giovedì 3 settembre 2009

La teoria linguistica da me elaborata è in perfetta armonia con le acquisizioni della fisica moderna

Tutti conoscono, almeno nel senso che ne hanno sentito parlare, la teoria della relatività di Albert Einstein ma pochi, tra il grosso pubblico, conoscono il vivace dibattito intercorso tra lo stesso Einstein e il danese Niels Bohr circa la natura e il comportamento delle particelle subatomiche come esse vengono intese nella teoria dei quanti e nel principio di indeterminazione di Werner Heisenberg. Naturalmente il sottoscritto, modesto letterato, non ha una conoscenza di prima mano dei problemi connessi con le varie prese di posizione al riguardo ma è perlomeno in grado di asserire che l’oggetto del contendere tra le varie posizioni coinvolge nientemeno che il considerare il mondo oggettivo da indagare dotato o no di quelle caratteristiche essenziali che erano rimaste salde in tutta la fisica classica e non erano state messe in dubbio nemmeno dalla teoria della relatività: il principio della separabilità (gli enti fisici si comportano in modo del tutto indipendente ed irrelato, senza influenzarsi, quindi, reciprocamente), quello della realtà (gli enti fisici hanno una consistenza ed esistenza reale ed obbiettiva) e quello della località (gli eventi riguardanti un ente fisico sono circoscritti e confinati ad un determinato luogo e non possono essere pensati come provenienti da altri luoghi, magari lontani).
Einstein rimase tenacemente legato, fino alla morte, ai suddetti principii che considerava imprescindibili ed era convinto che si sarebbe potuto escogitare una descrizione alternativa a quella quantistica. Famose sono le sue affermazioni che Dio non gioca a dadi con l’universo e che la luna continua ad esistere anche se non c’è nessuno ad osservarla, visto che la teoria che lui combatteva, pur avendo contribuito ad avviarla, annetteva una importanza notevole all’azione stessa dell’osservazione da parte di uno sperimentatore, azione che avrebbe modificato fatalmente lo status della particella presa in esame, la quale, quindi, non avrebbe mai potuto rivelare il suo volto vero ma solo quello infettato dall’azione stessa espletata su di essa dall’indagatore.
Nel 1964 John Bell mise fine alla annosa disputa dimostrando che Einstein si sbagliava (anche i supergeni hanno, grazie a Dio, qualche limite!) e Bohr aveva ragione, e che quei tre principii non potevano valere per la realtà microscopica delle particelle subatomiche. Questa constatazione aveva un potere dirompente tale da far non solo crollare tutto l’edificio costruito dalla fisica classica che aveva resistito, almeno parzialmente, all’enorme scossa della relatività di Einstein, ma da aprire anche la strada ad una descrizione molto più rivoluzionaria e quasi incredibile del mondo che cominciò ad essere considerato come l’altra faccia di una medaglia includente, tra le sue caratteristiche, categorie come il vuoto e il nulla, complementari a quelle della materia. Una concezione olistica del mondo, quindi, cominciò ad imporsi come quella in cui ogni parte rimanda al tutto, in un vincolo che non consente scappatoie separatistiche. I corpi cominciano così ad essere visti come entità incerte, indefinite e immateriali: la stessa concezione che, della materia, aveva Plotino, caposcuola del neoplatonismo, se non fosse che il filosofo si spingeva fino al punto di negare qualsiasi esistenza alla materia e ai corpi (III sec. d. C.)!
La visione macroscopica tradizionale, che considerava superficialmente il mondo ritenendolo costituito di oggetti distinti, concreti e localizzati aveva evoluzionisticamente creato, sia per quanto riguarda il linguaggio che il formalismo matematico, un apparato conoscitivo umano adeguato, appunto, alla realtà come appariva nella dimensione macroscopica, e non rispondente alle caratteristiche del mondo subatomico che appare retto da principi diametralmente opposti, per cui quelle diversità e frammentarietà di superficie vengono a scomparire e a unificarsi.
