martedì 7 dicembre 2010

Con questi chiari di luna...

«Perchè quando le cose vanno male, quelle economiche particolarmente, si dice “con questi chiari di luna?”» domanda una lettrice di Chieti al sito internet Dizionario Italiano- Lingua madre. La risposta data da Fausto Raso vorrebbe chiarire (?), senza ombra di dubbio, che la luce fioca della luna, che non fa vedere nettamente gli oggetti sfumandone le immagini, deve intendersi come metafora della condizione in cui viene a trovarsi chi, illuminato solo dai tenui raggi della luna, vede poco chiaro intorno a sè e specie il futuro, soprattutto dal punto di vista economico. Egli ricorda anche che l’espressione, in tempi remoti, suonava “con questi lumi di luna”, volendo rafforzare così la sua idea della fievolezza del chiarore lunare.
Ad essere sinceri a me tutto questo ragionamento sembra piuttosto artificioso, cerebrale, se si tiene presente che il chiaro di luna, almeno nella mente di chi ha un minimo di cultura letteraria, ma in fondo anche della persona ingenua e comune, digiuna di letture, è sinonimo di poesia, delicatezza, gentilezza, sicchè mi pare altamente improbabile che esso abbia potuto suscitare sentimenti negativi, bui, messi in rapporto con una situazione economica di estrema gravità, come quella cui effettivamente l’espressione allude. E poi, una notte illuminata dal pur debole chiarore della luna infonde sempre negli animi un che di amichevole, cordiale e fiducioso rispetto ad una notte completamente illune opportunamente definibile, soprattutto se priva anche di stelle, come nera. Questa sì che sarebbe una metafora adeguata a rappresentare tempi economicamente magri ed incerti.
Io non so se la variante “con questi lumi di luna” sia attestata anteriormente all’altra, ma, anche se lo fosse, nessuno potrebbe impedirci di supporre che quest’ultima sia stata quella originaria nel parlare quotidiano, stando alle considerazioni che farò più sotto in merito a quella che a me sembra la probabile origine del detto.
Effettivamente la luna in questa espressione potrebbe essere il quasi inimmaginabile, eppure del tutto naturale, risultato di un incrocio e sovrapposizione di termini tra loro estranei. E’ molto comune in diverse parlate abruzzesi, ad esempio, la palatalizzazione della -l- che trasforma voci come lat. lumen ‘lume, luce’ in jumё (a Trasacco-Aq), oppure lat. loliu(m) ‘loglio’ in jjojjё (Aielli-Aq e altrove) oppure lat. lupu(m) ‘lupo’ in jupё (Luco dei Marsi-Aq e altrove). Si incontra peraltro anche lat. luna(m) trasformato in juna (Castellafiume-Aq)[1], il quale fa proprio al caso nostro come del resto il catalano lluna 'luna' pronunciato gliuna. Infatti, se poniamo all’origine della locuzione il sintagma latino clara jejunia ‘manifesti digiuni’, probabilmente passato nei dialetti prima a *clara jejuna per influsso dell’aggettivo lat. jejunu(m) ‘digiuno, a stomaco vuoto, affamato’, poi a *clara dejuna (ad Aielli-Aq l’it. digiuno suona infatti ancora dijunё) con la prima -j- trasformata in -d- per dissimilazione, e successivamente in *chiari digiuni, tutta l’espressione avrebbe significato, in tempi remoti, 'con questi chiari digiuni', cioè con questi manifesti digiuni (fame), evidenti, ad esempio, nei volti emaciati delle persone che si incontrano, in periodi di carestia e di fame, che non erano rari nell’antichità.
Ora, nella fase in cui il sintagma suonava clara de-juna si sarebbe potuto intrufolare, nelle aree caratterizzate da dialetti affetti da palatizzazione della -l-, e molto naturalmente, perchè favorito dalla presenza del termine clara ‘chiari’, il sintagma de juna ‘di luna’, trasformando completamente il significato apparente della locuzione ma mantenendo nel fondo quello che è arrivato fino a noi. A scanso di equivoci, tengo a sottolineare che questi fenomeni di palatalizzazione erano già attivi nei dialetti italici, prima dell’influenza su di essi esercitata dal latino.
Posso in ogni caso ammettere, al limite, che la mia proposta di interpretazione sia erronea, ma di certo essa non è cerebrale.


Riflettendo su questa mia ammissione (trascorso appena qualche giorno, sto aggiungendo a quanto precede queste notazioni) debbo confessare che già l’altro ieri la mia proposta non mi appariva pienamente soddisfacente; avvertivo nell’aria un sentore, per quanto percepibile solo da segugi dal fiuto finissimo, di alcunchè di superfluo, ornamentale nell’aggettivo chiari che costituiva come una divagazione non necessaria dal tema essenziale del digiuno e della fame. Come spessissimo succede in questi casi, la soluzione si trova nel fenomeno ricorrente della ripetizione tautologica dello stesso concetto. L’espressione deve aver fatto molta strada perchè essa già nella forma latina si era, a mio avviso, incrociata con un termine circolante in una vasta area, come vedremo, che poi si sarebbe nascosto dietro il paravento di lat. clara ma che inizialmente ribadiva la stessa idea di jejunia ‘digiuni’. Simili fatti sono molto frequenti quando due culture si incontrano e magari si confondono come avvenne nel secolo passato in Canada e negli Usa, dove ricorrevano e ricorrono tuttora qua e là nel parlare quotidiano espressioni quali pizza pie ‘pizza’, ricotta cheese ‘ricotta’, prosciutto ham ‘prosciutto’.
Il termine sinonimo di jeiunu(m) ‘digiuno’ or ora preannunciato deve essere un parente stretto di ted. leer ‘vuoto, vano’, ingl. leer ‘vuoto, (dial.) indebolito dalla fame, famelico’ (cfr. vocab. Webster), a. ingl. ge-lær ‘vuoto’ , a.a.ted. lari ‘vuoto’. La forma di a. ingl. ge-laer si inserisce in una nutrita serie di composti tedeschi come ge-treu 'fedele, fidato', praticamente uguale al semplice treu 'fedele, fidato'. Questo quadro di riferimento fa legittimamente supporre che la forma col prefisso germanico ge- dell’a. ingl. ge-lær fosse dovuta alla confusione con la sillaba iniziale di un termine originario *kelar divenuto in qualche parlata *klar già nel periodo in cui l'accento del germanico era ancora musicale e mobile, non fortemente espiratorio e fisso sulla sillaba radicale in genere all'inizio della parola (cfr. ingl. dial. holler, variante di ingl. hollow ‘cavo, vuoto’ connesso con ingl. hole ‘buco’; ingl. hall ‘atrio, salone –in quanto cavità-’ ma anche ‘corridoio’ e, arcaicamente, ‘ passaggio libero tra la folla’, ingl. hell ‘inferno’, il che mi autorizza a trarre in ballo anche il lat. callem ‘calle, sentiero, strada’, it. callaia ‘passaggio stretto, apertura in una siepe, viottolo’ da un precedente *call-ar-ia quasi uguale al supposto *kelar: tutti questi concetti rimandano, a mio avviso, a quello di ‘penetrazione, internamento, rientranza’ più che a quello di lat. cel-are ‘nascondere’ (cfr. lat. cl-am 'di nascosto'), il quale credo debba rifarsi comunque al concetto di ‘avvolgere, circondare, coprire’, collegato con quello di ‘cavità’, come nel ted. Hülle ‘involucro, velo, copertura’, ingl. hull ‘baccello, guscio, gluma, scafo’), confusione avvenuta prima che esso fosse sottoposto a spirantizzazione del -k- per via della nota Lautverschiebung o Rotazione consonantica, fenomeno conclusosi intorno al III o II sec. a. C. La coscienza linguistica del parlante avrebbe di conseguenza individuato un falso aggettivo –lær o -lari alla base del composto ge-lær ‘vuoto’, che era stato frutto probabilmente di un fraintendimento, come abbiamo visto. Un'altra possibilità, forse meno complicata, sarebbe quella di considerare l'a. ingl. ge-laer 'vuoto' un normale composto formato dal prefisso ge- e dal semplice aggettivo -laer 'vuoto' (continuato dai moderni ingl. e ted. leer 'vuoto'), il quale, divenuto nel frattempo senza difficoltà alcuna semplicemente glar all'arrivo qualche tempo dopo del ted. klar 'chiaro' mutuato dal latino, ha finito fatalmente col confluire in esso, dato che d'altronde la sua presenza nelle lingue attuali, che io sappia, non è attestata. Il termine *klar ’vuoto’ troverebbe conferma in voci francesi e spagnole come sp. claro ‘chiaro, luminoso, ecc.’ ma anche, in qualità di sostantivo, ‘spazio, radura’ oppure ‘pausa’. E’ soprattutto quest’ultimo significato che in verità mi conferma nel convincimento che il valore di fondo di questo termine sia stato quello di ‘vuoto, intervallo, frattura, break’ che va a incrociarsi pericolosamente, vedi caso, con l’aggettivo latino claru(m) ‘chiaro’ alimentando subdolamente il sospetto che un’idea di ‘luce’ debba comunque essere alla base di quella di ‘radura’ la quale, come abbiamo visto nell’articolo precedente La dea Angizia, il suo bosco sacro [...] a proposito del termine lucu(m) ‘bosco sacro’, va invece a braccetto col concetto di ‘vuoto, spazio’.
In francese la “radura” è chiamata clair-ière, termine che fa il paio con claire-voie ‘apertura lungo un muro chiusa da un cancello’, il quale secondo me presenta la solita ripetizione tautologica dello stesso concetto di ‘apertura, passaggio, via’ nei due membri e non è da ricondurre quindi alla chiarità del passaggio nel muro in contrapposizione alla impenetrabile e oscura barriera di esso. C’è da notare, tuttavia, che la lingua sembra favorire l’uso di simili termini nel caso in cui essi diano adito a queste ambigue interpretazioni capaci di confondere anche esperti esegeti. Si direbbe che la lingua, perdutisi ormai i certificati di nascita delle parole, ne cerchi volentieri altri, appena l'occasione si presenta, per renderle ben accette e riconoscibili, al passo dei tempi, a costo di stravolgerne la natura profonda. Anche l'ingl. claire 'stagno, laghetto recintato per la crescita e l'osservazione delle ostriche', fatto comunque derivare, senza una motivazione, dall'aggettivo francese clair 'chiaro', fa invece capo al concetto di cavità sia come 'lago' che come 'recinto'. Il ricorrente toponimo Valle Chiara, in Italia e fuori (cfr. ted. Klar-tal, Klaren-tal), è secondo me garanzia di quanto detto. A questo punto non possiamo più dubitare nemmeno del ted. licht-ung ‘radura’, dovendolo giustamente collegare non con la nozione di "luce" ma a quella di "spazio", come del resto si desume dal ted. licht-en ‘diradare’, ted. licht ‘rado’ oltre che ‘chiaro’.
Dimenticavo il ted. klar il quale, oltre a significare ‘chiaro’, presenta invero alcuni significati particolari (fine, minuto, sottile) che fanno pensare che al suo interno si nascondano altre radici, diverse da quella di lat. claru(m) ‘chiaro’ come nell’espressione geld klar machen ‘spendere denari’ in cui l’aggettivo sembra mostrare la stessa natura di *kelar, *klar ‘vuoto’ da me più sopra posto all’origine di ted. leer ‘vuoto’ per il tramite di a. ingl. ge-lær, come se si trattasse di un dar fondo, svuotare, finire, esaurire, in questo caso il “denaro” o, forse meglio, di un rendere libero, disponibile nel senso di emettere, distribuire, elargire, sborsare, spendere (denaro). D'altronde un'espressione, ad esempio, come klar sein zum Gefecht 'essere pronto al combattimento' non può evidentemente passare attraverso il concetto di "chiaro, limpido", bensì attraverso quello di "libero, privo di impedimenti, sgombero da intralci ed ostacoli". Questo termine, ancora, non ci lascia tanto facilmente perchè lo si incontra di nuovo nel significato di ‘privo di alberi, spoglio’ nell’italiano arcaico e in alcuni dialetti, il che fa pensare che esso vivacchiasse anche sotto il lat. claru(m) ‘chiaro’. Leggo infine nel Dizionario della lingua italiana di T. De Mauro che la voce chiaro si riferisce in tipografia a un tipo di carattere la cui asta ha uno spessore molto piccolo: riappare così, non so per quale via, l’altro significato di ted. klar ‘fine, minuto, sottile’. L’arte della stampa, però, nata in Germania, potrebbe aver veicolato da noi questo significato il quale mi pare possa essere tratto da quello di "rado, raro" nel senso di 'poco, scarso, sottile'. Anche col gr. pau-ein 'cessare', da cui il lat. pau-sa(m) 'pausa', al passivo 'liberarsi di', si debbono raffrontare il gr. pau-ros 'piccolo, minimo, poco', gr. pau-la 'cessazione, riposo', lat. pau-lu(m) 'poco, piccolo, scarso', lat. pau-cu(m) 'poco', got. faw-ai 'pochi', ingl. few 'pochi, alcuni'.
Non credo sia il caso di analizzare i diversi significati che la voce ingl. clear ‘chiaro’, nelle varie forme aggettivali sostantivali e verbali, assume, come quelli di ‘sgomberare, sbarazzarsi, liberarsi, svuotare, ecc.’.

