e propria improbabilità: tutte le volte, infatti, che io e mio fratello ci imbattevamo nell'insetto in campagna, negli anni lontani della fanciullezza, restavamo estasiati dinanzi alla sua suprema eleganza di forme e di movimenti , per nulla intimoriti da esso, anche perchè nel nostro dialetto non esisteva, che io sappia, un suo nome specifico e questo ci impediva di essere vittima del pregiudizio indotto proprio dai nomi del tipo cavaöc’ ‘cavaocchi’, mazzacavàls ‘ammazza cavalli’, caballito del diablo ‘cavallino del diavolo’ che il Bracchi cita per la libellula. Nomi simili hanno naturalmente generato dicerie sulla pericolosità dell’insetto e forse un senso sconsiderato di timore presso la gente la quale, però, non poteva non restare comunque ammirata dell’animaletto che sapeva, per esperienza, innocuo in fin dei conti. Esiste dunque un enorme iato tra la bellezza e la innocuità della libellula da un lato e i nomi minacciosi che essa talora porta dall’altro, che non può essere colmato partendo comodamente dai significati di superficie di detti nomi. Anche perchè il tipo cavaocchi interessa non solo gran parte dell' Italia del nord ma anche ampie zone dell'Italia centrale, il che impedisce di pensare che l'espressione, formatasi magari miracolosamente in una comunità, si sia poi diffusa in un'area così vasta, nonostante l'incredibilità del significato che proponeva per la libellula; e non si può d'altronde assolutamente ammettere che l'improbabile meccanismo paurosità-nome sia scattato ripetutamente come qualcosa di automatico, e non invece di eccezionale, nelle numerose zone interessate. Una spiegazione più razionale e naturale al tempo stesso la si può ottenere inserendo questi nomi negli schemi dei composti sopra accennati. Allora sì che potremo liberarci dall’ossessione subdolamente indotta dai significati di superficie ritenuti in genere di origine medievale, al massimo dell’evo antico, come se la gente di campagna fosse un’invenzione piuttosto recente e non avesse sudato e sofferto lavorando la terra o allevando pecore fin dalla preistoria, dalla quale avrà portato con sè tanti nomi di insetti, animaletti, i quali, proprio per la loro mancanza in genere di ogni valore economico e commerciale, potevano sfuggire alla pressione della omologazione linguistica che inevitabilmente si verificava ad ogni cambio di civiltà per gli altri animali per i quali soprattutto si doveva avvertire l'esigenza di adottare i nomi ufficiali circolanti in un più vasto territorio. I nomi della libellula o della mantide, invece, potevano continuare a vivere indisturbati, diversi magari da comunità a comunità, attraverso strati linguistici successivi, non solo perchè essi erano di nessun interesse pecuniario ma anche perchè i nomi rispettivi nelle nuove lingue dominanti probabilmente, per le medesime ragioni, erano poco conosciuti da chi era costretto ad apprenderle alla meno peggio per necessità . E' naturale poi, a mio parere, che i nomi provenienti da strati linguistici precedenti andassero ad incrociarsi con quelli dell'ultimo strato e producessero quegli effetti e riverberi che agli occhi dell'osservatore moderno possono sembrare di natura totemica (si pensi ai nomi nonno, padre per alcuni animaletti) o tabuistica ( focu e fiamma per la 'volpe' in Sardegna ma anche, in definitiva, il tipo cava-occhi per la 'libellula' che potrebbe sostituire il vero nome tabuizzato) o altro. Io sono fermamente convinto, invece, che in questi casi tutto ciò che è inteso come genericamente culturale ha un'origine prettamente linguistica. Gli uomini del lontano passato, ad esempio, che si ritrovavano nel loro vocabolario un nome per il 'picchio' significante letteralmente 'nonno', erano naturalmente spinti ad adorare l'uccello come tale, visto che d'altronde per la mentalità primitiva tutti gli esseri viventi e persino le cose del mondo inorganico erano sacre e divine. Sotto quest'angolo visuale perde la sua forza, a mio avviso, anche l'approccio magico-religioso con cui si cerca (v. Mario Alinei) di spiegare questi nomi: sono al contrario i nomi stessi, provenienti dalla preistoria e incappati negli incroci di cui sopra, che alimentano e sostengono