martedì 24 novembre 2009

Vecus Eidus (Eidius, Eidium, Eidianus, Eidianellus?)

La dedica ad Ercole (Hercolo), del II-I sec. a. Ch., rinvenuta in località Santa Monica a Cerchio presuppone la presenza di un tempio, dato anche il ritrovamento di 109 monete, due delle quali d’argento, in quello che doveva essere il thesaurus in pietra squadrata del santuario. Il nome del Vecus (lat.Vicus) Eidus (nell’epigrafe compare il genitivo Veci Eidi, nome, quest'ultimo, che potrebbe però essere anche l’abbreviazione di *Eidiani, l’aggettivo etnico derivato da una base Eidius, forse in epoca più remota Eidus), il centro abitato dei due magistri realizzatori del donario, con moltissima probabilità deve avere a che fare col toponimo Vëcènna relativo alla abbastanza vasta zona a sud del Cimitero di Aielli confinante, al suo lato sud-est, con la suddetta località Santa Monica. Si tratta di contrade in cui è facile notare in superficie frantumi minutissimi ma numerosi di materiale laterizio, come nell’attigua località Fontillara, sicuro indizio della presenza di un agglomerato o di diversi agglomerati di una certa grandezza in antico. La forma vecus, comparente anche in altre epigrafi della Marsica, sta al posto di lat. vicus.
Il nome del vicus, man mano che dal latino parlato (già diverso da quello di Roma) si passò a quello che sarebbe stato il nostro dialetto, dovette suonare dapprima come Vëk(ë)-èidë o Vëk(e)-èdë, secondo norme linguistiche assodate, riscontrabili anche nelle attuali parlate che riducono al suono indistinto schwa (in altri termini alla e muta) vocali finali di parola e molte di quelle non accentate . Nel dialetto di Celano è muta anche la -a finale di parola. In un secondo momento, quando ormai l’agglomerato non esisteva più e se ne era persa magari anche la memoria, il probabile toponimo Vëk-èidë, unico resto dell’antico vicus, trasformatosi nel frattempo in un Vëcèidë (con intervenuta pronuncia palatale della velare) di significato oscuro alle orecchie della gente o, semmai, assonante con la radice di vicem ‘vece, vicenda’ o di un suo derivato, dovette incrociarsi – cosa che avviene normalmente in linguistica, in virtù della cosiddetta etimologia popolare - con altro termine dialettale dalla medesima radice di vicem (vice, vicenda) ma di chiaro significato, cioè vëcènna ‘vicenda, rotazione agraria’ (lat. parlato *vicenda , plur. neutro -passato poi in italiano a femminile singolare- che presuppone un sing. *vicendum, dial. *vëcèndë) e ne assunse, senza tentennamenti, i connotati che gli calzavano del resto a pennello, perché magari nel frattempo il suolo dell’antichissimo vicus era tornato ad essere pascolo per le pecore o terreno per l’aratore come è avvenuto fino a qualche decennio fa. Vëcèndë è passato successivamente a Vëcènnë e poi a Vëcènna, con normale assimilazione progressiva della dentale sonora d alla nasale precedente n.
Ma, cosa molto più interessante, nell’area della suddetta località Vëcènna si trovava nel medioevo un Casale con la chiesa di Sancti Johannis in Ozzanello, come dice il Di Pietro, luogo ricco di acqua. Nel nostro dialetto la località suona solo Sandë Jannë. La specificazione Ozzan-ello potrebbe molto probabilmente derivare dall’eventuale etnico del vicus Eidius, cioè *Eidianus che avrebbe dato *Eizzàno oppure Ezzàno, Izzàno fino ad arrivare ad Ozzan-ello, con la chiusura in suono indistinto della vocale E oppure I protonica successivamente reinterpretata come U oppure O . Ma anche il nome del santo cristiano Johannes potrebbe essere, in questo caso, il camuffamento di un originario Sant’ Eidiano, Sant’Idiano divenuto Santë Dianë e poi san Dianë , attraverso il distacco della I di I-diano, nel frattempo divenuta vocale indistinta a causa dell’accento tonico sulla sillaba seguente, e sua agglutinazione col Sant’ precedente, facilmente trasformabile a questo punto in un dialettale Sandë Jannë (sempre per distacco della D di D-iano e sua agglutinazione con il San precedente) e, con il beneplacito della Chiesa, nel cristiano Sanctus Johannes. Oppure si sarebbe potuto passare a Sandë Jannë attraverso una mera semplificazione aplologica direttamente da Sandë (D)ianë. Il fatto confermerebbe quindi la presenza anche in questo luogo di una divinità pagana il cui nome aveva la stessa radice del vicus , e cioè Eidius, Eidianus. Sicchè, a mio parere, il nome remoto del vicus Eidius