Oggi, 29 agosto 2020, ho saputo che a Schiavi d'Abruzzo l'espressione italiana E' finito, è resa con Ha chiaròute : il che conferma tutto quello che ho detto sopra sulla radice clar-.  












[1] Cfr. Dante di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2007, p. 232 sub voce.

lunedì 29 novembre 2010

La dea Angizia, il suo bosco sacro e l'inghiottitoio della Petogna

La mia passione per la toponomastica mi ha condotto a rivedere tutta la saga relativa alla divinità italica Angizia la quale aveva un suo centro importante a Luco dei Marsi-Aq. In effetti penso, senza togliere nulla alla ricerca archeologica, che qualche sprazzo di luce nuova possa essere proiettato sull’origine del culto, a Luco, e sui nomi ad esso collegati. Come per la Madonna della Vittoria di Aielli, i Santi Martiri di Celano, San Cesidio di Trasacco e la Madonna della Vittoria di Scurcola di cui mi sono occupato in altri articoli, sono convinto che bisogna aguzzare la vista cercando di scovare nella toponomastica della zona interessata quelle conferme che possano giustificare e convalidare le credenze sviluppatesi intorno alla divinità per illuminarne nel contempo le caratteristiche, per la verità varie e contrastanti. In altri termini la mia idea è che la motivazione originaria di questo o quel culto vada ricercata nelle forme del terreno, nei colli, monti, corsi d’acqua i cui nomi, già dalla remota preistoria, potevano incrociarsi, sovrapporsi, confondersi o semplicemente aggiungersi a quelli di divinità magari già esistenti, favorendo così lo svilupparsi, nei luoghi suddetti, anche di realtà antropiche connesse con la loro venerazione.
In quest’ottica il culto della dea Angizia può essere considerato emblematico del fenomeno di concrezione sincretistica, intorno al nome di una divinità, di funzioni e attribuzioni peculiari di dei di origine diversa le quali, però, essendo simili o coincidenti nei nomi, potevano ritrovarsi concentrate in una sola divinità, col favore naturalmente di un lunghissimo periodo di tempo a disposizione. Pare, ad es., evidente il rapporto tra il nome della dea Angizia (lat. Angitia) e il lat. angue(m) ‘serpente’: per questa via essa poteva aver assunto il carattere di divinità ctonia, sotterranea, infernale visto il legame dei serpenti col mondo sotterraneo dei morti in tutta l’area mediterranea. L’incontro col termine latino potè verificarsi nella preistoria, essendo questo carattere di divinità ctonia già ben delineato al tempo dei contatti storici tra i Marsi e i Romani. In effetti il latino come noi lo conosciamo non può essere stato catapultato improvvisamente nel Lazio, per così dire, da plaghe celesti ma deve aver convissuto ed essersi mescolato per lungo tempo con altre lingue italiche, e parte di quelle parole che poi sarebbero state proprie della lingua latina storica potevano circolare anche tra altre lingue italiche, compresa quella marsa di cui però è quasi del tutto ignoto il lessico. E’ vero che solo con Servio (IV sec. d.C.) si fa per la prima volta riferimento ai serpenti connessi col culto della dea, ma questo fatto non può essere considerato prova sicura che la connessione suddetta non fosse già avvenuta molto prima. Che la divinità avesse avuto, però, un’origine etimologica diversa sembra attestarcelo già il suo nome peligno di Anaceta o quello della divinità romana corrispondente di Diva Angerona, un po’ lontani dal nome latino di Angitia usato per la divinità marsa, il quale ultimo allora sembrerebbe essersi originato solo da un incrocio e da un adattamento di comodo del nome originario della dea alla parola per ‘serpente’, per noi solo latina.
Inoltre il collegamento fra la dea e i serpenti potrebbe essersi stabilito anche per altra via, complice il nome dell’inghiottitoio dell’ex lago del Fucino, intorno a cui a mio parere ruota tutta la saga della dea, chiamato attualmente Petogna, da un quasi sicuro latino Pitonia[1]. Il mito greco ci dice che Apollo inseguì il serpente o drago Pyth-ón (Pitone) e lo uccise proprio dinanzi al sacro crepaccio che serviva per i responsi della Pizia nel famosissimo santuario di Delfi nella Focide. Ora, se facciamo attenzione alle segrete corrispondenze dei nomi, ci accorgiamo facilmente della forte somiglianza tra il concetto di ‘crepaccio, fenditura, buco, cavità’ e quello di ‘orcio, vaso, botte’ espresso in greco dal termine píth-os che è da confrontare quindi col precedente Pyth-ón, indicante il serpente inseguito da Apollo ma molto probabilmente alludente anche al ‘crepaccio’(cfr. gr. pyth-mén ’fondo -del mare-‘), e con l’inghiottitoio della Petogna, concetto che rientra in quello precedente di ‘crepaccio, fenditura, cavità’. Il gr. pithón ‘cantina, dispensa’ è poi quasi uguale a Pythón (Pitone) nella forma esteriore mentre il suo significato si aggancia a quello di ‘cavità’. Perchè questi nomi greci non sembrino troppo estranei ai nostri orecchi e quasi tirati per i capelli nei nostri dialetti è bene confrontarli con le voci abruzzesi[2] petarre ‘vaso di terracotta per conservare l’olio, frutta sottaceto’ e petitte ‘boccale grande’, da interpretare rispettivamente come gr. pith-ári-on , diminutivo di píth-os, e come *pith-ídi-on, altra possibilissima forma diminutiva dello stesso píth-os, sebbene non registrata nei vocabolari. A me sembra molto probabile che questi nomi di derivazione greca non siano da attribuire a eventuali contatti dei Marsi con i popoli della Magna Grecia avvenuti successivamente all’ VIII secolo a.C., come spesso si pensa, ma a contatti anteriori di epoca micenea e forse a migrazioni dirette di popolazioni greche che interessarono, prima del 1000 a. C., non solo il meridione ma l’Italia tutta nonchè l’Europa (in misura minore), come risulta dalla ricerca genetica di Luigi Luca Cavalli-Sforza e come si deve dedurre anche dalla presenza di inequivocabili toponimi greci (cfr. il mio articolo Fonte “Cantu Riu” di Sant’Anatolia-Ri ed altre fonti) radicati nel terreno, e quindi non facilmente spiegabili, secondo me, come semplice travaso da una cultura con cui si erano stabiliti contatti non certo strettissimi. Interessanti a questo fine sono toponimi come Valle Pitone a Caltagirone-Ct e come Passo del Pitone sul Monte Altissimo-Lu. Quest’ultimo si avvicina moltissimo, con il concetto di ‘passaggio’, a quello di ‘cunicolo, fenditura’. Petogna è anche frazione di Barisciano-Aq, a pochi km da L’Aquila, situata, a quanto riesco a capire dalle immagini satellitari, all’apertura di una vasta ansa incisa nel pendio del monte retrostante.
Una volta accettate le corrispondenze di termini di cui sopra, sembrerebbe del tutto naturale che l’inghiottitoio della Petogna venisse attratto dalle leggende relative ad Apollo Pitico, come dimostra del resto un passo dell'Alessandra di Licofrone riportato da Cesare Letta[3] dove, in una descrizione fumosa ed allusiva, si afferma che gli Eneadi andranno ad abitare in una terra accanto al Circeo, ad Aieta (= Gaeta) porto degli Argonauti, “ al marsico lago di Phorcus (= Fucino) e alla corrente Titonia (sic) della fenditura che si sprofonda sotterra nelle profondità invisibili, vicino alla collina di Zosterio (= di Apollo) dov’è la tetra abitazione della Sibilla (= Cuma) etc.”
Così stando le cose, si può legittimamente supporre che la chiave di interpretazione di tutta la saga della dea Angizia a Luco dei Marsi è quasi sicuramente costituita proprio dall’inghiottitoio, erroneamente chiamato Titonia nel passo citato. Esso avrà favorito la nascita e lo sviluppo del culto della dea ctonia, come oltretutto sembra indicare anche il fatto che le più antiche testimonianze epigrafiche e di culto provengono dall’angolo nord, vicinissimo all’inghiottitoio, alla base del recinto-santuario digradante a terrazze verso il lago a partire dalla cima del Corno di Penna. Sono dunque i toponimi, come vado affermando con una certa insistenza, che, nel lento fluire dei millenni, delle civiltà e delle credenze, svolgono una potente funzione mitopoietica, con l’avvicendarsi attraverso i millenni anche delle denominazioni relative ad una stessa realtà geomorfica. A mio avviso pertanto la denominazione Petogna sarà stata l’ultima (anzi la penultima, se si tien conto dell’attuale appellativo “inghiottitoio”) di una serie costituita da almeno altre due denominazioni, camuffate sotto i nomi di Angizia e di Luco, assorbiti rispettivamente dalla dea e dal paese vicino. Capita spessissimo in toponomastica che il nome proprio di una fonte, ad esempio, intorno alla quale si sviluppò un aggregato di capanne o casupole, passi ad indicare il villaggio stesso mentre la fonte, rimasta nel frattempo priva di nome proprio, acquisisca quello corrente per ‘fonte’ di qualche strato linguistico successivo al primo.
A dir la verità Cesare Letta, a p.208 e ss. del libro sopra citato, illustra finemente e con dovizia di particolari tutta la problematica suscitata dai rapporti tra la forma latina Pitonia, attestata per il nome dell’inghiottitoio di Luco, e quella eventuale greca Pythonia, propendendo per un’origine popolare, non dovuta quindi ad accostamenti dotti, del nome in questione e riconducendo il fatto ai contatti avutisi, non più tardi del IV sec. a. C., tra i Marsi e la cultura greco-etrusca della Campania, da cui avrebbero assorbito i miti del ciclo apollineo. Io, invece, sono dell’avviso che questi contatti abbiano potuto causare soltanto l’attrazione dei miti apollinei da parte del nome Pitonia, già esistente secondo me nella Marsica a designare la fenditura dell’inghiottitoio. Debbo ribadire pertanto che anche in questo caso non è il mito a creare ex novo il toponimo ma è quest’ultimo semmai a produrlo o, almeno, ad attrarlo nella sua sfera facendoci credere il contrario, una volta che il suo significato originario viene a scomparire, sepolto sotto sedimentazioni culturali e linguistiche successive.