la mentalità magica. A mettere in dubbio il ragionamento di Bracchi e quelli simili di altri linguisti basterebbe la semplice osservazione che in Sardegna si incontra, per la libellula e la mantide, un nome come caddu de Deu ‘cavallo di Dio’ che di certo avvalorerebbe il mio ragionamento sulla bellezza della libellula, se non vi si opponesse il fatto che il sintagma indica anche la 'mantide', che non è animale ugualmente affascinante e veloce, e il fatto che si incontra anche l’altro sintagma dal significato opposto cabaddu de dimonio, sempre per la libellula e la mantide, la quale ultima non mi pare possa suscitare, per la sua lentezza nei movimenti, nemmeno la spaventosa pericolosità attribuita alla libellula. Come si può agevolmente vedere, seguendo i suggerimenti e il metodo di questi illustri studiosi, non riusciremo a trovare una soluzione valida per tutti i casi, contravvenendo pertanto ad uno dei princìpi fondamentali per ogni teoria secondo Einstein: non contraddire mai i fatti empirici e assicurare una applicabilità la più vasta possibile. Oltretutto mi pare che essi non traggano le dovute conseguenze da quanto la recente ricerca in Europa (cfr. l' Atlas Linguistique Roman, IPZS, Roma), ma soprattutto nell'area romanza, ha potuto stabilire sui nomi dialettali dei piccoli animali, i quali risultano avere in genere motivazioni e nomi ricorrenti e intercambiabili per tutti, come dimostrano i due esempi più sopra addotti, indipendentemente dalle loro caratteristiche o dalle loro funzioni e comportamenti, veri o fantasiosi che siano. Al punto tale che non può individuarsi un nome specifico per ogni animaletto, essendo i vari nomi distribuiti secondo percentuali quasi prevedibili per ogni animaletto preso in considerazione. Da questo fatto statistico incontrovertibile secondo cui non pare sia mai esistito, all'origine, un nome particolare, esclusivo di un animale(tto) contrariamente all'idea che oggi noi facilmente ci facciamo sulla natura individualizzante della nominazione, emerge a mio parere la constatazione che in verità ogni nome conteneva solo un significato generale che comprendeva virtualmente tutti gli animali: il che comportava che esso, col passar del tempo e sotto la spinta dell'esigenza chiarificatrice della comunicazione, si specializzasse qui in un modo e lì in un altro, provocando così, con i successivi incroci, tutti quei giochi che sappiamo i quali hanno alimentato, se non generato, i vari fenomeni (totemismo, tabuizzazione, magia, ecc.) con cui i linguisti oggi, dopo aver abbandonato l'approccio scherzoso-fantasioso, cercano di dipanare il problematico (se non si è acquisita la convinzione del significato generico originario) groviglio della nominazione animale e vegetale nei dialetti, e non solo. L'errore che si commette è quello di credere che la cultura in genere sia la causa e l'origine di determinate credenze, comportamenti e nomi, e non si riflette nemmeno un po' che non esiste a mio avviso fattore culturale più potente, per l'uomo preistorico, della stessa parola che egli usa, per di più coinvolta nei magici, incredibili, mitopoietici seppure automatici riverberi di cui è capace, col favore del suo indefinito significato originario, della sua continua circolazione a partire dal Paleolitico almeno fino all'invenzione dell'agricoltura, e degli incroci e sovrapposizioni inevitabili con parole omofone. A tal punto che anche oggi, nel pieno della mentalità tecnologico-razionale, i fenomeni di sovrapposizione e reinterpretazione non sono rari. Nella città canadese di Mississauga, Ontario, dove vive una nutrita colonia di miei compaesani aiellesi, le famose Niagara Falls 'Cascate del Niagara', vengono pronunciate Negre Fosse da chi è poco inglesizzato, e intese come tali. D'altronde che le cascate siano delle "fosse" nessuno può negarlo. Se siano anche "negre" poco importa: del resto perchè dubitare di un aggettivo o di un nome che tutti ripetono allo stesso modo? Cfr. anche l'articolo di questo blog intitolato Origine degli agionimi relativi ai centri abitati... Perchè mai allora la linguistica ufficiale, che insiste oggi tanto sul totemismo o la tabuizzazione per spiegare l'origine