sarebbe continuato oggi dal toponimo Vëcènna mentre Sandë Iannë sarebbe legato più al nome della divinità e Ozzanello al relativo villaggio medievale. Anche a Cerchio, ma nel piano lungo la strada che dalla via Tiburtina conduce a Fucino, c’era nel medioevo una chiesa, con relativo villaggio, di Sancti Viti in Ozzano . Io sono del parere che quest’ultima specificazione (Ozzano) derivi dalla fonte San Vito ancora esistente, se si tiene presente che a Celano e anche ad Aielli un nome come Vittoriano, ad esempio, era pronunciato in antico Uttriànë: quindi un eventuale originario etnico *Vitianus avrebbe dovuto dare come esito *Utiànë e poi *Uzzànë, *Ozzànë. Il diminutivo Ozzanello forse è spiegabile con la necessità di distinguere il villaggio da quest’altro Ozzàno, a meno che non si debba spostare tutto nella preistoria e considerare il suffisso –ello come un apparente diminutivo, spiegabile in realtà come radice per ‘acqua’ identica a quella della attigua località Font-ill-ara. Allora sarebbe sensato porre la motivazione dell’acqua all’origine remota dei relativi toponimi. La presunta divinità *Eidianus è supponibile, quindi, che sia divenuta tale (e tale sia rimasta nel nome) prima che la vena d’acqua ad essa collegata, e il connesso vicus, acquisissero anche l’ultima radice –ello. La probabile forma abbreviata Eidi dell’epigrafe potrebbe sottintendere un *Eidiani ma anche un *Eidianelli, da cui l’Ozzanello medievale.
Io insisto comunque sull’idea, manifestata in altri scritti (cfr. il mio articolo Il nome del Paese di Cerchio), che la figura di Ercole, figlio di Giove, in questo caso coincidesse con una divinità solare, la quale nel trascorrere dei lunghi millenni della preistoria potè attrarre a sé molti nomi, sempre attinenti al culto del Sole. E in effetti il nome del vicus Eidus, Eidius (Eidium?) all'origine magari riferito alla vena d'acqua del luogo potè attrarre un nome di divinità identico al lat. Eid-us, più comunemente Id-us ‘Idi’, che nel calendario romano cadevano normalmente il 13, in alcuni mesi il 15, giorno dedicato a Giove, divinità del cielo e della luce diurna, cui il flamen Dialis sacrificava in quel giorno una pecora bianca, la cosiddetta ovis idulis, appunto. Secondo Macrobio l'etrusco idus significava 'giorno'. Era in auge in passato, per lat. Idus, l’ipotesi di connessione con la radice indeuropea idh col valore di ‘brillare’: questa connessione è stata abbandonata senza però trovare una soddisfacente proposta alternativa: a mio avviso sarebbe invece il caso di tornare a quella precedente ipotesi. Il sistema calendariale romano derivava da uno precedente basato sulle fasi lunari, in cui le Idi corrispondevano alla "luna piena". Allora un nome come quello di Eidus nella nostra epigrafe potrebbe aver attratto nella preistoria il culto di una divinità lunare dal nome simile che va a combaciare, a mio avviso, col secondo componente di Mon-eta, appellativo di Giunone, considerata anche divinità lunare. La località Santa Monica (cfr. nel mio blog l'articolo Località Santa Monica o Li Cantoni), luogo di ritrovamento dell'epigrafe, confermerebbe questa mia supposizione. E' probabile quindi che in questi luoghi vi sia stato in epoca preistorica un culto per le due divinità del cielo, legate etimologicamnte alla luce diurna e notturna. Una confraternita di Santa Monica e un altare di Santa Monica all'interno della Chiesa della SS. Trinità di Aielli compaiono in documenti dell'archivio diocesano a partire dalla prima metà del '600: chiaro indizio di un culto antichissimo tramandatosi attraverso i secoli. Copie dei detti documenti mi sono state gentilmente fornite dall'amico Maurizio Di Censo. Un'altra possibilità interpretativa viene offerta da uno degli epiteti di Ercole, cioè Monoecus (cfr. portus Herculis Monoeci nell'attuale Principato di Monaco). Allora il nome della località Santa Monica potrebbe essere il riflesso dell'epiteto, diventato femminile per influsso del nome della Santa cristiana. I toponimi conservano gelosissimamente i loro millenari segreti che è spesso difficile scoprire, ma una cosa è certa: essi non sono quasi mai mero e vano flatus vocis nè sono da interpretare per quello che evidenziano in superficie, come a mio avviso dimostra il nome di questa località. Il poeta latino Anneo Lucano (I sec. d. C.) accenna al porto di Monaco in questo brano della Farsaglia (I 405-8):