Ora, a me pare che i principii classici della fisica di cui sopra siano in buona sostanza negati anche dalla mia visione dei fatti linguistici, segnatamente in relazione alla natura dei significati e, direi, in una maniera che sorprendentemente ricalca la negazione di tali fondamenti da parte della fisica moderna. Se prendiamo, ad esempio, il mio ultimo articolo Fonte della Vita e Fonte della Vipera sui Sibillini e i loro importanti riflessi nella etimologia e nella glottologia in generale si può agevolmente notare che la radice VIT la troviamo ad indicare il “salice” (ted. Weide), il “bosco” (a.a.ted. vitu ), l’ “albero” (a. norreno vithr), probabilmente la “fonte”, in lingua preistorica (significato che ritorna nelle diverse Fonti San Vito nonché nella variante wed/ud, presente in ingl. water ‘acqua’, greco (w)ýdor ’acqua’ ), la “vita”(in latino e italiano). Se ne deduce che il significato di quella radice non era, all’origine, nettamente distinto in modo da applicarsi ad un unico referente ma esso era enormemente elastico, capace di assumere presumibilmente tutti i numerosissimi significati costituenti il patrimonio di una lingua. La caratteristica della separabilità non era il suo forte: questa trionfava macroscopicamente solo in superficie dove i significati mostravano tutto il loro distinto, solitario e sgargiante colore, mentre la radice tesseva una rete sotterranea di rapporti sulla base di analogie nascoste con i vari significati specifici di volta in volta assunti, in modo da dar vita ad un tutto armonico, in una strutturazione di carattere olistico, in cui ogni componente specifica non è solo una mera parte aggiunta alle altre parti ma stabilisce, appunto, un rapporto funzionale e complementare con esse e con il tutto, dato che ogni significato di superficie mantiene nel suo profondo l’impronta di quello genericissimo originario. In questo modo non solo i diversi significati espressi da un significante ma tutti gli altri espressi dagli altri numerosi significanti di una lingua, nonchè da quelli numerosissimi delle altre lingue, entrano in un rapporto di complementarità, innescato dall’unico significato di fondo, che ha dello straordinario e dello sbalorditivo.
Come avviene nel mondo della fisica subatomica si deve riconoscere che nel linguaggio la realtà di ogni significato specifico è piuttosto fittizia, evanescente, instabile perché se andiamo a chiedere i connotati a questi cloni, variopinti e innumerevoli, di quell’unico significato d’origine vediamo che essi non sanno indicarci altro che quella identità originaria corrispondente in qualche modo alla realtà microscopica della fisica, costituita da un significato talmente generico, da andare a coincidere con quello indefinibile di “essere, esistere, ecc.”.
Quanto al principio della località non saprei bene come intenderlo per ciò che attiene ai significati. Ma salta in aria anch’esso se dovessimo pensare che una radice ha quel significato specifico solo in quella lingua o in quel gruppo di lingue considerate affini e non invece un significato generico, sotto di esso, riscontrabile magari anche in lingue distantissime da quella o da quelle considerate affini e in parole di una stessa lingua con significati di superficie nettamente diversi tra loro.
Se la natura del significato è come l’abbiamo delineata, cioè sottoposta agli stessi principii cui è sottoposta la realtà fisica, allora bisogna trarne la sconvolgente deduzione che con ogni probabilità tutta la nostra vita spirituale, di cui il linguaggio è parte importante, variamente chiamata anima, mente, spirito,coscienza, intelletto, ecc. è da considerarsi una emanazione della materia e del corpo proveniente dal basso, come sostengono Piergiorgio Odifreddi, Douglas Hofstadter ed altri, e non un qualcosa di separato dal corpo che viene dall’all’alto (divinità), secondo la credenza espressa dalla Chiesa Cattolica e da altri. Mi pare che i tempi siano maturi, visti gli studi condotti in proposito con metodo scientifico e con prospettive nuovissime e inedite aperte dalla teoria dei quanti, perché almeno alcune delle vecchie questioni metafisiche vengano definitivamente messe in soffitta e dimenticate. Lo stesso Odifreddi lucidamente osserva (Il Vangelo secondo la scienza,1999, pag. 99): “ Nello spettro che va dall’atomico al culturale, mente e coscienza sono scivolate da un estremo all’altro: eliminate gradualmente dalla storia, dalla sociologia, dalla psicologia e dalla neurofisiologia, esse si ritrovano inaspettatamente oggi nella fisica delle particelle e del cervello.
Può dunque essere ormai prossimo il superamento dell’attuale situazione paradossale: che possediamo precise teorie scientifiche dei fenomeni materiali che conosciamo indirettamente, mediante i sensi, ma solo vaghe teorie filosofiche dei fenomeni mentali che conosciamo invece direttamente, per introspezione”.
Ebbene, la mia indagine sulla lingua porta proprio alla scoperta e alla conferma di questa strettissima connessione tra i fenomeni linguistici e quelli della fisica delle particelle. Le conseguenze di questo fatto ci costringeranno ancora una volta ad abbassare la cresta come è già successo con l’elaborazione del sistema eliocentrico di Copernico e Galilei che spodestò la Terra dalla sua posizione privilegiata al centro dell’universo tolemaico e con la teoria dell’evoluzione di Darwin che ci accomuna agli umili animali. Si direbbe che Dio si diverta a giocare a nascondino con noi a mano a mano che le scoperte scientifiche gettano luce sull’universo e sull’uomo stesso: non arriveremo sicuramente mai a trovare una prova dell’esistenza di Dio che continuerà sempre ad arretrare, dinanzi ai nostri passi, dal posto dove presumevamo di avvertirne la presenza e dove invece, con nostro forte disappunto, sentiamo spirare un arido vento del deserto. Ma nel contempo comunque la materia, solitamente contrapposta nel nostro immaginario allo spirito, proprio col favore del linguaggio che alimenta simili inesistenti dicotomie, viene perdendo il suo peso terrestre svelando sempre più la sua natura incorporea, eterea, spirituale appunto, come aveva previsto Plotino.