Ora, il nome del centro antico di Lucus Angitiae è quasi certo. E’ certa la forma Angitia, da una iscrizione. La forma Lucu(m) la si ricava dall’etnico Lucenses (abitanti di Luco) usato da Plinio. Per un’analisi più dettagliata della questione si rimanda al citato libro di Cesare Letta-Sandro D’Amato, pp. 292 ss. Io sarei del parere di scorgere, dietro la facciata latina del termine, che sicuramente avrà causato anche la delimitazione nelle vicinanze di un bosco sacro alla dea, cosa che del resto avveniva normalmente (cfr. lat. lucu(m) ‘bosco sacro’), la presenza di un termine preistorico corrispondente a quello di ted. Loch ‘buco’, ted. Lücke ‘apertura, breccia, lacuna’, ingl. loch ‘fessura, cavità (in una vena di miniera)’, scozz. loch ‘lago’, ingl. leak 'crepa, falla, fessura, fuga, perdita (di liquido)', it. tecn. luce ‘apertura per il passaggio dell’acqua, bocca’, lat. luc-una variante di lac-una ‘vuoto, lacuna, cavità, crepa, apertura’, gr. leuk-ania, lauk-ania 'gola, fauci'. E’ quindi supponibile che anche l’it. luce ‘vano della finestra e della porta’ sia della partita, e che solo casualmente si incrocia con la “luce del giorno”. Naturalmente si hanno anche riscontri toponomastici come Lugo di Vicenza, paese situato nel punto in cui il fiume Astico, superata l’ultima stretta (sinonimo di ‘passaggio angusto, cunicolo’), si avvia verso la pianura o come Forcella Valle Luco di Orso tra la Costa dei Sassi e la Cima dell'Orso in Alto Adige, la cui denominazione di Luco è pronta quindi a trasformarsi in Loch o Lucke (buco, apertura) oltre il confine in area germanofona come nel Passo di Obere Wind-lucke 'Buco del Vento Superiore' in Austria (cfr. i Passi Col del Vento e Col di Luca in Piemonte). Ma una vera e propria chicca è la Valle dei Luchi nei pressi di Caramanico-Pe, un piccolo canyon del fiume Orte scavato dalle sue acque vorticose con la formazione anche di profonde marmitte dei giganti, nel Parco Nazionale della Maiella. I luchi pertanto, in qualche parlata del passato remoto, dovettero indicare proprio queste caratteristiche formazioni geologiche, se non il canyon stesso.  Toglie ogni dubbio in proposito il termine diminutivo lech-ìtte  del dialetto di Trasacco-Aq nella Marsica, non lontano da Luco dei Marsi: il significato di esso è 'piccolo luogo, posticino', ma anche 'piccola buca nel terreno'.  Doveva naturalmente esistere in passato anche il nome positivo *luche col valore di 'buco, fosso, cavità' che fa al nostro caso.  E’ molto indicativo, fra parentesi, il fatto che la radice etimologica di questi toponimi, che si riferiscono a caratteristiche del terreno formatesi addirittura in ere geologiche molto anteriori al tempo in cui il primo essere umano comparve nei dintorni, viene individuata immancabilmente nel lat. lucu(m) ‘bosco’ specie ‘bosco sacro’, come se tutte le lingue precedenti non fossero mai esistite, tanto da non lasciare nemmeno una sola, sparuta impronta della loro invece certa e durevole presenza. Il latino, in questi casi, rimanda ad un periodo troppo recente per poter essere preso per buono ad occhi chiusi. Mi dispiace dirlo in questo modo brusco, ma io non spenderei un soldo bucato nemmeno per l’etimo, solitamente dato senza tentennamenti, di lat. lucu(m): la parola avrebbe indicato inizialmente la “radura nel bosco illuminata dalla luce”. In realtà una spiegazione più naturale, perchè più aderente al significato di ‘vuoto, lacuna, apertura’ dato per i toponimi corradicali sopra citati, sarebbe appunto quella di ‘spazio vuoto, aperto, senza alberi’, e niente di più: una semplice radura, insomma, il cui essere illuminata o meno dai raggi del sole o dalla luce del giorno, oltre ad introdurre indebitamente un concetto aggiuntivo, è a mio avviso solo un fatto accessorio, secondario rispetto alla sua natura essenziale di radura : d’altronde, se vogliamo dirla con una boutade, in una notte nuvolosa e senza stelle non riconosceremmo la radura se non attraverso l’accorgerci, camminando, che in quel punto non andiamo a sbattere contro gli alberi. Si incontrano anche toponimi, riferiti a cavità o valli, costituiti proprio dal termine luce, come quello della Valle Luce nei pressi di Cesi di Colfiorito-Pg, nei quali naturalmente la luce ha lo stesso valore della voce luco e simili dei precedenti casi.
L’incrocio col concetto di "luce", semmai, può dare ragione o rafforzare la natura solare, aggiunta e contrapposta a quella ctonia, di Angizia, secondo qualche leggenda sorella della maga Circe figlia del Sole, oppure della maga Medea, figlia di Eeta, fratello a sua volta di Circe. Del coinvolgimento del mito di Angizia in quelli di Apollo, divinità solare, si è già parlato. Ora mi sorge il sospetto che la collina di Zosterio (Apollo) sotto la quale si sprofonderebbe, secondo il passo di Licofrone, la corrente Titonia (=Pitonia) potrebbe alludere al pendio roccioso del santuario di Angizia, oltre che ad altura presso Cuma in Campania. Lo stesso appellativo Zosterio (Apollo), da gr. zōstér ‘cintura’ al pl. ‘cinti da combattimento’ (cfr. anche gr. zóstra ‘vincolo, cintura, benda’), mi fa venire in mente la famosa lamina di Caso Cantovios rinvenuta all’interno del recinto sacro di Angizia, parte di un cinturone militare[4] in bronzo offerto alla dea dalle milizie marse, per la morte in combattimento del loro comandante Caso Cantovios. Si può pertanto supporre che alla dea fossero graditi cinturoni, cinture e bende, offerte che troverebbero la loro motivazione in un appellativo della divinità come quello precedente di Apollo Zosterio. Certo, se nella zona del santuario esistesse un toponimo come quello di La Giostra nel vicino paese di Collelongo con un piccolo santuario di epoca italica probabilmente dedicato a Diana, sorella gemella di Apollo e divinità della luce lunare, la cosa diventerebbe più stringente. Per intanto la nostra supposizione può alimentarsi della “notizia del poeta Alfio riportata da Festo, secondo la quale i Mamertini erano sacrati ad Apollo”[5], anche se essa non è pienamente condivisa dal Letta. I Mamertini, si sa, erano soldati mercenari campani di stirpe osca, affine a quella marsa. Non sarà poi un mero caso se il gr. zōstér valeva anche hérpes zōstér, l’affezione virale infiammatoria o fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio, che potrebbe richiamare quindi tutta la luce, il fuoco e il calore del Sole, divinità simile a quella di Apollo.
Che anche la radice di lat. Ang-itia si sia prestata ad indicare “buchi, cavità e cunicoli” ce lo attestano l’abruzzese àng-ёlё ‘buco di mezzo della paranza’, il laziale (a Serrone) ànc-ilo ‘pozzetto davanti al torchio dove si raccoglie l’olio’, il siciliano (a Paternò) anc-ìnu ‘gola, fauci’, veneto enca ‘imboccatura a forma d’imbuto nella rete da pesca’, a.a.ted. Encha ‘imbuto, strettoia’ nonchè toponimi come quello della grotta Ziё Ang-ёlinё ‘zio Angelino’ a Venere dei Marsi e delle varie grotte Sant'Ang-elo, sparse un po’ dappertutto.
Nella mitologia sumerica appare la figura di Enkidu che scende agli Inferi per riprendere il giocattolo preferito di Gilgamesh, ivi precipitato, il cerchio col bastone. Un altro personaggio il cui nome Enki presenta la stessa radice del precedente, persuade il dio del sole ad aprire un pozzo profondo fino agli Inferi, attraverso il quale Enkidu possa tornare sulla terra. Ora, l’idea di “cerchio”, in quanto rotondità o cavità deve considerarsi specializzazione della radice di cui si sta parlando, come si può arguire dal gr. ánk-ylos ‘curvo, rotondo’, lat. unc-inu(m) ‘ uncino’, abruzzese ang-ìne ‘uncino’. A mio avviso è proprio qui, nel campo dei significati profondi delle parole, non ben studiati dai linguisti, che si giocherà in futuro il destino della glottologia. Il lat. ang-ulu(m) ‘angolo’, stretto parente dei termini precedenti, si presta molto bene a designare una ‘punta’ e il suo significato speculare, cioè una ‘cavità’ o ‘rientranza’ che, nel lat. angi-portu(m) ‘vicolo’ assume il valore, tautologicamente ripetuto nella componente –portu(m), di ‘passaggio, penetrazione’. Buoni ultimi di questa nutrita serie sono gr. ánkos ‘piega, curvatura, gola fra monti, valle’ e gr. ángos ‘vaso, boccale, anfora, urna, cassa, armadio, utero, guscio del granchio, cella del favo’. Queste radici, nell’area fucense della dea Angizia, subirono un processo di personificazione passando ad indicare gli antenati, sepolti nelle grotte e trasformati in divinità tutelari del luogo e dei morti. Il loro nome era Ang-eti o Dii (Dei) Ang-ites[6]: si noti il quasi esatto combaciare della parola Dii con il termine parentale ziё (da gr. theî-os ‘zio’) della grotta Ziё Angёlinё di Venere dei Marsi e di quella di Zia Maria (pronunciata come se fosse zià-marìa) di Aielli, il mio paese. Detto per inciso io suppongo che questo zio/zia fosse in realtà all’origine altro termine per ‘grotta, casa, cavità’. Inoltre il concetto di "divinità" era incluso già nell’omofono aggettivo greco theî-os ‘divino’. Così, per quanto riguarda la storia di Angitia, le cose saranno andate nel seguente modo: con il nascere del culto della dea ctonia e la creazione del suo santuario-recinto, il termine angitia, distaccandosi dal suo referente originario costituito dall’inghiottitoio, passò ad indicare la divinità e l’area ad essa consacrata, allo stesso modo in cui il lucu(m) indicante anch’esso l’inghiottitoio, ma in epoca diversa, era passato forse prima, o successivamente, a designare l'agglomerato urbano che nel frattempo si era a mano a mano formato nei pressi del luogo di culto, il quale aveva certamente bisogno di un centro logistico di appoggio. Era così fatale che il suo nome, incrociandosi col lat. lucu(m), venisse riferito senza tentennamenti al “bosco sacro”, che certamente era stato già delimitato o piantato ex novo per la dea . Di conseguenza a nulla può servire, ai fini della individuazione del suo etimo, la citazione virgiliana di nemus Angitiae ‘bosco di Angizia’ (Aen. VII, v. 759) la quale faceva riferimento ad una realtà già consolidata probabilmente da millenni.
La più antica iscrizione col nome della divinità inciso nel cinturone ad essa offerto dalle milizie marse, presenta la forma Actia che coincide perfettamente con l’appellativo del famoso Apollo Akti-os, venerato nel promontorio di Azio nell’Acarnania in Grecia. Questa nuova radice richiamava quella di greco aktís ‘raggio, splendore del sole’ e potè anch’essa favorire l’inserimento di Angitia nei miti del ciclo apollineo o solare.
A questo punto credo sia utile soffermarsi un po’ a riflettere sui meccanismi di queste coincidenze di termini, le quali molto spesso non sono casuali. Il promontorio di Aktion ‘Azio’, che può sembrare un nome proprio dal significato opaco, richiama in realtà direttamente il gr. akté ‘sponda, penisola, promontorio’: in effetti, nella mente dell’uomo onomaturgo, un “promontorio” è la materializzazione di una forza che si protende in avanti a dar forma ad una punta di terra o a concetti simili che, secondo me, si ritrovano in una lunga serie di termini latini e greci caratterizzati dalla radice ak- come lat. ac-utu(m) ‘acuto’, lat. ac-u(m) ‘ago’, lat. acr-e(m) ‘acre, pungente’, lat. aci-e(m) ‘punta, spada’ ma anche ‘fulgore (degli astri)’, gr. ak-mé ‘apice, punta’, gr. ák-mon ‘incudine, saetta’, gr. ak-ís ‘punta, freccia, rampone, rostro di nave’, gr. ákr-os ‘supremo, estremo, sommo’. A questo proposito mi torna in mente con struggente nostalgia il tempo lontano in cui noi studentelli di scuola media inferiore eravamo costretti a sudare, per farne una parafrasi, sui versi del primo libro dell’Iliade nella traduzione, per noi un po’ ostica, di Vincenzo Monti, sicchè ci è restato ben impresso nella memoria l’episodio di Apollo che, adirato con i Greci per via dell’offesa dal loro capo Agamennone arrecata al suo sacerdote Crise, lancia per giorni e giorni una gragnola di frecce su di essi facendone un’orrenda strage. L’origine prima di simili leggende, al di là delle belle favole del mito, va cercata nel fatto che linguisticamente le “frecce” sono l’identica cosa dei “raggi” del sole, e così il loro nome che nel greco storico si era magari specializzato ad indicare solo le “frecce”, in uno stadio precedente della lingua, e in varianti diatopiche o diastratiche, poteva indicare, contemporaneamente o esclusivamente, anche i raggi o la luce del sole di cui Apollo era una ipostatizzazione.
Quanti secoli e millenni e storie e racconti e miti e lingue e uomini hanno interessato, nella lunghissima preistoria, il culto di queste divinità, tenuto conto anche dei fatti non più rintracciabili e ricostruibili! Ed è pertanto gran ventura se in qualche modo riusciamo a sollevare, anche parzialmente, il velo di densa nebbia che li ricopre.