dei nomi degli animaletti, sembra per lo meno poco attenta a questo naturale, potente e diffusissimo fenomeno della reinterpretazione etimologica e della sovrapposizione di termini che dovette operare a pieno regime soprattutto nella preistoria, per cui è sostenibilissimo che la gran parte dei nomi degli animaletti giunti fino a noi attraverso i dialetti e che sembrano essere formati di radici di lingue storiche rimandano in realtà a strati linguistici preistorici in cui quelle radici avevano significati diversi da quelli attuali? L’unica strada per tirarci fuori dal pantano è quella di cercare all’interno degli stessi sintagmi quei significati profondi che abbiamo visto, ad esempio, per passera tolta ‘pipistrello’ e che fanno dissolvere, come neve al sole, tutte le difficoltà derivanti dai significati apparenti di superficie. Fino a prova contraria, infatti, il cavallo è un ‘animale’ costituito appunto da un' anima, una forza vitale che ne permette l’esistenza (cfr. in questo blog Parole sarde del Duls, s.v. Impoddile e Caddu). Anche il greco daimon ‘spirito dei trapassati, dio buono o cattivo’ mi pare molto vicino al concetto più generico di ‘anima, animale, essere vivente’. Il "demonio" è poi uno spirito dalle mille risorse che sa ben camuffarsi in barba ai linguisti e prendere le false sembianze, ad esempio, del timone di un carro a Campegine (Reggio Emilia) nel cui dialetto timon-sen significa ‘vespa’, la quale, a detta dei linguisti, avrebbe preso il nome dal timone dei carri un po’ ricurvo in uso nella zona e simile al corpo piegato dell’imenottero, ignari ahimè delle strabilianti abilità trasformistiche del demonio che in Francia si presenta nelle vesti di una affascinante demoicelle 'libellula' (cfr. ingl. damsel-fly 'libellula'), dal latino parlato *domni-cella 'signorina', assonante con un sottostante probabilissimo *daemoni-cellum 'piccolo demonio'. Del resto anche in Italia sotto il nome di damigella sono compresi diversi insetti volatori. La costituente –sen del campeginese timon-sen, proveniente da –cino, è un apparente suffisso diminutivo (cfr. nel blog, Parole sarde del Duls, s.v. Caddu). Il catalano espia-dimon ‘libellula’ citato dal Bracchi deve quindi trovare una spiegazione diversa da quella apparente di ‘spia diavoli’. Io suppongo che la prima costituente si sovrapponga alla prima di un sottostante *speca-dimon da comparare, per il significato, col greco sphêk-s ‘vespa’ anche se ha seguito l'evoluzione della radice spek di it. spiare. Così stando le cose, nell' appellativo Deu del sintagma caddu de Deu sopra citato bisogna vedere non il Dio della religione ma il demone o l'anima che vivifica ogni animale dandogli anche il nome; e in effetti l'etimo di lat. deus richiama un'idea di luce (cfr sscr. div, diu 'rilucere', sscr. deva 'dio', lingua zingara devel 'santo', devla 'Maria, madre di Gesù) molto vicina, a mio parere, a quella di anima, appunto. Ed è quindi probabile che l'appellativo dia-volo, che costituisce il nome di tanti animaletti in Europa, esistesse prima della diffusione del Cristianesimo, il quale dovette appropriarsi di un termine che indicava già questi spiriti della natura e, con il concorso del greco dia-bolos 'calunniatore', ne fece uno dei tanti nomi di Satana. D'altronde mi sembra molto improbabile che il termine dia-bolos, di per sè privo di qualsiasi valore religioso e spirituale, abbia potuto assumere improvvisamente un significato così importante nel Cristianesimo, senza un qualche riscontro in tal senso nel folclore greco o mediorientale. Quasi sempre i nomi indicanti lo spirito maligno designavano precedentemente o contemporaneamente lo spirito benigno o lo spirito in genere, nelle varie civiltà. Azzardo la supposizione che lo spirito in questione fosse quello del dio semitico Baal, Bel di cui si parla anche nella Bibbia, fatto precedere dalla nota radice diu (cfr. Zeus 'Giove') 'luminoso, divino' come nel lat. dius, divus ' divino', sì da formare in qualche parlata greca il sintagma *dio-bal-os , interpretato per etimologia popolare e relativa metatesi come dia-bolos. La radice di Bel ci riconduce alla nozione di 'anima, spirito' se esso forma il composto bel-zebù (diavolo) derivato da Bel-zebub, nome di un 'dio (filisteo) signore delle mosche' secondo l'etimologia corrente, la cui prima componente, all'origine, doveva avere, invece, lo stesso significato di 'mosca' della seconda in questo caso (cfr. i citati nomi sardi bella-casu, ball-an-casu 'farfalla'). Che il termine dia-bolos, con altri significati circolasse comunque prima del Cristianesimo è a mio avviso dimostrato da toponimi come Passo del Diavolo (Gioia dei Marsi-Aq) e dai tanti Ponti del Diavolo diffusi in tutta Italia ed oltre, in cui appare la nozione di 'passo, passaggio' la quale si ritrova nel verbo greco dia-ballo che significa ' condurre al di là, passare, trafiggere, calunniare', ma non nel suddetto derivato dia-bolos che significa solo, metaforicamente, 'calunnioso, calunniatore'. E' quindi da presumere che questo significato di 'passaggio, ponte' dei toponimi fosse stato introdotto da qualche preistorica parlata greca o apparentata col greco. La locuzione prega-dio 'mantide' rivela, secondo me, nella prima componente metatesizzata una parentela con il franc. perce-oreille 'forbicina', con lat. perca 'pesce persico, (franc. perche)' e con il regionale perc-accia 'becc-accia': non si tratta qui di banale confusione di nomi perchè becc-accia rimanda al tipo citato beca-oc per la 'libellula'. Non credo pertanto che il nome della becc-accia sia derivato dal suo becco, e la seconda componente -accia non può essere un non meglio identificato suffisso peggiorativo, ma ha qualcosa o molto in comune con il tardo lat. acceia che ha dato come esito la forma acc-eggia' beccaccia'. La metatesi di prega-dio, naturalmente, sarà stata favorita dalla fama di religiosità che l'animaletto si portava dietro a partire almeno dal suo nome greco mantis 'profeta, ispirato': il genitivo di questo nome è manteos, non mantidos come vedo in diversi dizionari, anche etimologici, che a quanto pare si copiano a vicenda. Al plurale compare la forma mantid-es, la quale presuppone per la verità anche una rispettiva forma singolare mantid-, caduta evidentemente in disuso. La forma italiana mantide è quindi un portato del nome scientifico di questi animaletti, e cioè lat. Mantidae . Così, un nome composto come *perca-dio che inizialmente aveva un valore generico di 'animal(etto)' trova fortuitamente, in virtù del meccanismo automatico della lingua già messo in rilievo dal Saussure (cfr. l'articolo Fare il portoghese), la sua collocazione precisa nel lessico assumendo, quasi per caso ma molto opportunamente per la lingua, il significato di 'mantide'. Ribadisco quindi, con le stesse parole del Saussure nella traduzione del De Mauro, che " contrariamente all'idea falsa che noi volentieri ce ne facciamo, la lingua non è un organismo creato e ordinato in vista dei concetti che deve esprimere (il corsivo è mio)". Dell'esistenza della suddetta radice perc-, preg- per la mantide costituisce un forte indizio il fatto che nel folclore nordico la libellula era ritenuta simbolo della dea dell'amore Freya, Friga la cui radice presuppone un precedente *Priga, *Prega, uguale a preg-. Da ciò si ricava l'importantissima, a mio parere, osservazione, che voglio ribadire ancora una volta, e cioè che questo metodo collega a vasto raggio cose diverse apparentemente distanti tra loro, come voleva appunto il grande Einstein per la validità di ogni teoria. A questo punto vale la pena parlare della bella serie di nomi sardi per la 'mantide' del tipo sega-manu, sega-pedes, sega-didus, sega-sega-didos, sega-poddighes, mutza-manu, serra-manu, ecc. che ribaltano la religiosità dell'animaletto facendone un impietoso demone che mozza mani, dita, piedi. Per la componente sega- si guardi il nome regionale siga (sia) degli uccelli del genere Emberiza, ribadito nell'altro nome fara-sega 'Emberiza citrinella', l'emiliano sgh-èt 'rondone', ravennate sgh-itt-òn 'rondone', ingl. sk-immer 'libellula saturata', letter. 