Quaque sub Herculeo sacratus nomine portus
urget rupe cava pelagus; non Corus in illum
ius habet aut Zephyrus: solus sua littora turbat
Circius, et tuta prohibet statione Monoeci.

In sostanza il poeta osserva che il porto d'Ercole è riparato naturalmente da ogni parte dai venti tranne dalla parte del vento Circius o Cercius, che, solo, riuscirebbe a sconvolgerne la spiaggia e a proibirne l'accesso con le grosse onde del mare. Ora, però, sorge la difficoltà che il Circius è altro nome del Corus o Caurus, vento di nord-ovest o del nord, oggi chiamato Maestrale. E' effettivamente strana questa confusione specie se aggiunta alla considerazione che il porto in questione è aperto all'influsso dei venti provenienti da est, come quello che oggi è chiamato Marino (cfr. Mediterranean Pilot, ii. 132). Io penso pertanto che questa descrizione del poeta non abbia quasi nessun valore reale, ma sia scaturita da qualche racconto mitologico a noi ignoto che collegava il vento Circius con Ercole e il suo appellativo Monoecus, situato a chiusura del v. 408, come a specchio del termine Circius all'inizio dello stesso verso. Questa mia osservazione andrebbe, in effetti, a completare e rafforzare quelle che ho fatte nell'articolo presente in questo blog Il nome del paese di Cerchio, tese a dimostrare uno stretto legame tra il teonimo Hercules e il toponimo Cerchio.
Riporto, per soddisfare la curiosità dei lettori, il testo dell’epigrafe, così come mi è stato comunicato dall’amico Fiorenzo Amiconi di Cerchio che ha avuto contatti col famoso archeologo Cesare Letta: è probabile che qualcosa non sia esatto. Attendo la pubblicazione ufficiale dell’epigrafe.

C. DEIDIO. PE.F. ET. VE. ALFIO. PV.F. MAGISTRES

VECI. EIDI. HERCOLO. LOCAVERONT

I nomi personali Deidio e Alfio, seguiti dagli acronimi dei rispettivi patronimici (la /F./ sta per filios, lat. filius’ figlio’, le lettere precedenti costituiscono le iniziali di nomi paterni) sono dei nominativi della 2° decl.( Deidios e Alfios); magistres sta per lat. magistri ‘autorità, capi (del vicus)’; Hercolo è dativo della 2° decl., quindi diverso da lat. Herculi, dativo della 3° decl. 'per, ad Ercole'; locaveront sta per lat. locaverunt, perfetto, che significa ‘fecero fare, fecero costruire’.

sabato 21 novembre 2009

Commento dell'articolo di Riccardo Regis su alcuni fitonimi di area piemontese

Ho letto il saggio di Riccardo Regis apparso in RIOn, XV (2009), 1, pp. 41-70 e sono rimasto ammirato della sottile e puntuale classificazione deonomastica dei numerosi fitonimi presi in esame. Debbo però dire che a me dilettante di linguistica, sia pure molto appassionato, sono sorti forti dubbi circa la bontà degli etimi di svariati nomi e perciò mi permetto di fare la seguente osservazione prima di passare all’analisi di casi singoli.