[1] Cfr. Cesare Letta- Sandro D’Amato, Epigrafia della regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, pp. 208 ss.
[2] Cfr. Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq 2004.
[3] Cfr. Cesare Letta-Sandro D’Amato, cit. , pp. 208 ss.
[4] Cfr. Dépliant emesso dal Comune di Luco dei Marsi in occasione della mostra archeologica maggio-ottobre 2003.
[5] Cfr. Cesare Letta, cit. , pp. 213-14.
[6] Cfr. Dépliant, cit.

lunedì 1 novembre 2010

Il vastissimo significato d'origine delle parole

   Ogni tanto, sfogliando il Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli, faccio qualche incontro che mi costringe a fermarmi e a riflettere, benchè io stesso sia abruzzese, come dinanzi al sostantivo femminile langhe (la –e- è la vocale indistinta) ‘Sensazione molesta di aridezza nella gola, spesso con tosse stizzosa; sete ardente; voracità; malattia dei cani che li fa ansimare; filo di midolla che si estrae dalla coda dei gattini’.

    Dai significati di ‘sete ardente’ e di ‘voracità’ (quindi ‘fame’) sono spinto a pensare che queste due condizioni, espresse dalla medesima parola, di chi è senza cibo e acqua siano derivate quasi sicuramente da una identica radice esprimente in origine tensione verso gli oggetti del desiderio come avviene per il lat. ad-pet-itu(m) ‘inclinazione, desiderio, brama, assalto’ (da cui l'it. appetito) che rimanda al verbo ad-pet-ere, il quale grosso modo ha lo stesso significato fondamentale di ‘movimento (più o meno energico) verso qualcuno o qualcosa’. Anche l'abruzzese francarse 'avventarsi per aggredire, mordere, ghermire', connesso con voci simili per 'sentirsi affamato', 'fame', rientra nella stessa dinamica (cfr. articolo Commento ad un saggio di Ottavio Lurati...presente in questo blog, giugno 2010). Questa supposizione per langhe 'fame' trova immediato riscontro nei verbi ingl. to long for ‘desiderare ardentemente, bramare’, to long to do ‘non veder l’ora di fare, essere impaziente di fare’, ted. ver-lang-en ‘esigere, pretendere, volere, chiedere’ (cfr. sostant. ted. Ver-lang-en ‘desiderio vivo, brama’, dan. läng-sel ‘bramosia’), ted. lang-en ‘allungarsi, estendersi, giungere, pigliare, afferrare’, italiano fam. al-lung-are ‘porgere, dare, affibbiare (uno schiaffo)’ tutti, quindi, col significato originario di ‘al-lung-ar(si), tendere, ecc.’, il quale dovrebbe spiegare anche quello di ‘filo di midolla...’ se inteso come una sorta di ‘tendine’. E’ superfluo ricordare che gli aggettivi long, lang significano ‘lungo’ rispettivamente in inglese e tedesco. Che la mia supposizione non sia peregrina me lo conferma l’altro lemma lang-uorne ‘persona, cosa lunga’ il quale attesta la solidità della radice lang in terra abruzzese (peccato che il Bielli non nomini i paesi dove il termine ricorre!) col significato fondamentale di ‘lungo’. Si incontra anche il lemma lang-óune ‘ghiotto, ghiottone’ con il frangimento della vocale accentata –ó- diventata –óu-, che richiama la ‘voracità’. Il significato di ‘sete ardente’ fa capire che la radice in qualche parlata poteva piegarsi a rappresentare la ‘tensione’ o l’ ‘ardore’ anche della fiamma (cfr. ungher. lang ‘fiamma’) come viene riconfermato dal lemma al-lang-anìte ‘riarso dalla sete’ (da non confondere con l’aiellese al-laccan-ìte ‘fiacco, debole’ da confrontare forse col lat. lachaniz-are ‘essere languido’ di derivazione greca). L’ ansimare del cane, dovuto a malattia secondo la spiegazione del Bielli, è naturale che possa trapassare al concetto di ‘spasimare’ per qualcuno o qualcosa oppure semplicemente a quello di 'respirare con difficoltà, trafelare' in conseguenza, magari, di un correre: in questo caso, infatti, nel mio paese di Aielli si usava il verbo riflessivo al-lang-àsse<*al-lang-arsi che pendeva già però verso il significato di ‘sfinirsi, stancarsi’ prossimo a quello di lat. langu-ere ‘essere abbattuto, stanco, ecc.’. Del resto nel vocabolario del Bielli si incontra anche il verbo langhià che significa semplicemente 'ansare, di chi è trafelato'.

    Nel dialetto di Villa Santo Stefano nel Frusinate, il termine langa significa semplicemente ‘fame’ e lanc-one indica la persona ‘golosa’, come il suo sosia abruzzese sopra citato lang-óune.
Questa radice lang, così vistosamente malleabile coi suoi vari significati di lunghezza-estensione-arrivo-presa-sete-fame-ardore-respiro affannoso-tendine- ecc. mi rafforza nel convincimento che i significati profondi delle parole siano sempre molto più generici di quanto solitamente i linguisti pensano, e che, di conseguenza, essi siano destinati a combaciare tra loro, a mano a mano che si procede a ritroso nella storia delle parole. Questi significati, poi, anzichè soffermarsi su aspetti particolari, marginali o secondari del fenomeno da rappresentare, come talora danno ad intendere etimologie ufficiali disturbate in realtà da qualche incrocio che fa apparire il termine appositamente confezionato per quell'epifenomeno , puntano al contrario al sodo e all’essenziale avvicinandosi via via sempre più al significato genericissimo che giace al fondo delle parole. Questo fatto naturalmente risulta particolarmente ostico alla nostra mente, abituata da sempre a distinguere una parola dall’altra, un significato dall’altro, corrispondenti ai vari aspetti ed entità del reale. In altri termini il linguaggio come noi lo conosciamo, per quanto riguarda i significati, è figlio di una volontà di distinzione semantica di un unico concetto originario (essere, vita, forza) realizzata storicamente anche attraverso l’aiuto della varietà degli innumerevoli significanti, più che un sistema che già dalle sue origini possedeva o produceva concetti belli e distinti gli uni dagli altri. La radice lang ritorna accompagnata da una sua variante nell’espressione, sempre tratta dal Bielli, va linghe langhe ‘va lemme lemme’ che richiama per il significato il ted. lang-sam ‘lento, lentamente, adagio’ ma che in più risente dell’effetto prodotto dalla iterazione con alternanza vocalica che arieggia, pur non essendolo, un’onomatopea o, meglio, un fonosimbolismo. Si incontra comunque anche la forma solo raddoppiata lènghe lènghe ‘lemme lemme’. Nei manuali si legge che la forma lang 'lungo' è propria del germanico dove si ha solitamente il passaggio della vocale -o- indoeuropea ad -a- (cfr. lat. longum 'lungo' e ted. lang 'lungo') in posizione tonica. Ma, come si vede, le regole elaborate dagli studiosi non sono così tassative come si crede, perchè parte della realtà linguistica presa in esame spesso può nascondere il suo vero volto per diversi motivi , non ultimo quello conseguente alla estrema elasticità dei significati. A me sembra chiaro che quelle che sono etichettate come trasformazioni siano in realtà in gran parte solo semplici sostituzioni di forme preesistenti, autonome le une rispetto alle altre.

   La presenza nell'enunciato linghe langhe della variante linghe (da non spiegare come creazione artificiale opposta a langhe, ma come entità autonoma sebbene con lo stesso significato) mi suggerisce che anche il lat. lingua(m) ‘lingua’ non debba essere riportato, come solitamente avviene, al lat. arcaico dingua ‘lingua’ ricorrente in ambito indoeuropeo come nell’ingl. tongue ‘lingua’, ted. Zunge ‘lingua’. A mio avviso si tratta semplicemente di altra parola che sostituisce l’antica. Il lat. ling-ere 'leccare' è costituito della stessa radice. Il fatto è che dietro queste parole si cela (ma non troppo) il significato di ‘protuberanza’ e, più in fondo, quello di ‘spinta, tensione’, il quale è precedente e sovraordinato a tutti gli altri che la radice nelle varie lingue può assumere, compreso quello di ‘lunghezza’: cfr. lat. lingua(m) ‘lingua, lingua di terra, promontorio’; suffisso ingl. -ling, -lings in avverbi come east-lings (scozzese) 'verso est' dove assume valore di direzione, estensione e misura ed è pertanto da accostare al ted. lenk-en 'guidare, dirigere'; sardo logud. longu ‘pene’ (che naturalmente, in quanto protuberanza - si tenga presente che anche il lat. penem significava 'coda' oltre a 'pene', e lo stesso avviene per lo spagnolo cola 'coda, pene' e per il ted. Schwanz 'coda, pene'- non tiene conto della sua lunghezza e così ci dice che esso circolava già prima dell’arrivo del latino in Sardegna); log. ling-rone ‘allampanato, magro’; logud. longh-iriddu ‘smilzo’; logud. long-ariddone, long-arione, longh-ei, longh-eu ‘spilungone, perticone’; sardo campid. láng-iu ‘esile, magro, smilzo, smunto’; campid. lang-iori, lang-esa ‘esilità, magrezza, macilenza’;campid. lang-inu ‘esile, gracile, mingherlino’(cfr. ingl. lank ‘alto e magro, lungo e sottile, allampanato’); ingl. to ling-er ‘attardarsi, idugiare’, ma anche ' desiderare ardentemente, bramare' nei dialetti (da non considerare naturalmente come alterazione di long 'lungo', come taluni pensano. Ma perchè mai, in effetti, non potrebbe essere il contrario? Il fatto che nell'inglese come noi lo conosciamo la voce long sia centrale rispetto all'altra non è per nulla garanzia che le cose siano state sempre così!); ingl. arcaico link ‘fiaccola, torcia’ che, a mio avviso, si riallaccia all’ungher. lang ‘fiamma’ sopra citato. Da notare che anche il lat. macru(m) ‘magro’ richiama il gr. makrós ‘lungo, grande, largo, esteso, profondo’.

   L’espressione avere, sentire un languore allo stomaco credo, per quanto detto sopra, che non si debba spiegare solo col significato di ‘sensazione di vuoto’ allo stomaco: su di essa aleggia senz’altro il significato di 'fame,morsi della fame' non dovuto soltanto al contesto ma anche all’incrocio di langu-ore con termini come abruzz. langhe ‘fame’.