'schiumarola', la cui seconda componente rimanda al ted. imme 'ape'. Molto interessante la componente -manu la quale dovrebbe richiamare i latini dèi Mani, le anime dei morti il cui etimo corrente (da manus 'buono') considero errato. Naturalmente la radice interessa anche il ted. Mann 'uomo' in qualità di essere vivente come il lat. mannus 'cavallino'. Ma il fatto più interessante, a mio avviso, succede quando la medesima radice si incontra con la seconda componente del suddetto sardo sega-did-us e forma proprio il nome di origine greca man-tide (letter. 'profeta,invasato,ispirato, pieno di forza ' come fatta di spirito era la farfalla secondo uno dei suoi nomi sardi, cioè ispiritu), nome che a sua volta viene fatto derivare dalla stessa radice di gr. ménos 'animo, forza vitale, ardore, ira, ecc.' e di gr. main-omai ' infurio, sono in preda ad agitazione, ecc.'(radice man-): il significato di 'indovino, profeta' relativo alla 'mantide' ne sottintende quindi uno più profondo che andava benissimo eventualmente anche per 'animale'. In sardo didu, did-one, tud-one significano 'colombaccio, colombo selvatico'. E' il caso di ricordare il collegio sacerdotale dei Titii sodales i quali secondo Varrone traevano auspici dalle titiae aves, probabilmente colombi selvatici. Da ricordare anche ingl. tit-mouse 'cinciallegra' il cui secondo componente richiama direttamente l'ingl. mouse 'topo', lat. mus 'topo' apparentato col ted. Meise 'cinciallegra' e col franc. més-ange 'cinciallegra'. Si incontra, nell'area dialettale tedesca, anche Tuud=Tod 'morte' per designare la 'falena'. Risparmio al gentile lettore le spiegazioni delle altre componenti dei nomi sardi per 'mantide' anche perchè mi preme sottolineare che non è sufficiente dire che il nome della man-tide sia ampliamento della radice man- : l'ampliamento, prima di acquisire solo una mera funzione grammaticale utile a distinguere magari un sostantivo da un verbo, era stato causato dal meccanismo della ripetizione tautologica rispetto alla radice precedente e poteva esistere anche indipendentemente da essa come a mio parere dimostra il sardo tidu 'colombaccio'. Il tipo cava-öc’ sopra citato presenta delle varianti come caval-occhio, cavall-occhio le quali evidenziano un’interferenza del tipo "cavallo" di cui sopra . Le diverse altre forme per la libellula come schita-öc’ ‘schizza occhi’, piza-öc’ ‘becca occhi’, fura-öc’ ‘infila occhi’, catsch-egls ‘caccia occhi’ potrebbero surrettiziamente indurci, in effetti, nell’errore di considerare questi sintagmi, con la loro costante attenzione per così dire occhio-centrica, come il prodotto della volontà cosciente del locutore che, su un piano di sincronia, assegna un nome all’animale sotto la spinta di reali o presunte impressioni di pericolosità causate dall’animaletto. Ma già la voce bergamasca scana-occ 'libellula' che letter. significa 'scanna-occhi' dovrebbe metterci in allerta se non altro per la coppia male assortita verbo-sostantivo. Il verbo scannare si dovrebbe usare, infatti, in riferimento ad esseri viventi non agli occhi. Allo stesso modo non riesco a capire come il pesce scanna-cavaddu (pagro) possa compiere sui cavalli l'operazione espressa dal suo nome dialettale. Se si riflette inoltre sulla possibilità che la parola occhio nascondesse in questo caso un nome per la ‘libellula’, si dovrebbe di conseguenza spiegare la cosa diversamente, e ritenere che essa fosse magari andata ad accompagnarsi, come ultima arrivata, alle altre parole che di paese in paese indicavano già da molto tempo la libellula, formando così un normale composto tautologico i cui membri andrebbero però disposti su un piano diacronico. Noi che guardiamo a distanza di millenni questi nomi tendiamo a proiettarli tutti su di uno stesso piano sincronico, cadendo così in inevitabili errori di prospettiva. In effetti la componente -occ oppure –öc oppure –egls potrebbe nascondere una forma aùcchio ‘gufo’ (Castellafiume-Aq) derivante da un latino parlato *avi-culus, lat. avi-cula ’uccellino’ e presente anche in caccia-uócchië ‘pipistrello’ (Montebello sul Sangro-Ch), la cui prima componente caccia- richiama il catsch-egls nonchè il cacia-cavàl ‘libellula’, citati dal Bracchi. Ma questo caccia- come si spiega? Esso secondo me è l'ampliamento in -ia di una radice kak- alla base di regionale caca-viola 'calandrella', regionale cacca-sciarra 'culbianco', regionale caca-ciarri 'canapino maggiore', di ungher. kakas 