A me pare che la scienza etimologica commetta un grande errore nel far risalire, di fatto, la stragrande maggioranza dei fitonimi al medioevo o al massimo all’ evo antico, perdendo di vista la probabilità che essi affondino invece le radici nello sterminato lasso di tempo della preistoria. Io penso, in effetti, che la più parte di essi ostenti in superficie vesti ingannevoli che offrono un’apparente chiarezza etimologica, mentre la loro vera identità se ne sta a giacere nel profondo.

Io sono del parere, ad esempio, che non si possa accettare ad occhi chiusi l’etimo comunemente proposto, dagli antichi e dai moderni, per il Prunus persica, (it. pesca e persica) che riporterebbe al presunto paese d’origine della pianta, cioè la Persia, mentre risulta che essa è originaria della Cina. Credo in effetti che il nome possa contenere dentro di sé un riferimento alla entità che esso esprime, un frutto rotondeggiante, e che la Persia sia solo il risultato di un incrocio abbagliante. La parola andrebbe divisa nelle due componenti per-sica di cui la prima (cfr. greco perí ‘intorno’) è a mio avviso variante della seconda di greco diós-pyros ‘diospiro, loto’, genere di pianta di cui fa parte anche il Diospyros kaki, originario del Giappone. In greco pyrós valeva ‘grano, frumento’: anche qui si tratta di una ‘rotondità, chicco’. Probabilmente anche il lat. pr-unum ’prugna’ alludeva, nel nesso consonantico iniziale, alla stessa radice: nel mio dialetto di Aielli-Aq la parola è pronunciata, infatti, con un suono intermedio tra le due consonanti, e cioè për-una, pur non accadendo lo stesso fenomeno in tutte le altre parole con le stesse consonanti iniziali. E non è detto che il latino debba servire per forza come paradigma perché potrebbe essere stato proprio esso ad innovare facendo cadere un eventuale suono vocalico originario, in una parola che poteva esistere autonomamente in area italica (cfr. greco pérna ‘prosciutto’ probabilmente dall’idea di ‘rotondità, massa’, it. perla, greco per-óne ‘ardiglione della fibbia, spillone, caviglia, tumore, escrescenza, ecc.’). Da notare che sia l’idea di “punta” come quella di “tumore, escrescenza” fanno capo, secondo me, ad una stessa idea più generica di “spinta, sollevamento, rigonfiamento” entro la quale rientra anche quella di “arbusto, cespuglio, pianta” come nel ted. Trieb ‘spinta, impulso, germoglio’. Va da sé che altra variante della radice in questione possa essere il lat. pirum ‘pera’, un’altra rotondità. La seconda componente di lat. per-sica dovrebbe richiamare il greco sŷkon ‘fico’ ma anche ‘porro sulle palpebre, orzaiolo, tumore’, greco síkyos ‘cocomero’: questi termini potrebbero spiegare anche la seconda componente del fitonimo martin-sec di cui il Regis parla a p. 63, noto anche come pruss ‘peruzza’. Per la prima componente di diós-pyros penserei, oltre che al greco dios-bálanos ‘castagna, lett. ghianda di Giove’, anche all’ungher. dió ‘noce’. Il piem. persi ‘pesca’(p. 55) potrebbe essere il continuatore di greco perséa ‘albero con frutto simile alla pera’ e non forma accorciata di persica.

Si trova in greco anche il termine syko-basíleia ‘fichi reali’ che in realtà doveva richiamare, nella seconda componente, qualche variante di greco pháselos ‘fagiolo, battello’ nonché la seconda componente di gotico weina-basi ‘uva, acino d’uva’, la quale ritorna anche in un nome volgare del frutto della Rosa canina, e cioè caca-vascë per cui cfr. lat. vas ‘vaso, capsula’, it. vascello, dial. aiellese vascéjjë ‘botticella, barile’. Non è azzardato sostenere, a mio avviso, che per la prima componente di caca-vascë sia da tener presente anche il giapponese kaki, frutto ben noto, oltre alle voci caca-fugnë ‘vescia, lett. caca-funghi’ nel dialetto di Ovindoli-Aq, caca-mmàni ‘ciclamino’ nel dialetto di Rocca di Botte-Aq, caca-malune ‘ciclamino’ nel nuorese. Il termine cicla-mino, greco kykláminos, credo tragga la sua motivazione dalla radice tuberosa di forma sferica. La componente –mino sarà variante della seconda di caca-mmani e fa venire in mente il lat. minae ‘sporgenze, merli’. In abruzzese esiste il termine cìcëlë (cicele) ‘ciottolo, endice’ (cfr. Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq., 2004 –ristampa della edizione Nicola De Arcangelis , Casalbordino, 1930) di cui ho scoperto recentemente la forma chichil-one ‘pietra grossa, grandine’ nel dialetto di Lanciano (Chieti) che è la quasi diretta fotocopia del greco kýklos ‘cerchio, globo, bulbo dell’occhio’. A Paganica–Aq la voce caca-vascë indica il ‘ventriglio, grecile’ rimanendo sempre nell’ambito delle ‘rotondità’, le quali includono anche le ‘cavità’.