    Le voci marsicane al-laccan-ìte (ad Aielli) ‘fiacco, debole’; al-laccan-ìtu [1] (a Rocca di Botte) ‘sfinito, spossato, infiacchito’; al-laccan-ìte (a Trasacco) “dicesi di stomaco in preda ai languori della fame... dicesi anche di persona magra” [2]; al-lancan-ìte[3] (a Luco dei Marsi) ‘illanguidito(per fame)’ con l’inserimento della nasale –n-, mostrano un evidente incrocio tra la radice del lat. lachaniz-are ‘essere debole’(da gr. láchan-on ‘ortaggio’) e quella di abruzz. langhe ‘fame’ o ‘magrezza (non ricavata quest’ultima, però, direttamente dall’idea di fame, ma da quella di allungamento o assottigliamento attestata dai rispettivi termini sardi di cui sopra)’. La forma al-lancan-ìte ‘illanguidito (per fame)’ di Luco dei Marsi, se paragonata al sopra citato abruzz. al-langan-ìte ‘riarso dalla sete’, ci conferma che la radice in questione poteva essere usata indifferentemente per esprimere la fame o la sete, concetti ben distinti ormai in tutte le lingue, credo. Ma probabilmente lo erano già ai tempi remoti cui risalgono queste antiche parole, perchè poteva darsi che nella parlata di un paese in cui, ad esempio, al-langan-ìte significava ‘riarso dalla sete’, esistesse tutt’altra parola per indicare la nozione di ‘fame’.

P.S. Mi sono accorto che anche il nome della nota subregione piemontese delle Langhe, costituita da serie di colline dalle creste appuntite rincorrentisi , può ricevere luce etimologica da quanto sostenuto sopra sulla radice lang: basta pensare al sardo log. longu 'pene', così chiamato in quanto 'protuberanza', per convalidare il significato del termine langa 'cresta' ricorrente appunto in loco per le 'creste, cime, punte' delle suddette colline. Ma la radice, secondo la corrispondenza speculare di cui ho parlato nell'articolo precedente, poteva assumere anche il significato di 'conca, avvallamento, ansa di fiume'.

   Leggo ne I Dialetti Italiani, Cortelazzo-Marcato, UTET, Torino 1998, sub voce (a)nànca: "sf. (salentino; pugliese; abruzzese e campano: langa). 'Ultimo tratto della coda di gatti e cani'. Dal greco ananke 'necessità (di mangiare)', che si ritiene abbia sede in un nervo posto nella coda dei piccoli animali, ai quali viene asportato per evitare loro di diventare troppo voraci. Dalle varianti langa, lanca proviene il denominale allancà(re) (calabrese) 'essere affamato' e l'agg. allancatu (siciliano) 'affamato, famelico' ". Mi domando stupito come si possa credere che tutti questi significati connessi con la radice lang, lank (la quale va a spiegare, oltre al pene della variante logudorese longu, anche le punte delle Langhe in Piemonte nonchè i probabilmente numerosi oronimi del tipo Lang-berg, Langen-berg in area germanica, 'monti lunghi' sì, ma in altezza, cioè semplicemente 'monti, picchi' ) siano potuti svilupparsi da una credenza così singolare da sembrare quasi incredibile. Per me si è di fronte alla solita, ormai quasi tediosa storia, se essa non fosse linguisticamente e culturalmente rivoluzionaria: non è stata la credenza a dare origine a tutto il resto, ma quest'ultimo a generare la credenza con la relativa pratica di asportazione del nervo della coda, parti dell'animale che, come abbiamo visto, si contendevano il termine langa o uno simile! Da ciò emerge un'altra grande verità: le parole di per sè, trovandosi in un contesto adatto, rivelano sempre una naturale vocazione mitopoietica. Il concetto di 'coda' o 'punta', in quanto protuberanza, rientra benissimo nel significato profondo di lang: è chiaro allora che sarà stato l'incrociarsi, nell'ambito di una stessa parlata -anche in periodi immediatamente successivi-, dei due significati attestati di 'coda' e di 'fame', specializzazioni di quello di fondo della radice, a provocare l'immancabile nascita della credenza in questione che, in tal caso, non ci lascia almeno a bocca aperta circa il suo formarsi. La voce (a)nanca, poi, ha tutta l'aria di un incrocio della voce langa 'coda, punta della coda' con il greco ananke (cfr. la trafila la langa>l'ananca>la nanca) di cui si dà, nell'opera citata, il significato di 'necessità (di mangiare)', con un indebito inserimento del significato di 'mangiare' non riscontrabile nella parola greca: esso, non comparendo nemmeno nel termine sottoposto ad incrocio ('ultimo tratto della coda di gatti e cani'), non può allora che essere spiegato come valore aggiunto extralinguistico, ma artificiosamente introdotto nel gr. ananke 'necessità' (il quale d'altronde farebbe solo una fugace e marginale apparizione nella storia), come per divinazione, a causa della credenza di natura superstizosa di cui si parla, al solo fine di far quadrare tutta la supposizione. Come si è visto, però,la credenza recalcitra purtroppo a porsi all'origine di tutta la faccenda senza una motivazione, uno spunto, un suggerimento, perchè anch'essa abbisogna , per svilupparsi in modo naturale, d'un terreno di coltura da cui le proprie radici assorbano sostanze nutritive che, trasportate dalla linfa alle varie componenti della piantina, ergentesi finalmente fiduciosa alla luce del sole, diano contemporaneamente alimento a loro e alla libera, gratuita, magica, sbrigliata fantasiosità autoreferenziale degli eventuali osservatori di questo miracolo della crescita, soprattutto se privi, come quelli vissuti in epoche prescientifiche e superstiziose, di un bagaglio di adeguate e profonde conoscenze che li guidino nel difficile compito di sceverare il molto falso dall'unico vero. Fantasiosità che dà forza e sostegno ad ogni sorta di supposizioni, in specie quelle che si lasciano incantare dalle dicerie correnti e non scorgono la stretta connessione tra i variegati e vigorosi ramoscelli fiori frutti foglie della pianta e la sotterranea incolore essenzialità delle sue radici, le quali, pure, alimentano se stesse e tutte le altre parti della pianta con lo stesso nutrimento tratto dal terreno . Amen.

    Esiste inoltre la possibilità che il lemma (a)nanca, nell'opera citata, sia dovuto solo alla ricostruzione fatta dal rispettivo estensore (Cortelazzo) o, più verosimilmente, agli autori delle opere di riferimento, se egli , elencando la bibliogafia (DEI, ss.vv. allancàre, langa, nanca; Rohlfs 1964), non cita una forma attestata ananca (di cui, però, potrebbe farsi menzione all'interno di queste opere che purtropo non posseggo). Essa sarebbe stata allora fallacemente ricostruita, e tirata in ballo come pezza d'appoggio per l'introduzione del presunto etimo indicato nel gr. ananke 'necessità', dato che la forma sicuramente attestata nanca potrebbe comodamente spiegarsi come normale dissimilazione da un precedente la langa. E per questa stessa via potremmo anche riapprodare ad ananca (nel caso in cui quest'ulima voce ricorresse effettivamente nei dialetti), ma solo come esito finale, e non come punto di partenza, della trafila la langa>la nanga>l'ananca, dato anche il persistere a lungo del greco in aree del meridione.

    Mi scuso con il lettore, ma ho scoperto or ora, nel citato libro Biabbà di Quirino Lucarelli (relativo al dialetto di Trasacco-Aq), il lemma al-lang-an-ìsse 'desiderare ardentemente, morire dalla voglia, desiderare un cibo, farsi venire l'acquolina in bocca', un po' diverso dal citato part. ps. allaccanìte dello stesso dialetto trasaccano, e che puntualmente conferma il mio ragionamento fatto all'inizio, nemmeno per un istante dubbioso sulla necessità di mettere in stretta connessione la radice di abruzz. langhe 'sete ardente, voracità, ecc.', ciociaro langa 'fame', con ingl. to long for 'desiderare ardentemente, bramare' e ted. Ver-lang-en 'brama': la voce trasaccana, in effetti, esplicita sia il significato di 'desiderio' in senso generico sia quello specializzato di 'desiderio di cibo' per la radice in questione.
Si incontra, nello stesso libro sul dialetto trasaccano, anche il lemma lanche 'aridità di gola, stizzosità di gola' già presente nel vocabolario di Domenico Bielli sopra citato.

Con tutti questi riscontri si può senz'altro ritenere certa la presenza, in diversi dialetti centro-meridionali, di una remotissima radice lang per 'fame', 'sete', 'desiderio ardente' ed altro, indipendentemente dal suo incrocio o meno con il gr. ananke' necessità', e strettamente imparentata con note radici dell'area germanica.


[1] Cfr. Mauro Marzolini, “...me ‘nténni?” , Tofani editore, Alatri-Fr 1995, p. 197.

[2] Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.

[3] Cfr. Giovanni Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 43.

domenica 24 ottobre 2010

Il toponimo svizzero "Zwisch-bergen-tal" equivale, anche nel suo significato originario, a quello latino di "Inter-montium"