'gallo' (cfr. franc. coq 'gallo'), ungher. kaksa 'anitra', regionale cagi-ana 'pavoncella', oppure si tratta di reinterpretazione popolare, con qualche aggiustamento paretimologico, del secondo elem. di fora-casciu (L’Aquila) ’pipistrello’, letter. ‘buca cacio’, e di molti nomi sardi per la ‘farfalla’, come bella-casu, ballan-casu, caba-casu di cui rendo conto nel succitato articolo di questo blog Parole sarde del Duls. C'è da osservare, comunque, che non è improbabile, per aùcchio 'gufo', una sua derivazione da una forma * av-ucchio composta dal lat. av-is 'uccello' e dalla radice dell'ingl. owl 'gufo, civetta' comparente nell'antico norreno ugla 'gufo', nonchè nel tardo lat. ul-uc-us 'allocco'. Allora assumerebbe un altro profilo il tipo cava-occhio 'libellula' che verrebbe ad essere così la copia perfetta dell'ingl. hawk 'falco', dato che hawk stesso, con normale passaggio della velare sorda iniziale k- a spirante glottidale h-, deriva da precedenti forme haf-oc (antico inglese) e hab-uh (antico alto tedesco) in cui non è difficile riconoscere anche l'etrusco capu 'falco' seguito dalla radice uk in questione. E in effetti in alcune parti degli USA è diffuso il sintagma skeeter hawk 'libellula' letter. 'falco delle zanzare' in cui l'elem. hawk a noi appare ora come metafora per 'libellula' ma la verità è che lo è diventato solo involontariamente per i motivi che sappiamo e proprio per questo non può servire a giustificare la falsa idea che essa sia il portato di una civiltà magicamente o tabuisticamente orientata. Più che una forma accorciata di (mo)squito 'zanzara' a me pare che skeeter dovesse, già prima di incontrarsi con mosquito, riferirsi a qualche insetto volatore se non proprio alla libellula, considerato anche che quest'ultima, essendo di abitudini diurne, dovrebbe avere poco a che fare con le 'zanzare' che operano di notte, a meno che non le agguanti mentre esse riposano di giorno: sta comunque di fatto che la locuzione mosquito hawk designa non solo la libellula ma anche la crane fly 'tipula' che in effetti non si nutre di zanzare. La radice skeet indica un movimento veloce o schizzante e si ritrova forse nel lituano skete 'libellula', nel primo elemento del citato schita-oc' 'libellula' letter. 'schizza occhi', nell'emiliano sghèt 'rondone' e nel ravennate sghitt-òn 'rondone' nonchè nel secondo elem. di a. oland. boter-schijte 'farfalla' letter. ' escremento (simile al) burro (boter)' oppure 'caca-burro' che non hanno quasi senso alcuno, a meno che non si voglia ciecamente credere, come fanno alcuni, che la nominazione dell'insetto tragga origine dal colore dei suoi escrementi, che probabilmente nessuno dei nostri antenati preistorici, prima dell'avvento dei moderni zoologi, aveva notati ammesso che l'insetto li faccia (pare di no!). Le storielle che inevitabilmente accompagnano questi tipi di sintagmi scompaiono come d'incanto non appena si cita un altro nome dialettale olandese che presenta i due elementi capricciosamente invertiti schijte-boter 'farfalla' in cui dovrebbe essere il burro ad assumere il colore o la sostanza degli escrementi ma con qualche difficoltà in più nel dover connettere il burro con l'insetto, quel burro che ricompare ancora più stravagantemente nell'altro sintagma olandese butor-kapelle 'farfalla' in una inspiegabile e difficilissima convivenza con la cappella, per la quale mi piace qui solo accennare ad una probabile parentela con la nostrana abruzzese luce-cappella 'lucciola' nonchè col surselvese speila-cavèls 'libellula', letter. 'pela capelli'. A distoglierci dall'ossessione del burro, però, ecco farsi innanzi un altro nome per la 'farfalla' chiamata, in una canzoncina per bambini della città tedesca di Luebben nel Brandeburgo, Kettel-boeter, cioè 'riparatore (boeter) di caldai, calderaio' in cui assistiamo all'ennesima pirotecnica trasformazione del significato dell' elem. boter, butter ( per 'calderaio' ricorrono nell'area tedesca anche forme come Ketel-buter, Kettel-boter). L'elem. Kettel- credo richiami il nome regionale italiano gatula per il lepidottero chiamato volgarmente 'cavolaia'. Ma siamo sicuri di essere nel pieno possesso delle nostre facoltà? Vogliamo