Alcune volte anche Regis (p. 48) si accorge che i fitonimi non sono sempre credibili: l’aggettivo grech ‘greco’ che si accompagna ad alcuni di essi quali piem. erba greca, fagn grech ‘fieno greco’ per la Cuscuta campestris, oppure műs-c grech ‘muschio greco’ per l’Erodium ciconium moschatum (it. beccho di gru maggiore, becco di gru aromatico) non trova giustificazione plausibile. Ed a ragione, perché dietro di esso credo di vedere qualche base greca ampliata rispetto a quella comparente nel termine kalli-kéra che, oltre a significare ‘dalle belle corna’, designa anche il ‘fieno greco’. Allora, secondo me, si infittisce il dubbio sulla genuinità dell’aggettivo anche per quelle denominazioni per le quali esso sembra credibile come per il fen grech ‘fieno greco’ (Trigonella monspeliaca) già nota in età classica col nome di faenum graecum. Il fatto è che l’idea che sorregge il concetto di ‘corno’ deve essere simile a quella che sorregge l’idea di ‘stelo, erba, escrescenza’. Lo stesso gioco dei travestimenti è messo in opera da uno dei nomi correnti per la Calluna vulgaris, cioè quello di crecchia, grecchia il quale rimanda ad un precedente *grec-ula. Il gioco si ripete alla grande con l’ornitonimo Anas crecca , riferito ad un’anatra nota anche come crec-ola, grec-orello, nomi la cui base è presente già nel lat. querque-dula ‘alzavola’.

La ciresa greca (p. 48) per il Celtis australis (it. bagolaro) il cui frutto già i latini chiamavano faba graeca mi offre il destro per importanti osservazioni. Intanto non è azzardato in questo caso accostare l’aggettivo graeca al grecile degli uccelli, noto anche come cipolla, che è tutto dire. Inoltre non credo che ciresa stia qui come normale metafora di it.ciliegia (greco kérasos). Purtroppo l’abitudine inveterata di riportare quasi tutti i termini ai più recenti strati linguistici non tenendo conto della loro preistoria, che pure può essere in qualche modo avvertita e ricostruita attraverso l’analisi profonda dei significati, ci costringe ad errori di prospettiva notevoli. Fin tanto che restiamo convinti, ad esempio, che il significato di kérasos ‘ciliegio’ sia stato l’unico ad accompagnare la parola fin dai primordi lontanissimi nella preistoria, e che esso non ne avesse invece uno più generico di ‘frutto, rotondità’ o anche ‘germoglio, albero’, non potremo evitare di subordinare a quel significato specializzato nello strato linguistico greco-latino, anche tutti gli altri che a quanto pare esistevano come cercherò di mostrare con gli esempi che farò, e che non accettavano lo status di sudditi rispetto all’altro. A conforto di questa mia tesi mi viene incontro la nota parola dialettale di ascendenza greca crësòmmëla (con varianti) ‘albicocca, pesca’. Solitamente si afferma che essa derivi dal greco chrysó-melon ‘mela d’oro, probabilmente cotogna’ ma nel greco moderno la si ritrova ad indicare l’ ‘arancia’. Ora, si dà il caso che nel dialetto di Torano-Ri crisò-mmola designa la ‘testa, capo’, il che mi aiuta a sostenere che il significato profondo della prima componente del termine dovesse essere quello corrispondente alla radice indoeuropea per ‘testa’, e cioè *keras di greco kéras ‘corno, testa’, greco kára ‘testa’, greco krás ‘testa’, la cui radice è in fondo simile alla prima di chrysó-melon. Non si può pensare ad un uso metaforico di crësommëla ‘albicocca’, data la grandezza della ‘testa’ rispetto a quella del frutto. E’ utile citare, a ribadire la cosa, anche il serbo-croato krs ‘roccia’, istriano krasa ‘terra sassosa’ donde il topon. Carso, ma ci viene incontro anche il calabrese grasciò-mulu ‘albicocca’ nonché l’espressione ingl. Carson peach ‘pesca di Carson’ in cui probabilmente la radice si è ammantata del personale Carson. Ma c’è di più. Nel mio dialetto di Aielli le crësommëlë avevano anche il significato di sassi, sassate (Arrëvévanë cèrtë crësòmmëlë! –Arrivavano certe sassate!). Da questo ampio quadro di riferimento si può agevolmente desumere che il significato preistorico della radice non poteva essere quello specializzato di ‘albicocca’, di ‘pesca’, di ‘ciliegia’, di ‘mela cotogna’ o di ‘testa’ ma quello più generico di ‘corpo tondeggiante’ compresa la ‘pietra’ la quale, anche quando è irregolare, mantiene sempre una qualche idea di ‘rotondità, corpo, massa’. Credo inoltre che appartengano alla stessa radice, o sue varianti, i vocaboli lat. grossus ‘fico che non matura’, greco króssai ‘sporgenze di pietra, merli’, greco kórsion ‘bulbo del loto’, ted. Kreis ‘circolo, cerchio’. Così stando le cose il greco chrysó-melon è da considerare un bell’esempio di rietimologizzazione e specializzazione di parola più antica formata da due componenti tautologiche di cui la seconda corrisponde alla seconda di greco tróch-malos ‘ciottolo, sasso’ il quale, per la prima, rimanda a sua volta a greco troch-ós ‘disco, ruota, cerchio, pillola,ecc.’.