Sono tornato a riflettere su alcuni nomi di valli ossolane al confine tra la Svizzera e l’Italia nella zona a nord di Domodossola e, appena mi si è svelato quello che ritengo il loro vero volto originario, ho sentito dentro di me una sensazione stupenda, di quelle che aiutano ad allargare i confini dello spirito, non a restringerli.
Uno è il nome della valle Dévero, dove scorre un affluente del Toce, il torrente Dévero, appunto. L’altro è quello della valle Divédro, dove scorre un altro affluente del Toce, il torrente Divéria. Quest’ultimo nome induce a credere che quello della valle Divédro si ritrovi una –d- in più, anche rispetto al nome quasi uguale dell’altra valle, per qualche motivo che ora non percepisco con chiarezza forse di natura paretimologica, a meno che tutti questi toponimi non avessero avuto all’origine la dentale sorda –t-, successivamente sonorizzata e poi completamente scomparsa. Si sarebbe avuto allora probabilmente un nome composto *Divé-tro, ma la sostanza del mio ragionamento, come si vedrà, non cambierebbe. Se si pone attenzione alla continuazione della valle Divédro, al di là del confine svizzero, ci si accorge che uno dei suoi rami prende il nome di Zwisch-bergen-tal, cioè ‘valle (-tal) tra (Zwisch-) monti (-bergen-)’. Ritorna, a mio avviso, il falso cliché del nome della valletta Inter-montium tra le due alture del Palatino, della valle d’ Entre-mont (canton Vallese, Svizzera) e di Unter-berg-tal (Austria), tutte col significato di ‘valle tra monti’. Ma, come sostenevo a proposito di Inter-montium nell’articolo in cui commentavo criticamente la proposta di Massimo Pittau per l’etimo di Roma, non potrebbe esistere nome più banale e, in sostanza, immotivato per una valle che si trova in un’area dove non esistono che monti e dove tutte le altre valli contigue sono nella stessa condizione geografica. Io penso pertanto che la spiegazione di questi nomi vada cercata altrove. Nel Tirolo Orientale si incontra una Virgen-tal 'valle Virgen' che ha tutta l'aria di una variante di Berg-tal, termine quest'ultimo del lessico tedesco col valore di 'valle tra monti': quale altro significato potrebbe avere d'altronde un eventuale composto inizialmente tautologico inserito nel sistema linguistico attuale caratterizzato da composti del tipo determinante/determinato? E, allo stesso modo, non sembra sospetto anche il ted. Berg-werk 'miniera' col suo significato letterale di 'lavoro di montagna' meno accettabile di quello, ad esempio, di 'lavoro di scavo, sotterraneo', data anche la constatazione che le miniere non debbono trovarsi per forza in montagna?
Il ted. zw-ischen ‘tra (due)’, corrispondente all’ingl. be-tw-een ‘tra’, rimanda alla radice dw- (cfr. ted. zwei, ingl.two, lat.duo 'due') che va a combaciare con la radice delle valli in questione (dev-, div-, dv-) la quale, nel nome della valle svizzera è ampliata col suffisso aggettivale –isch e, nel nome delle due valli italiane, è ampliata col suffisso –ero, erio, a meno che non sia da supporre, come ho sospettato più sopra, un originario *Divé-tro. Il nome della valle Zwisch-bergen-tal, prima di ricevere l’ultima componente –tal (valle), ne aveva incontrata un’altra, e cioè berg, parola che oggi significa ‘monte’ ma che in un lontano passato dovette significare anch’essa ‘valle’ come si può presumere da alcuni termini quali il dialettale burg-òn 'vaso grande di legno e di paglia' nella montagna modenese, l'it. burga 'cesto di vimini o di rete metallica che si immerge nell'acqua per conservarvi vivi i pesci', l’it. borchia, it. burchio, l'indiano burqa ' indumento che avvolge il corpo delle donne islamiche e ne nasconde il volto' o lo stesso ted. berg-en ‘salvare, contenere, racchiudere, nascondere, coprire, proteggere’ come conseguenza di un ‘avvolgere’ ricavabile anche dall'ingl. bark 'corteccia' (da cui probabilmente i primi uomini si costruirono le prime barchette), dall’it. barca la quale, in quanto ‘cavità’, deve essere legata specularmente all’altro significato di ‘monte, cumulo’ che la parola, specie in toponomastica, assume. Da notare, poi, un’identica relazione tra il significato di lombardo munt ‘baita’ (in qualche modo una ‘cavità, un ambiente chiuso’) e di it. monte. Secondo questa linea interpretativa anche il ted. Berg-hohle 'caverna di montagna' non ce la racconta giusta sulle sue origini che parlano in realtà di una sola idea di 'caverna' espressa dalle due componenti, come del resto i ted. Berg-schlucht 'burrone, gola (di monte)', e Berg-stollen 'galleria, filone (di miniera)', visto che i due termini Schlucht e Stollen già da soli significano rispettivamente 'burrone, gola' e 'galleria (di miniera)': si farà osservare che spesso la lingua è illogica, ma per questi casi io preferisco additare la illogicità della ripetizione tautologica dello stesso significato nei due membri così evidente in diversi composti germanici come ted. Giebel-zinne 'pinnacolo', ted. Gockel-hahn 'gallo', ted. Senke-grube 'pozzo nero', ecc. Del resto l'ingl. to bury 'seppellire' e l'ingl. burrow 'tana, galleria, passaggio', riconducibili alla stessa radice di ted. bergen 'nascondere, proteggere' o a varianti, la dicono lunga sul valore ambivalente (monte/cavità) di ted. Berg in questi composti. Tra l'altro, nel vocabolario italiano ed inglese di Giuseppe Baretti (1831), bury significa anche 'dimora, abitazione' in quanto 'cavità', credo. A Rovereto-Tn bark indica sia il 'monte' che la 'cascina, stalla'. Non è un caso che l'it. parco, a mio avviso variante della radice in questione, si faccia risalire a base prelatina col significato di 'recinto', concetto derivabile da quello di 'cavità, rotondità'. Pertanto a me sembra che grave tabe della linguistica tradizionale sia la sua tendenza a separare i concetti gli uni dagli altri, più che a riannodarli insieme allargandone il campo semantico, anche quando, come nel caso della radice *barca, *barga (che interessa vaste zone europee per il significato di fondo di 'recinto di bestiame' , di 'dimora rustica', di 'monte, mucchio, cumulo' o di 'cavità'), è a mio avviso evidente la loro matrice comune. La radice dev- di cui sopra, per il probabile significato di ‘valle’, va accostata forse all’ingl. deep ‘profondo’, ingl. dive ‘immersione, tuffo’. Essa parrebbe vivere persino a Magliano dei Marsi-Aq nel vallone di Teve, sebbene con la dentale sorda.
Le componenti in-ter, un-ter dei nomi delle valli sopra nominate sono, secondo me, varianti che esprimono il concetto di ‘movimento verso l’interno o verso il basso’, utilizzato da parlate preistoriche per esprimere anche il concetto di ‘valle’ o di ‘cavità’, come in questi toponimi sostanzialmente tautologici nelle due componenti.
Anche il concetto di ‘gola, passo’, che ho creduto di vedere, nell’articolo precedente sull'etimo di tramontare, sotto toponimi come Tre-monti o Tra-monti , deve essere a mio avviso accostato a questo di ‘valle, cavità’.

martedì 19 ottobre 2010

Etimo di it."tramontare", spagn. "tramontar"

Nel suo ultimo libro Il mare in un imbuto Gian Luigi Beccaria, l’illustre linguista, a proposito della illogicità di molte parole della lingua riporta il caso di una signora «di spirito, ma di proposte bislacche» la quale così gli scrive:«Io vivo al mare, non ho davanti a me le montagne, allora mi dica come mai il sole quando scompare all’orizzonte deve proprio tramontare; io penso che quando scompare in un orizzonte marino, tramara».
Riflettendo su queste illogicità a me pare che il problema che esse pongono non possa essere sempre risolto con facilità. In questo caso si penserà che il verbo "tramontare" sia nato in località circondate ad occidente da monti o colline dietro le quali il sole va a ‘coricarsi’, e che poi esso si sia diffuso dappertutto; ma lì dove, verso occidente, si estendeva il mare, il termine avrebbe trovato qualche difficoltà ad affermarsi anche perchè in quei luoghi era probabile che si usassero verbi come ‘cadere’, ‘calare’, ‘coricarsi’, ‘immergersi’ ecc. che non producevano nessuna discrasia con il fenomeno da rappresentare. In effetti non è così piano, a mio avviso, che questo verbo debba intendersi come un ‘(andare) oltre i monti’ perchè in Abruzzo esistono voci come trabballà, travallà, sballà (cfr. il Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 2004), tutte col significato di ‘tramontare’ che potrebbero indurre a credere che il significato originario fosse stato quello di ‘(andare) oltre la valle’. E allora come la mettiamo? La voce trabballà, forse anche per influsso dell’it. traballare, significa anche ‘dondolarsi, dimenare la persona’. Sballà o sballì nel mio paese significava ‘scomparire’, detto di persona che, camminando lungo una strada, ad un certo punto usciva fuori del campo visivo perchè magari aveva imboccato una curva o si era talmente allontanato da non essere più visibile.
Io non so se, per l’it. ballare sia corretto richiamare il gr. bállein ‘gettare, scuotere’, come solitamente si fa, o se non sia da preferire il ted. wallen ‘ondeggiare, fluttuare’, ted. Waller ‘pellegrino’. Quest’ultima voce ci fa capire, infatti, che il significato originario della radice wall- doveva pendere per quello di ‘muoversi, andare, camminare’, significato che andrebbe a pennello per quello di ‘tramontare’ nel senso di ‘sparire, perdersi, andare (oltre il campo visivo)’ o semplicemente in quello di ‘andare’, considerando il prefisso tra-, non derivante direttamente dal lat. trans ‘oltre, attraverso’, ma come componente di un verbo tautologico prelatino il cui significato doveva essere ‘penetrare, entrare’ e quindi ‘immergersi, tramontare’ come nel gr. dú-ein ‘penetrare, immergersi, tramontare’: ora, mi sembra evidente che qui l’ immergersi non debba alludere per forza al mare nel quale, in località ad esso prossime, sembra tuffarsi il sole al tramonto, ma che possa essere inteso nel senso di ‘calare, sprofondare (sotto la linea dell’orizzonte, indipendentemente dalla presenza di monti o mari)’ e simili.
Tornando ora al nostro tra-montare, penso che anche in questo caso si debba riportare la voce alla preistoria in cui essa, lontana dai significati attuali specializzati delle sue due componenti che ci parlano di ‘monti oltrepassati’, poteva trarre linfa vitale dalla sua radice abbastanza attiva in latino col significato fondamentale di ‘sporgersi’ (cfr. lat. e-min-ere ’sporgere, sovrastare; lat. in-min-ere ‘pendere sopra, sovrastare’, pro-min-ere ‘sporgere, procedere, avanzare’), molto vicino ad un ‘tendere, spingersi, sprofondare (sotto la linea dell’orizzonte)’. Il lat. trans-min-ere 'trapassare' sembra pronto a partorire un clone del tipo *tra-mont-are come pro-min-ere 'sporgere avanti, su' ha prodotto pro-mont-orium, pro-munt-urium 'promontorio'.
Se poi si riflette sul significato di gr. dia-ball-ein che, in senso assoluto, vale 'passare' dovremmo capire che tra questa radice del verbo ball-ein 'gettare' e quella di ted. Wall-er 'pellegrino' potrebbe forse non esserci differenza alcuna. E c'è da scommettere che i molti Passi del Diavolo e Ponti del Diavolo in toponomastica siano da riportare ad un termine con questo significato di 'passaggio', non immediatamente visibile però nel gr. dia-bolos 'calunniatore' che pur appartiene alla stessa famiglia.
Singolare poi mi sembra il ricorrere del toponimo Tre-monti (con varianti) che indica paesi presso gole o passaggi, o semplicemente gole, come Gole Tremonti (ma anche Tramonte) vicino Popoli-Pe, Gole di Tramonti, vicino Maiori-Sa, Gole di Tremonti nel Cilento, Valico Tre Monti presso Brisighella-Ra . Si deve aggiungere anche il paesino di Tremonti di Tagliacozzo-Aq, vicino ad un antico passo montano. L'idea di "gola" è molto simile a quella di "passaggio", e così si ritorna al movimento insito nel verbo tramontare. Le Gole Tremonti presso Popoli-Pe, mettendo in comunicazione due zone climatiche diverse, sono spesso percorse da correnti d'aria. Curioso il detto, riportato dal vocabolario del Bielli, Quande Tramònte sta senza vénte, lu diavele sta senza dénte. A mio parere il diavolo qui viene tratto in ballo, non perchè parto della libera e sbrigliata fantasia popolare, ma perchè in epoca imprecisata della preistoria esso doveva essere stato, come ho supposto più sopra per questo termine, l'appellativo geografico delle gole (accompagnante il nome proprio Tramonte ). E sarà rimasto in uso fino a quando non è stato costretto a cedere le armi al lat. gula(m) 'gola'.
Anche l'abruzzese tra-bballà, tra-vallà credo che non debba essere lasciato tutto solo. Se esso significa anche 'dondolarsi, dimenare la persona' , in sostanza un 'agitarsi, muoversi', non sarebbe un delitto accostarlo al fr. tra-vail 'lavoro, fatica,tormento' nonchè all'ingl. to tra-vel 'viaggiare, muoversi, spostarsi, passare, dial. andare a piedi (cfr. il sopra citato ted. Wall-er 'pellegrino)'. Dimenticavo di far notare che, sempre nel Vocabolario Abruzzese di cui sopra, la voce trabballe presenta i significati di 'tratto, crollo. Tracollo della bilancia' facendo così capire che il concetto di 'tramontare', assunto dai relativi verbi abruzzesi, scaturisce direttamente dal concetto di 'crollare, precipitare, cadere, abbassarsi' ricavabile agevolissimamente dalla voce suddetta.