forse abdicare completamente alla razionalità del nostro cervello lasciandoci docilmente menare per il naso da queste scatologiche e bizzarre stravaganze semantiche da illusionista che riescono a camuffare del resto solo la superficie di nomi provenienti da tempi remotissimi, carichi di storia e preistoria e gelosi della loro natura profonda? La delicata, vaporosa bellezza della farfalla e del suo lirico volo ridotta a merdosa schifezza! Io non ci sto, e penso, da modesto e sano realista, che l'elem. -schijte qui ripeta semplicemente il significato dell'olandese -vliege e l'inglese -fly ' mosca' nei rispettivi sintagmi boter-vliege 'farfalla' e butter-fly 'farfalla' dove gli elem. boter, butter-, letter. 'burro', richiamano semmai il franc. butor 'tarabuso', ingl. bittern 'tarabuso' e ingl. bot-fly 'assillo, estro' non certamente la storiella (come poteva mancare?) che le farfalle, o streghe in quella veste, ruberebbero il burro o il latte lasciati incustoditi. L'unico dato scientifico, risultante da questi ultimi esempi, è il ricorrere dei significanti boter, butter (burro) sempre in rapporto allo stesso referente (la farfalla), cucinati in salse diverse composte anche da altri ingredienti che inevitabilmente si mescolano con essi alterandone i sapori originari, rintracciabili comunque nel retrogusto lasciato nel palato e attraverso il mio metodo di analisi, garantiti proprio dalla suddetta ricorsività dei significanti, la quale, se non può essere giustificata, come abbiamo visto, dalla insostenibilità dei significati di superficie, nè può essere fatta passare come pura coincidenza perchè ciò contrasterebbe con la consistente frequenza delle occorrenze, trova allora la sua ragione profonda nella solida persistenza, al di là delle mutevoli apparenze, del significato d'origine soggiacente a quelli che di volta in volta abbagliano i nostri occhi. Un sosia dei termini -vliege ( pron. flighe), -fly compare nel catalano plega-mans 'mantide' con l'occlusiva sorda p- passata poi normalmente nel germanico a fricativa sorda f- : la man-tide qui, se non ci illuminasse il significato risolutore di oland. vliege 'mosca', ingl. fly 'mosca', ted. Fliege 'mosca', esatti corrispondenti di questo plega-, tornerebbe a tormentarci il cervello perchè saremmo incerti se riferire la locuzione alle mani dell'insetto, in realtà le zampe anteriori raptatorie, piegate (ma sarebbe stato meglio dire congiunte) nel presunto atto di preghiera dell'animale, oppure alle mani di un malcapitato, piegate dall'insetto non si capisce in che senso, se per semplicemente giocarci oppure storpiarle, col desiderio di compiere azioni simili a quelle delle "efferate" mantidi sarde dai proibitivi nomi come mutza-manu, di cui sopra . Mi permetto inoltre di pensare che il verbo italiano schizz-are non sia una voce onomatopeica, come sostengono in coro -mi pare- quasi tutti i linguisti, che non vedono il suo rapporto con le rispettive componenti dei nomi degli animaletti sopra citati del tipo schita-oc 'schizza-occhi', i quali durante la preistoria attinsero, invece, alla stessa forza contenuta nel verbo schizzare per dar corpo alla loro forza vitale, l'anima. Ed è almeno probabile che il più sopra menzionato ingl. amer. skeet 'muoversi velocemente, far schizzare (liquido o altro)', variante a mio avviso di ingl. amer. scoot dagli stessi significati, si riallacci all'ingl. shoot' sparare, tirare, lanciare'. Il ricorso all'onomatopea è spesso indice dell'impotenza in cui si trova costretta la ricerca etimologica tradizionale. Da non dimenticare l'altro sintagma, diffuso negli USA, snake feeder 'libellula', letter. 'nutritore dei serpenti' in cui snake 'serpente' richiama pari pari il ted. Schnake 'zanzara' e feeder 'nutritore' richiama, a mio avviso, niente meno che il sardo logudorese padre 'libellula' riallacciandosi anche alla seconda componente di lat. acci-piter 'sparviero' nonchè al regionale pietro marinaro 'martin pescatore'. Snake doctor 'libellula',letter. 