A questo punto è lecito sospettare che anche il lat. prae-coqua ‘specie di albicocche’ sia la reinterpretazione di un termine precedente composto di una prima radice per, pri, ecc. già analizzata per per-sica e di una seconda radice mediterranea kok, kuk,ecc. col significato di ‘punta’ o ‘rotondità’. In alcuni dialetti infatti il frutto in questione è chiamato per-cocca (con la seconda /c/ geminata), in linea col corrispondente nome del sardo nuorese marra-cocco ‘albicocca’. La precocità cui il nome latino accenna in superficie avrà naturalmente indirizzato il sottostante significato generico di ‘ frutto’ verso la designazione di qualche varietà precoce della specie. La componente marra- rispunta nell’it. marr-one ‘castagna’ e nell’abruzzese marr-occa ‘ pannocchia, mais’.

L’erba maroca (p. 48), come si avvede il Regis, non dà un’informazione di carattere geografico ma rimanda alle bacche nere della morella. Solo che egli vede l’origine del nome nell’ it. marocca ‘rifiuto, scarto’ forma alterata di marra, con la spiegazione che quelle bacche venivano “scartate” in quanto velenose. A me sembra invece più naturale riagganciare il termine all’abruzzese marrocca prima citato, anche perché l’altro nome della pianta, morella, presenta una base che è variante di marra ‘mucchio, branco’ e non allude al colore delle bacche. L’abruzzese morra, morrë, infatti, significa ‘branco, gregge’ ma anche ‘spiga del frumento o altre graminacee’ perché anche questa è composta da più elementi (chicchi) come se si trattasse di un ‘mucchio, ammasso’. Come si può ben notare, i nomi spessissimo denotano direttamente la sostanza, la natura del referente e pertanto, ogni volta che si va a pescare l’ origine del suo nome in parole variamente ed indirettamente ad esso connesse, senza aver prima tentato questa strada, si commette a mio parere un grave errore di metodo. La forma occitanica paternostre (pp.50-51) per Cholchicum autumnale (it. colchico d’autunno, zafferano falso) non può trovare la sua origine nell’usanza di trasformarne per gioco i bulbi in piccoli grani da rosario o in quella contadina di infilarli al collo dei bambini malati recitando un Padre Nostro ad ogni bulbo. Semmai è il contrario: questi usi sono il riflesso diretto della suggestione esercitata negli uomini del passato, spesso impotenti e disperati dinanzi alla fame e alle malattie, proprio dal nome della pianta, di cui ora non so dare una chiara spiegazione, ma sento che esso potrebbe realmente essere il risultato di un abbaglio: le sue componenti, infatti, potrebbero essere state tre e non due, cioè pat-ern-ostro. L’ipotesi acquista più consistenza se si trae in ballo il nuorese pat-illa ‘pietra’, il gallurese pat-accia ‘sasso’, gallurese pat-ecca ‘cocomero’, ingl. pate ‘testa’; la componente –ern- potrebbe richiamare, ad esempio, il marso-sabino herna ‘pietra’, e –ostro il greco óstreion ‘ostrica, conchiglia’. Anche il nome Colch-icum ‘della Colchide’, affiancato alla denominazione friulana cidiv-oc dal lat. Cilic-us ‘della Cilicia’ (p. 51, n. 21) fa balenare l’idea che si tratti di varianti di parole assonanti preistoriche in rapporto ad un unico concetto di ‘rotondità, bulbo’: cfr. greco kýliks ’coppa, calice, bicchiere’, greco kyllós ‘curvo’, greco kólliks ‘pane d’orzo, pastiglia’, greco kályks ‘calice, bocciolo, cerchietto per capelli’, greco kálche, chálke, chálche ‘murice, conchiglia,voluta’, greco cháliks ‘selce, pietra’. Per l’ Actaea spicata (p. 51 e n. 23) con le varie denominazioni (piem. cristoforiana, it.barba di S. Cristoforo, fr.Herbe de Saint Christophe, ingl. herb Christopher, ted.Christophskraut) non bisogna ugualmente prestare orecchio alle spiegazioni tendenti a collegarne