venerdì 3 luglio 2009

Il linguaggio e la filogenesi

Credendo nell’evoluzionismo darwiniano considero il linguaggio una mera funzione dell’organo del cervello, non molto diverso per quanto riguarda la sua formazione, dal meraviglioso organo della vista, ad esempio, strumento perfetto evolutosi nel corso di milioni di anni, a partire dagli invertebrati. Solo che la vista ha, diciamo così, la sua sede in un organo ben definito, l’occhio, esclusivamente preposto all’esplicazione di quella funzione anche se collegato anch’esso al cervello attraverso il nervo ottico, mentre il linguaggio, considerato nella sua funzione di elaboratore di concetti, è solo una delle attività e delle funzioni del cervello, la quale ne coinvolge segnatamente alcuni settori ma anche diversi altri le cui modalità d’intervento, nel gran concerto allestito per la produzione del linguaggio, non sono però ancora ben chiare. Inoltre l’occhio, attraverso la retina, trasforma gli impulsi luminosi in immagini della realtà sostanzialmente identiche per tutti gli uomini, mentre il linguaggio, considerato sotto l’aspetto del mezzo sonoro di cui si serve per la trasmissione dei concetti, sembra refrattario a qualsiasi parametro unificatore delle macroscopiche diversità fra le lingue. Così stando le cose, potremmo concludere che, sì, gli involucri sonori delle parole (significanti), peraltro semplici veicoli di trasmissione, sono diversi di lingua in lingua, ma che i concetti da essi trasportati (significati) sono più o meno simili presso tutti i popoli, e potremmo sentirci con ciò appagati. Ma resterebbe comunque irrisolto il problema importante dell’origine dei tanti concetti di ogni lingua, e se noi credessimo di risolverlo sostenendo che essi non sono altro che riflessi carichi delle condensate caratteristiche essenziali di ognuna delle varie entità del mondo reale, come del resto ha fatto la filosofia da Socrate in poi, ci troveremmo dinanzi ostacoli insormontabili, a partire dalla necessità di chiarire, prima della nominazione delle cose, quali fossero quelle caratteristiche, compito per nulla agevole, come ho spiegato negli articoli “ Fonte della Vita e Fonte Vipera nel Parco dei Sibillini” e “ Riflessioni sulla natura del concetto”. Sembrerebbe restare, allora, la sola possibilità che il concetto sia stato il prodotto del cervello, libero, estroso, casuale, imprevedibile, diverso per ogni singolo referente da comunità a comunità di parlanti, cosa che delineerebbe uno scenario iniziale caratterizzato da anarchia e caos, i quali si sarebbero assommati alla altrettanta libertà, starei per dire libertinaggio, con cui le etichette sonore venivano contemporaneamente applicate ai concetti. Ma in questo modo saremmo costretti ad ammettere che la lingua non è un prodotto coerente della evoluzione dell’animale uomo, non presentando nessuna qualità, nessun meccanismo fondamentale, né nel significante né nel significato, che rechi un’impronta, un segno di quel lungo cammino comune compiuto dall'ominide per arrivare alla elaborazione ed esplicitazione dei concetti, ed essendo inoltre segnata dalla sbrigliatissima inventività del soggetto o del gruppo di appartenenza. E’ questo a mio avviso un salto biologico del tutto innaturale, che aprirebbe uno iato incolmabile, incomprensibile per ogni uomo di scienza, tra un prima ed un poi completamente estranei tra di loro, nel senso che il poi dovrebbe così essere considerato derivato da un prima di tutt'altra natura, in quanto qui non sono in gioco solo alcune cratteristiche di un sistema, quello linguistico, che potrebbero essere anche completamente nuove rispetto al sistema psichico immediatamente precedente, come avviene spesso nell’evoluzione, ma è l’intero fenomeno lingua a rimanere sprovvisto di una solida base evoluzionistica, come se esso fosse stato calato improvvisamente dal Cielo ed immesso gratuitamente nei circuiti cerebrali. Eppure tutti gli esseri viventi avevano cominciato a prendere nota, per così dire, del mondo circostante sin da tempi remotissimi, a cominciare dal paramecio (Paramaecium), protozoo che quando si imbatte in un ostacolo “ prima si ritira e poi riprende a nuotare in avanti, in un’altra direzione scelta a caso” [1]. Esso quindi sa già qualcosa di ‘oggettivo’ sul mondo esteriore. Come mai allora, con la comparsa del linguaggio nell’uomo, è come se, stando alle considerazioni fatte prima sulla genesi del concetto, tutta l’esperienza precedentemente immagazzinata dagli esseri viventi che hanno preceduto l’uomo nella catena evolutiva si fosse volatilizzata, non entrando nella elaborazione dei concetti, che pure in gran parte si riferiscono a quella realtà esteriore?
La risposta sta nel rovesciamento di quelle considerazioni sulla natura del concetto, il quale in realtà è profondamente radicato nell’ humus che ha alimentato la vita evolutiva dell’uomo. Esso è, a mio avviso, proprio l’estrinsecazione di quel vago sapere che già il paramecio andava elaborando, circa l’esistenza di qualcosa d’altro da sé nell’ambiente circostante, sapere che si ritrova dietro ogni singolo concetto di ogni lingua, come vado sostenendo e scrivendo da anni nelle mie riflessioni. In questo senso è allora indiscutibile che la Lingua resta un sistema stupendamente e saldamente unitario, pur nella fantasmagorica mutevolezza dei suoi significati di superficie . Un sistema sviluppatosi al fine di concepire ed esprimere un solo concetto, quello di ‘esistenza, essere’, sotteso ad ogni vocabolo di ogni lingua, concetto che comunque, fino al momento in cui non fu abbinato ad un suono, rimase pur sempre avvolto in un nimbo di indeterminatezza aurorale, che lo rendeva più simile ad una volontà di espressione che a qualcosa di finalmente delimitato con chiarezza. Il concetto di ‘essere’, infatti, pur essendo ormai inserito a pieno titolo nella trama degli altri concetti, conserva ancora, se ci fermiamo un po’ a riflettere, la sua vaghezza originaria: se proviamo infatti a definire che cosa sia effettivamente l’ ‘essere’, ci accorgiamo di dover fare un buco nell’acqua, giacchè non potremo mai evitare, per definirlo, di usare il verbo essere , che ci costringerebbe ad un circolo vizioso tautologico e sterile: se questo verbo infatti viene usato nel senso di 'esistere' non farebbe altro che sottolineare quello che l' 'essere' già include di per sè ; se poi viene usato come copula non troveremmo nessun predicato, che possa aggiungere qualche nozione in più rispetto a quelle già contenute nell' 'essere', massimo genere esistente, che, come tale, è destinato quindi a vivere in splendida solitudine.
Concludendo, voglio far notare che l'idea socratica del concetto è vera nella misura in cui essa restringe tutte le proprietà delle cose, che dal concetto sarebbero espresse in forma essenziale, ad una sola, quella dell' ''essere'', appunto, perchè non si può negare che il concetto resta pur sempre un riflesso, nel cervello, di quella realtà esteriore che lo ha plasmato costantemente in tutta la filogenesi.





[1] Cfr, Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio, Ed. Club degli Editori su licenza Adelphi, Cles (TN),1980, p. 25.

Nessun commento:

Posta un commento