'dottore del serpente' riceve qualche lume, non dalla credenza popolare (riflesso automatico del nome) che l'insetto curerebbe i serpenti, ma da ingl. doctor 'mosca' anche se 'artificiale', usata come esca dai pescatori con la lenza . L'altra denominazione per la libellula, l'ingl. hawk moth 'atropo', letteralmente 'falena (moth) falco (hawk)', mi pare che non sia all'altezza di quell' hawk, a meno che non si intenda il termine come sopra, cioè come equivalente in questo caso a moth 'falena'. Il tipo caba-casu credo possa essere accostato al diffuso cava-öc’ ‘libellula’ col primo elem. che richiama il sardo cau ‘gabbiano’ dal lat. gavia ‘gabbiano’ nonchè altro nome sardo per ‘farfalla’ e cioè ballan-cau diverso dal precedente ballan-casu. Ma si incontrano anche i nomi regionali cav-azza 'gabbiano argentato', cav-etta 'gracchio', caval-onghia 'cincia mora', pronta a tarsformarsi quest'ultima, appena le si dia l'input, in *cava l'unghia! a meno che cavalonghia non sia un'errata trascrizione di una forma già intesa al livello popolare come cava l'onghia da un precedente *cavalocchia, femminile del citato cavalocchio 'libellula' . Il tipo beca-öc’ ‘becca occhi’ va risolto con l’emiliano bega ‘ape’. Il tipo beśa-cavàl ‘ libellula’ trova spiegazione non nel verbo beśà ‘ (far) correre all’impazzata e saltare delle mucche al pascolo’ ma nel termine romagnolo besa ‘biscia’ dal lat. bestia. Il tipo mazza-cavàls ‘ ammazza cavalli’ richiama nomi come ceca-matté ‘pipistrello’ (Collelongo-Aq) , ted. Matz, che designa vari uccelli,l'imolese maza-peder 'incubo notturno', che richiama anche il citato ingl. feeder 'nutritore', e il noto termine dialettale mazza-morello 'spirito folletto' nonchè il regionale mazza-cani che designa il 'piviere dorato', per niente minaccioso per i cani. La componente -cani richiama il franc. cane 'anatra femmina', franc. can-ard 'anatra' , il regionale it. can-arella ' anas querquedula', regionale can-one 'quattrocchi' e, secondo me, ted. Hahn 'gallo', il quale non va riportato, quindi, alla radice di lat. canere 'cantare'. E via di questo passo. Se il Bracchi dinanzi al sintagma galina del bobò (a Talamona) 'libellula' si accontenta del significato di 'gallina del diavolo' io non posso passare sotto silenzio l'ingl. gallin-ipper 'libellula', in cui il secondo elemento richiama il gr. ippuris 'specie di insetto, tipo di pesce'. Per il bobò, che solitamente ha il significato di 'insetto, coleottero', basti il lat. bubo, onis 'gufo'. Anche l'ingl. drag-on-fly 'libellula' potrebbe avere dei sosia, magari ben camuffati, oltre che nell'ingl. drake 'maschio dell'anitra, ingl. drake 'insetto usato come esca, efemera', anche in tira-olhos, uno dei termini portoghesi per 'libellula', letter. 'tira-, strappa-occhi' definizione che ci riporta, con il secondo costituente, alle numerose forme più sopra citate, e, con il primo, ad un probabile originario latino *tra(g)h-oculos, dato che i due verbi tirare e trarre (da lat. trah-ere) praticamente si equivalgono semanticamente nelle lingue romanze, nonostante il complicato (forse dai linguisti) e irrisolto problema etimologico di tirare. Va da sè che io considero della stessa partita di ingl. dragon- il gr. drakon 'drago, serpente' e gr. tragos 'capro'. A conclusione di questa breve rassegna di nomi voglio esprimere il massimo rispetto per i punti di vista completamente diversi dei linguisti ma nel contempo mi augurerei che essi prestassero maggiore attenzione a questo problema delle sovrapposizioni dei nomi e del pirotecnico trascolorare dei significati allorchè si passa da una civiltà ad un'altra, problema di fondamentale importanza per la Lingua che mi pare di aver esposto con considerazioni almeno degne di qualche interesse. Verrà mai il giorno in cui la libellula potrà dispiegare liberamente tutta la sua aerea grazia di "aligero folletto" dal volo schizzante, beata nella sua vivace animalità, e non sarà più intristita da simili interpretazioni denigratorie di alcuni suoi nomi, così come è avvenuto per l' upupa, l' ilare uccello calunniato /dai poeti di montaliana memoria, che però aveva mantenuto il suo nome antico, nonostante le diffamazioni che avrebbero dovuto cambiarglielo secondo i modi descritti dai linguisti per la libellula?

(i) Remo Bracchi, Nomi e volti della paura nelle valli dell'Adda e della Mera, Max Niemeyer Verlag, Berlino, 2009, p. 159.