i nomi a S. Cristoforo, protettore dei tesori nascosti e contro la peste, e proporrei invece il confronto con l’abruzz. (cfr. vocabolario del Bielli) fuojjë dë Cristë (foglie di Cristo)‘senape selvatica’, abruzz. cristorë ‘scopa, realizzata legando piante di ginestra’ e farei nel contempo riferimento al lat. crista 'cresta, pennachio’, logudorese cristas ‘sopracciglia’. La seconda componente di Cristo-foro, credo abbia relazione con lat. fur-unculus ‘protuberanza, getto (nella pianta)’, parola che ancora una volta rifiuta, a mio avviso, l’interpretazione metaforica secondo cui queste escrescenze sarebbero come “ladruncoli” che succhiano linfa sottraendola alla pianta. Questo san Cristoforo è a mio avviso una figura mitica i cui contorni si erano probabilmente delineati già in epoca precristiana presso popolazioni orientali. Egli avrebbe subito il martirio in Licia nel 250 come leggo in un sito internet (wikipedia). Secondo una leggenda sarebbe stato un uomo, per taluni un gigante, che faceva il traghettatore su un fiume. Viveva solo in un bosco di cui era padrone. Una notte gli si presentò un fanciullo che gli chiese di portarlo all’altra riva. Se lo mise sulle spalle e, pur grande e robusto, si piegò sotto il peso di quell’esile creatura, che sembrava ad ogni passo pesare sempre più. In alcune versioni della leggenda cresce anche il fiume. Il gigante alla fine, stremato, raggiunge l’altra riva. Il bambino gli rivela di essere il Cristo, dicendogli anche che egli aveva portato sulle spalle il peso di tutto il mondo. Ho messo in evidenza le parole in corsivo per sottolineare che esse, a mio avviso, si possono spiegare tutte con una radice greca, quella del verbo korýssō ‘eccitare, far gonfiare, elevarsi, armarsi,ecc.’ E’ inoltre molto comprensibile, dato il nome del Santo (portatore di Cristo), che in epoca cristiana si formasse una simile leggenda, ma a me pare anche evidente che essa non si sia originata dal nulla ma da precedenti credenze o almeno sfruttando la radice di quel verbo che assuona con la parola Cristo: d’altronde k(o)rystés ‘armato, guerriero, fornito di elmo’ ne è un derivato, e potrebbe giustificare il fatto che il personagggio è considerato uno dei quattordici santi ausiliatori invocati in occasione di gravi calamità naturali o di pericoli vari, come quello della peste. In altra leggenda, in effetti, egli è considerato un guerriero antropofago (cfr. greco koré-nnymi ‘mi sazio di cibo’ che è quindi un ‘gonfiarsi’, della stessa radice di korýsso). Il gigante è il riflesso del ‘crescere, elevarsi’ significato dal verbo, come pure il crescere, ingrossarsi del fiume e l’aumento del peso del fanciullo. Il bosco di cui era padrone mi pare ancora strettamente legato al significato di ‘crescere’ del verbo nonchè ai nomi delle piante nominate precedentemente, in specie il logudorese cristas ‘sopracciglia’. Ora, tornando alla funzione di protettore dalla peste, mi pare di poterne sufficientemente capire il motivo: la forma più comune di peste, quella bubbonica, era caratterizzata dalla apparizione, appunto, di numerosi rigonfiamenti in varie parti del corpo. Secondo alcune versioni della leggenda, infine, il nome originario dell’uomo prima della conversione era Reprobus o Reprobatus: la quasi esatta traduzione in latino del partic. passato passivo ch(ō)ristheís ‘separato, respinto, ripudiato’ del verbo greco chōrízō, da cui sarà derivato anche il suo vivere da solo della leggenda. Questo, secondo me, significa che tutto il patrimonio di racconti, leggende, tradizioni popolari non può essere utilizzato per derivarne l’etimo di un nome: casomai è vero l’inverso: è proprio il nome che spiega la nascita del folclore ad esso relativo.