venerdì 8 ottobre 2010

Considerare, desiderare, assiderare

L’etimologia che va per la maggiore per questi verbi è incentrata sulla parola latina sidus ‘stella, costellazione, stagione’ d’origine sconosciuta. A favore di questa interpretazione milita il fatto che i latini (e non solo) erano soliti osservare le stelle a scopi augurali perchè da esse sarebbero venuti influssi vari che determinavano il destino di ogni uomo e il decorso degli eventi. E questa credenza è arrivata fino a noi se è vero che ancora oggi diciamo, ad esempio, che uno è nato sotto una buona o cattiva stella e che molti sono quelli che consultano gli oroscopi che giornali o trasmissioni televisive ci offrono in abbondanza.
Date le difficoltà che a mio avviso si presentano nel riportare al concetto di ‘stella’ il significato di questi verbi, come vedremo più sotto, io penso che il problema fondamentale sia quello di appurare in qualche modo l’etimo di lat. sidus nel cui ambito potremmo trovare un significato più naturale e adatto a spiegare i valori dei tre verbi. In altri termini io sono convinto che questi valori non debbano essere visti in connessione col significato storico di sidus ‘stella’ ma con quello della sua purtroppo ignota etimologia.
Il lat.con-sider-are ‘osservare bene, considerare, ponderare’ sarebbe composto dalla radice –sider- di lat. sidus, gen.sider-is ‘stella, costellazione’ preceduto dal prefisso intensivo con-. Il suo significato, però, non corrisponde, ad esempio, a quello del termine latino con-stell-atione(m) ‘posizione degli astri’ di simile struttura, e si presume, ma non so con quanta veridicità, che il suo significato originario sia stato quello di ‘osservare le stelle’ in base, appunto, alla pratica dell’osservazione di esse ad uso augurale o semplicemente astronomico, ma se così fosse ci sarebbe un’intrusione del concetto di ‘osservare, guardare’ non facilmente giustificabile: il concetto di ‘stella’ dovrebbe a mio avviso comportare naturalmente quello di ‘brillare’ o anche quello di it. co-stell-are ‘diffondere, disseminare (come se si trattasse di stelle sparse nel cielo)’. Gli aggettivi latini stell-ante(m) ’stellato, scintillante’ e stell-atu(m) ‘stellato, fulgente’ possono far supporre l’esistenza di un verbo, inusitato in latino, come *stell-are dal medesimo significato fondamentale: come si vede, però, non si va oltre l’idea della ‘luce’ o, al massimo, della ‘forma’ o 'disposizione' delle stelle.
Il lat. de-sider-are ‘desiderare, sentire la mancanza’, poi, costringe gli etimologi a contorsionismi notevoli nel tentativo di spiegarlo facendo perno sul significato di ‘stella’. C’è chi dà al prefisso de- un valore intensivo ottenendo un significato del verbo simile a quello di con-sider-are, nel senso di ‘guardare attentamente (o cupidamente) le stelle e, quindi, ‘fissare cupidamente qualcosa, bramare’, e c’è chi dà ad esso un valore di allontanamento, distacco, ottenendo il significato di ‘cessare di osservare le stelle a scopo augurale’ e, quindi, trovarsi nella condizione di chi non può fare altro che ‘desiderare, bramare’ qualcosa di cui si sente la mancanza. Sinceramente il significato qui mi sembra tirato proprio con le tenaglie, oltre a riproporre l’indebita intrusione del concetto di ‘guardare, fissare’. Perchè, poi, si cesserebbe di guardare le stelle? per mancanza talora di segni augurali, per cui si resterebbe a bocca asciutta a desiderare i preavvertimenti, i presagi, gli omina riguardanti il fatto, l’oggetto agognato? e da questa condizione piuttosto insolita si sarebbe prontamente forgiato il verbo in questione? Ma per carità!!! Più che a sobrio e serio lavoro etimologico qui si dà vita ad un’orgia, starei per dire, di ipotesi che nulla hanno a che fare con un approccio realistico al problema. Intendiamoci, supposizioni si possono e si debbono fare, ma che siano semplici, dirette, non pletoriche, tortuose, altamente improbabili. O forse bisogna dar retta alla proposta del filosofo Umberto Galimberti che, come riferisce qualcuno in internet, presume di trovare l’etimo della parola da un passo del De bello Gallico di Cesare in cui, dopo una giornata di battaglia, i soldati che si attardavano la notte sotto le stelle ad attendere il ritorno dei compagni dispersi, vengono chiamati desiderantes? A mio parere saremo condannati in eterno a rigirarci in preda alle smanie nel letto dei pii desideri, se non troviamo una strada diversa da quella incentrata sul termine latino sidus col suo significato di 'stella'.
Ed ora passiamo al verbo italiano as-sider-are, as-sider-arsi, che è fatto derivare da un latino parlato *ad-sider-are: le stelle, con i loro influssi malefici emessi durante una notte serena e gelida, riappaiono anche qui. Qualcuno pensa al significato di ‘stagione’ che talora sidus assume, e in particolare alla ‘stagione fredda’ che fa intirizzire le membra fino a causare la morte del corpo, se non si corre ai ripari. Ma, anche così, non ci spostiamo di un millimetro dall’ombra uggiosa della fatidica e funesta parola: sidus!
Con questa fissazione in testa potremmo scoprire lo stesso rapporto con le stelle anche nel termine tedesco er-starr-en ‘irrigidirsi, intirizzirsi, far gelare, rendere rigido’ se lo si accostasse all’ingl. star ‘stella’, ted. Stern ‘stella’. Ma in realtà esso richiama una radice molto diffusa, in varie gradazioni apofoniche, come nel ted. starr ’rigido’, ted. stier ‘fisso, immobile (dello sguardo)’, ted. stur ‘rigido, fisso, ostinato’, ingl. to stare ‘guardare fisso’, gr. stereós ‘solido, rigido, fermo’ . Se si vuole, anche l’ingl. to starve ‘morire di fame o (arcaico) freddo’, il ted. sterben ‘morire’ avrebbero potuto suscitare l’idea di una dipendenza, non dalla radice precedente, ma dagli influssi maligni delle stelle, data la coincidenza in queste lingue germaniche delle radici per ‘stella’ e per ‘rigidità’. Il fatto che in latino non si incontrano radici per ‘rigidità’ simili a quella di sidus, gen. sideris ‘stella’ non può essere considerato una prova che la radice dei tre verbi in epigrafe debba essere necessariamente la stessa di quella sconosciuta di sidus,col significato di ‘stella’. Non è una cosa affatto rara che alcune radici sopravvivano solo in alcuni termini tra tutti quelli che si potevano incontrare in una fase precedente della lingua.
A questo punto, a mio parere, conviene spiegare perchè si hanno queste coincidenze fra i due concetti di ‘rigidezza’ e di ‘stella’, apparentemente estranei l’uno all’altro. La stella agli occhi dell’uomo preistorico non può essere apparsa che come una luce, una fiammella tremolante nell’oscurità della notte, attingendo così al concetto primordiale di 'forza, emanazione, tensione' e venendo a coincidere col concetto di 'forza, tensione' che sta dietro a quello di rigidità. I termini lat. stella (da precedente *stelna ‘stella’), ted. Stern ‘stella’, ingl. star ‘stella’ si possono ricondurre ad una radice indoeuropea ster ‘spargere’, concetto affine a quello di ‘stendere, tendere’. Sicchè si può fare riferimento anche al lat. stern-ere ‘stendere, spargere, spianare, ecc.’ anche perchè io non condivido l’opinione comune che le forme Stern, star, stella siano derivate dal gr. (a)-ster ‘astro, stella’ mediante caduta della presunta vocale prostetica –a-. Si incontrano in greco termini come tér-as ‘astro, stella’, teírea da teír-e(s)a ‘astri’ che fanno pensare a termini formati attraverso l'inversione delle due componenti di as-ter: la –a- iniziale della parola non sarebbe così una comoda vocale prostetica, ma parte integrante di una radice as,os, us col valore di ‘luce, fuoco’ di cui si hanno diversi riscontri. L’altra componente –ter credo possa essere accostata,ad esempio, al lat. torr-ere ’essere ardente’ e al nome della dea buddista Tara dal significato di ‘stella’.
Se ora riflettiamo un po’ sulla radice sopra citata ster ‘spargere’ comparandola con quella di sidus, gen. sider-is ci accorgiamo che basta spostare l’accento di questa parola dalla terzultima alla penultima per ottenere un termine molto simile a ted. Stern ‘stella’, con caduta della vocale –i- protonica, e cioè s(i)dèr il quale, subendo il normale assordimento della dentale sonora –d- darebbe in germanico esattamente la forma ster, variante di ingl. star ‘stella’ e di sscr. strī ‘spargere’: il che mi fa concludere che la presunta oscurità dell’etimo della radice di lat. sidus 'stella’ è dovuta alla nostra insufficiente perspicacia che ci impedisce di scorgere in Stern una semplice variante di sidus, gen. sideris da non collegare con gr. as-tér. Il rotacismo del gen. sider-is rispetto al nomin. sidus non è dovuto, come ho sostenuto altrove per altri casi, ad un fenomeno di trasformazione ma di sostituzione di forme diverse preesistenti.
Una volta convinti di quanto sopra, diventa estremamente semplice interpretare i verbi in epigrafe come derivanti dalla radice –sider- con valore di ‘tensione, estensione, spargimento, ecc.’. In effetti il con-sider-are può essere letto come un ‘rivolgere l'attenzione, l’intenzione a qualcosa’, il de-sider-are si chiarirebbe come un ‘tendere verso qualcosa, bramarla’ o come ‘studiarla, esaminarla, ricercarla (significato attestato nei classici, che richiama in sostanza il precedente considerare)’ con il prefisso de- probabilmente intensivo, senza tutti quei contorcimenti mentali di cui abbiamo parlato sopra, e infine l’as-sider-are, as-sider-arsi dal lat.*ad-sider-are si configurerebbe semplicemente come un ‘tendersi, irrigidirsi’ tipico del rigor mortis, che interviene dopo il decesso, in specie quello causato dal freddo.
Per approfondire un po’ il discorso mi pare si possa sostenere che la radice sider potrebbe essere intesa come ampliamento della più nota radice diffusa in area indoeuropea di lat. sid-ere ‘porsi a sedere’ e lat. sed-ere ‘star seduto’, radice che all’origine doveva contenere il significato di ‘spingere, tendere, muoversi’: quanto a ‘sedere’, il movimento è diretto verso il basso. Dico questo perchè in inglese il verbo to set ‘porre, stabilire, ecc.’, che fa parte della famiglia dei precedenti verbi latini, rivela nella sua natura profonda il significato di ‘muoversi, dirigersi’ come nella frase the current sets to the north ‘la corrente si dirige verso nord’ ,e anche il significato di ‘diventare rigido, rappreso, denso’ in cui riappare quella ‘tensione’ che può in concreto tramutarsi in ‘irrigidimento,assideramento’, come abbiamo visto sopra per sider. L’it. sido (lat. sidus) ‘freddo intenso, ghiaccio’ richiama la rigidità dell’assideramento come d’altronde il lat. sideratione(m) che indica un colpo apoplettico o qualsiasi paralisi improvvisa di uomini piante e animali con un irrigidimento di organi diversi o una bruciatura di rami, foglie che indurisce la parte colpita.
L’it. strazio, con la sua pronuncia tenue della –z-, potrebbe essere l’esito di lat. s(i)d(e)ratio, nomin. del precedente sideratione(m), con la caduta delle vocali protoniche. Il lat. (di)stractio ‘tirare da una parte e dall’altra’, da cui si fa derivare il termine, avrebbe dovuto produrre una pronuncia intensa della –z- come nell’it. distrazione con la -z- pronunciata come doppia.
Anche il greco può aiutarci a definire il senso della radice in questione con l’espressione pindarica sidaro-khármas (P.2,2) usata in riferimento ad un cavallo ‘esultante (-khármas) nella (o della) armatura (sidaro-)’ secondo il vocabolario del Rocci, ‘combattente col ferro’ secondo quello di Gemoll. La stessa incertezza della interpretazione ci dice che si tratta di locuzione molto antica che va intesa, a mio parere, col metodo da me elaborato della ripetizione tautologica. I due membri del composto hanno lo stesso significato e pertanto, siccome quello di khármas è noto, sidaro- (var. dorica di sidero-) non farebbe che ripeterlo. Si tratterebbe quindi di cavallo ‘esultante’ cioè ‘generoso, battagliero, focoso’. In questo caso sidero- sarebbe da avvicinare alla radice su menzionata di sidus, gen. sideris ‘stella’ ed esprimerebbe in pieno tutta la ‘tensione’, la ‘forza’, il ‘fuoco’ di cui è carica anche in latino, come abbiamo visto.
Anche l’espressione omerica (Il. XXIII, 177) relativa al ‘fuoco’ appiccato da Agamennone alla pira di Patroclo, e cioè en dè purós ménos êke sidéreon ‘e poi appiccò il fuoco, violento, indomabile’ ci aiuta a chiarire meglio la questione. Letteralmente l'espressione suona ‘appiccò la forza, furia (ménos) ferrea (sidéreon) del fuoco (purós)'. E’ chiaro che sidéreon va inteso metaforicamente come ‘duro, crudele, indomabile’ ma, anche così, resterebbe sempre in bocca il retrogusto di un paragone infelice, in cui la mobile e vivace forza del fuoco viene definita con un aggettivo relativo ad un metallo solido e duro. A me pertanto non dispiacerebbe vedere in filigrana ancora operante in questo termine la sua forza o vivace mobilità primigenia non ancora concretizzatasi nell’inerte, rigido e pesante metallo.