Ci sarebbero altre interessanti osservazioni relative a molti fitonimi di cui parla Riccardo Regis nel saggio, ma mi fermo qui, anche per non approfittare troppo della bontà del Direttore della rivista.
In ordine al significato di gigante c'è da notare che in diversi paesi della Marsica, tra cui Aielli e Luco dei Marsi, la voce Criste significa anche 'uomo grande e grosso'.



Oggi, 17 agosto 2012, ho incontrato il termine craeso-maelae del dialetto di Spinazzola-Ba che significa 'grossa defecazione'.  La parola è la stessa  di criso-mmola 'albicocca, pesca, testa' anche se è finita ad indicare il prodotto, il frutto di una abbondante defecazione.  Non tutti i cloni di uno stesso termine purtroppo sono fortunati!  ma il prodotto della defecazione può rientrare anche nel concetto di 'mucchietto, grumo, cumulo ecc.' prossimo a quello di 'rotondità, pietra, ecc.'.


Oggi, 5 settembre 2012, ho incontrato un altro splendido termine che suona carasò-mmeli e che significa 'testicoli del toro'.   La parola appartiene al dialetto del paese di Magliano Romano e riconferma il valore generico di 'rotondità, palla, protuberanza, cumulo' del termine che certo non può continuare ad essere ricondotto impunemente al greco chryso-melon 'mela d'oro', quando il greco stesso rietimologizzava un composto tautologico col valore generico suddetto che di volta in volta ne assumeva uno particolare.  Chi continua a farlo, e sono anche  grossi nomi della linguistica, non ha il diritto, a mio avviso, di risentirsi se si osserva che, così facendo, egli sembra appartenere alla preistoria della scienza etimologica.  Nel caso della parola di Magliano Romano si assiste anche ad un altro importante fenomeno: come in moltissimi composti germanici, il primo membro caraso-, che inizialmente aveva lo stesso valore del secondo e cioè 'testicolo' o 'palla'(cfr. napolet. carus-iello 'salvadanaio, palla di creta' che non deriva, quindi, dalla voce carus-are 'tosare' per via della somiglianza con una "testa rapata"! Bello fantasticare!), deve essersi incrociato con altro termine significante 'bue, toro' che ha prodotto la specializzazione del significato dell'intero composto.  In nuorese, infatti, la parola carasu vale 'bue vecchio, macilento', ma anche qui c'è stato l'incrocio col verbo carasare 'abbrustolire, rinsecchire' che ha aggiunto all'originario significato di 'bue' la qualità del rinsecchimento, e della macilenza (cfr. nuorese carasà-mene 'macilenza').  Questo termine carasu 'bue vecchio' è senz'altro in rapporto con un'altra voce dialettale diffusa nel meridione, quella di caruso nel significato di 'puledro' e anche di 'ragazzo', ma ne parlerò in uno dei prossimi  post.