venerdì 17 settembre 2010

Fonte "Cantu Riu" di Sant'Anatolia-Ri ed altre fonti

Sarebbe l’unica fonte del paese, abbondante d’acqua, come apprendo da un sito internet, anche se non molto lontano dall’abitato dovevano sgorgare altre rigogliose sorgenti ora captate da un acquedotto. Questo idronimo è abbastanza curioso e perciò interessante: sembra derivare il nome da quello della vallata che dal paese raggiunge il fiume Salto e nella quale andava a perdersi l’acqua della fonte. Gli abitanti del luogo cercano di interpretare il nome dandone inevitabilmente spiegazioni banali come (valle) accanto al rio, non si capisce bene se in riferimento a questo rigagnolo o alla corrente del fiume Salto.
A me sembra evidente che la designazione dovette riferirsi, all’origine, alla copiosa fontana e al rigagnolo da essa formato per passare successivamente ad indicare tutta la zona circostante, come spesso avviene. Ma, non deve nemmeno ingannarci il valore di ‘ruscello’ che oggi siamo soliti dare alla parola rio. In epoche preistoriche esso poteva indicare, a quanto pare, qualsiasi corso d’acqua e quindi anche quello costituito da una sorgente: in altri termini la parola poteva essere benissimo un sinonimo di 'fonte, sorgente' come del resto attesta la Fonte Rio nel non lontano paese di Antrosano-Aq. ma poteva servire anche ad indicare un ‘fiume’ vero e proprio come nello spagnolo rio. In toponomastica sono frequenti queste inversioni dei significati dei nomi come nel caso della fonte del territorio di Aielli-Aq, presso il Fucino, chiamata Fiumë ‘Natolia di cui ho parlato altrove e il cui etimo è da ricondurre al gr. ana-tolé ‘sorgente’, che avrà quindi dato il nome anche al paese di Sant’Anatolia. D’altronde il significato etimologico di lat. flu-men ‘fiume’, come quello di lat. ri-vu(m) ‘ruscello’ indica solo l’azione del ‘fluire, scorrere’ senza specificare se si tratta dell’acqua di un ‘fiume’, di un ‘rigagnolo’ o di una ‘fonte’. Il che mi fa sospettare che queste parole che consideriamo derivate dal latino siano in realtà appartenute, magari anche nella preistoria, a parlate italiche che ne avevano elaborato un significato diverso da quello latino, pur partendo dal significato di base di ‘scorrere’. E’ interessante ricordare che nel mio paese di Aielli correva in passato nella bocca delle persone anziane una storiella secondo la quale una certa donna chiamata ‘Natolia (Anatolia) perse un oggetto, nelle risorgive chiamate Surièndë (Sorgenti) a qualche chilometro a nord del paese, e lo ritrovò appunto presso la fonte Fiume ‘Natolia a 7-8 km di distanza, nel piano adiacente all’alveo dell’ex lago Fucino. Era pertanto credenza diffusa che sotto il paese, a partire dalle Surièndë, scorresse un fiume le cui acque riaffioravano nella fonte Fiume ‘Natolia. Questa storiella direi che sia da manuale perchè, come si può agevolmente notare, essa risulta imbastita tutta con le parole dei toponimi sopra citati. E’ infatti evidente che la connessione tra il nome della donna e quello della fonte omonima nonchè quella tra le due ‘fonti’ o ‘sorgenti’ ad essa collegate si basa tutta, oltre che sulla coincidenza dei significanti, anche su quella del loro significato etimologico di ‘fonte, sorgente’, significato che doveva essere noto a coloro i quali, in epoche antichissime, diedero l’avvio a questo aneddoto. Si direbbe che la fantasia, cui troppo facilmente si ricorre in casi simili per spiegare fatti e nomi altrimenti incomprensibili, c’entri ben poco, perchè essa direi che si limiti a prendere atto della realtà linguistico-toponomastica esistente e ad elaborarne, anche se nei modi inverosimili propri del mito, racconti che erano già tutti in nuce inscritti in essa. Sono pertanto fermamente convinto che, come che siano le letture a volte complesse che dei miti danno gli studiosi, essi, i miti, si alimentano comunque sempre delle parole che si trascinano dietro dalla notte dei tempi e che si prestano, proprio per questo, a continue reinterpretazioni e rietimologizzazioni che allargano il tessuto dei relativi racconti, col susseguirsi nel tempo e nello spazio dei codici linguistici con cui via via i toponimi e i miti connessi vengono riletti, riveduti, ristrutturati o ampliati. Qualcosa di simile sosteneva Max Müller, grande filologo e filosofo tedesco dell’Ottocento, a proposito dei miti che sarebbero stati prodotti da una sorta di malattia del linguaggio contrariamente a quanto ha sostenuto, successivamente, il linguista britannico John Ronald Tolkien il quale riserva un ruolo importantissimo proprio alla fantasia.
Un’altra difficoltà l’idronimo la presenta nell’ordine delle parole che lo compongono: l’ordine normale, secondo lo schema solito dei toponimi, dovrebbe essere dato dall’appellativo generico (riu) seguito dal nome proprio (Cantu). Ora, qui i casi possono essere diversi: può darsi che l’idronimo dialettale mantenga la libertà che si poteva avere in latino circa la disposizione del nome proprio e quello generico dell’appellativo geografico, oppure bisogna supporre che per lunga pezza e prima dell’arrivo del latino in loco, la parlata italica di Sant’Anatolia avesse avuto come nome comune per ‘fonte’ la parola cantu e che Riu fosse il nome proprio della fonte in questione di cui magari non si conosceva il significato nè tanto meno l’etimo. Un’altra possibilità è data dalla fusione già ab antiquo di due termini tautologici per ‘fonte’ in uno, con la produzione di un idronimo divenuto probabilmente opaco (per buona parte delle generazioni susseguitesi nel paese) come Canturiu o simili, reinterpretato successivamente come Cantu riu dall’etimologia popolare la quale, come è noto, è un tentativo ingenuo di riappropriarsi del significato etimologico delle parole..
Dopo aver scritto quanto sopra sono andato a cercare con Google qualche nome simile di fonte e grande è stata la mia sorpresa quando mi è apparso il nome di un ristorante di Borgorose, paese vicino a Sant’Anatolia, che suona Fonte Canteri, nome di una fonte nei pressi. Probabilmente l’accento tonico della parola cadrà sulla terzultima sillaba, ma se anche cadesse sulla penultima, non potrebbe minimamente scalfire l’evidenza che il nome della fonte Cantu Riu, che voleva darci filo da torcere, è una chiara reinterpretazione di un precedente Canturi oppure Canteri, probabilmente già diventato Cantum ri(v)u-m oppure Cantem ri(v)u-m, nelle rispettive forme latine.
A questo punto mi sembra utile ricordare che qántaru o cantaru è un appellativo sardo per ‘fonte’ e quindi è lecito supporre che il termine abbia avuto a che fare, in epoche lontanissime, con i nostri idronimi che, come gli altri, riportano quasi sempre al concetto di ‘acqua’. Termino citando il bel nome della fonte Nembe di Torano, paese vicino a quelli nominati precedentemente, che suscita nella mia mente assetata vanamente di bellezza antica, in questo scorcio afoso d’agosto, la visione della ninfa divina che ne dovette abitare le acque gorgoglianti vivificandole con la sua voce fresca e argentina, presso le quali gaie giovinette della campagna circostante, cinte di ghirlande di fiori ed erbe, mescolarono forse d’estate baci alle promesse d’amore fatte ai loro innamorati nel movimento in tondo della danza. Mi pare chiaro, infatti, come l’acqua più chiara del più chiaro fonte che l’idronimo Nembe è l’esatta resa nostrana del gr. nýmphē, normalmente ‘ninfa, giovane, sposa’ ma talora anche ‘acqua’ da cui il lat. lympha ‘acqua’. Per il passaggio da *Nymbe a Nembe si tenga presente l’it. nembo dal lat. nimbu(m), il dialettale lengua dal lat. lingua(m) ‘lingua’. La labiale aspirata -ph-, mutata in italiano in spirante sorda –f-, nei nostri dialetti arcaici seguiva la sorte di quest’ultima che si trasformava in labiale sonora –b- quando era preceduta da una nasale –m- oppure –n-, come in cumbëssórë per ‘confessore’, ad esempio. L’area linguistica in cui rientrano i paesi di cui sopra è quella sabina che è alquanto diversa da quella marsicana fucense la quale rientra in gran parte nell’area sannitica soprattutto per il trattamento delle vocali finali atone che tendono a ridursi a vocale indistinta, come del resto anche le altre se non accentate, ma il fenomeno della resa in labiale sonora della spirante sorda, in quella condizione, dovrebbe essere identico nelle due aree.
La martire cristiana santa Ninfa, il cui culto è diffuso soprattutto in Sicilia, naturalmente non può non compiere, dato il significato originario del nome, il miracolo della pioggia ristoratrice di piante, uomini ed animali dopo un periodo di siccità, secondo la tradizione. Come si vede, dalle mie considerazioni si desume un gioco ad incastro perfetto; il quadro che ne risulta non può essere dovuto al caso nè, tanto meno, ad arzigogolamenti improbabili come forse continuano a pensare gli studiosi del settore, data la linearità, la semplicità e l’eleganza (sia detto senza ombra di iattanza ed autoincensamento) delle soluzioni proposte.
Ho pubblicato quest’articolo nel giornale Terre Marsicane presente in rete, e una gentile lettrice mi ha fatto notare che in realtà la fonte Cantu Riu è senza nome proprio, essendo essa chiamata Fonte Abballe (fonte di sotto) rispetto ad altra fonte chiamata Fonte Ammonte (Fonte di sopra). La designazione Cantu Riu sarebbe poco esatta in quanto derivata dall'espressione ‘N cantu riu (accanto al rio), contrada situata ai lati del rigagnolo generato dalla fonte . In base a queste notizie mi pare si possa sostenere che le due fonti senza nome proprio in realtà in antico lo dovevano avere ma probabilmente da un lato Fonte Ammonte lo avrà ceduto al relativo centro abitato sorto nei dintorni (Anatolia), dall’altro la Fonte Abballe potrebbe averlo ceduto alla contrada ‘Ncantu Riu (accanto al rio), nome derivato per etimologia popolare da un originario idronimo Cantu-ri o simile, di cui si è parlato sopra.
Un altro lettore mi ha informato che l’idronimo Cantero è molto diffuso nei paesi di Borgorose, Pescorocchiano, e in tutta la dorsale appenninica, confermando così la mia supposizione. E’ a mio avviso da scartare la proposta del lettore di accostare quest’idronimo al greco kántharos ‘cantaro’, recipiente a due manici per contenere magari l’acqua. Non vedo alcuna difficoltà a tirare in ballo, come ho fatto sopra, il sardo qántaro ‘fonte, sorgente’.